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L’e-commerce moltiplica i rifiuti. Ma le alternative agli imballaggi usa e getta ci sono

La pandemia ha causato la crescita esponenziale della quantità di imballaggi in plastica finiti nei nostri fiumi, laghi e mari. Un trend negativo da cambiare (e in fretta). Per ripensare e ridisegnare il futuro, a partire dagli imballaggi, è fondamentale perciò che tutti si impegnino nell’adozione di un'economia circolare



La plastica è una minaccia crescente per l’ambiente. Ogni anno ne finiscono nei nostri mari tra gli 8 e i 13 milioni di tonnellate. Come scaricare in acqua, ogni minuto, un camion della spazzatura pieno di plastica. Le conseguenze sono ovviamente disastrose. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, il più grande ente benefico per la promozione e sviluppo dell’economica circolare, se non invertiamo presto questa tendenza, nel 2050 nei mari di tutto il mondo potrebbe esserci più plastica che pesci.

Purtroppo però, negli ultimi anni, ci si è messo un “nemico” in più. Parliamo dei rifiuti plastici generati dall’e-commerce, che stanno diventando un problema molto serio a livello globale. Durante la pandemia, a causa del massivo ricorso all’e-commerce, la quantità di imballaggi – di plastica e non solo – che finiscono nelle discariche o negli oceani è aumentata a dismisura.

L’impatto dell’e-commerce sull’ambiente

Uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha calcolato l’impatto dell’e-commerce sull’ambiente. I nostri acquisti online generano un packaging il cui impatto ambientale è dieci volte superiore a quello di un classico sacchetto di plastica: l’equivalente di 182 kg di CO2 contro 11 kg di CO2. Solo nel 2019 l’impronta ambientale generata è stata di 44,4 milioni di tonnellate di CO2, quasi quanto quella dell’intera Svezia.

Cifre impressionanti che sono inevitabilmente peggiorate negli ultimi mesi. La pandemia, infatti, ha cambiato radicalmente il modo in cui le persone fanno acquisti. E con la crescita della vendita online è aumentato in maniera esponenziale anche l’inquinamento da plastica.

Secondo Salesforce, gigante del cloud computing con base negli Usa, le vendite digitali sono aumentate del 71% nel secondo trimestre del 2020 e del 55% nel terzo. Un mare di confezioni e imballaggi destinati alla discarica, all’inceneritore o ad essere dispersi nell’ambiente.

Imballaggi riciclabili ma difficili da riciclare

Il grosso problema della plastica utilizzata negli imballaggi di Amazon e di altri colossi di logistica ed e-commerce infatti è che, nonostante sia riciclabile, farlo non è semplice come sembra. Attualmente, meno del 14% dei quasi 86 milioni di tonnellate di imballaggi in plastica prodotti a livello globale ogni anno viene riciclato. La stragrande maggioranza viene interrata, incenerita o lasciata a inquinare i corsi d’acqua e avvelenare la fauna selvatica.

La plastica è infatti un materiale complesso e, se a questo si aggiungono cattive abitudini e problemi nella differenziata, la questione a livello di impatto ambientale diventa spinosa.

Cattive abitudini

Molti di coloro che ricevono i pacchi non si curano neppure di separare la plastica dal cartone dell’imballaggio primario, mentre in molti Paesi e città le sottili pellicole che costituiscono questi elementi non rientrano neppure nei programmi di raccolta differenziata e vanno portate di persona a un centro di smaltimento.

In California Greenpeace ha citato in giudizio Walmart, la catena multinazionale di vendita al dettaglio, per aver violato le leggi sulla protezione dei consumatori con etichette “false e fuorvianti” sulla riciclabilità dei prodotti e degli imballaggi in plastica usa e getta del negozio Big Box. La maggior parte dei consumatori in California, affermano gli ambientalisti, non ha accesso a strutture in grado di separare questi prodotti dal flusso di rifiuti generali per essere riciclati e finiscono nelle discariche o nell’ambiente.

Il caso Amazon

Secondo un sondaggio fatto ai clienti Amazon Prime, ad esempio, negli Stati Uniti solo il 2% degli intervistati dichiara di smaltire correttamente la plastica degli imballaggi. E Amazon è chiaramente uno dei grandi protagonisti di questa vicenda. Stando a quanto rileva eMarketer, Amazon detiene la quota maggiore delle vendite online al dettaglio negli Stati Uniti con quasi il 39%, con Walmart al secondo posto con il 5,3%.

Uno studio dell’associazione ambientalista Oceana ha calcolato quante tonnellate di imballaggi in plastica di Amazon è finito nei nostri fiumi, laghi e mari. La cifra, relativa al 2019, non tiene conto del boom delle vendite online dovuto alla pandemia, ma è comunque spaventosa. Secondo il report di Oceana, la multinazionale americana lo scorso anno ha prodotto oltre 210 mila tonnellate di rifiuti plastici difficili da smaltire. Se consideriamo che nel 2020 la società è cresciuta a dismisura, arrivando a valere la cifra record di 200 miliardi di dollari di share capital, possiamo immaginare quanto queste cifre debbano essere ritoccate necessariamente verso l’alto.

L’azienda di Jeff Bezos ha registrato un fatturato netto di 96,2 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2020, con un aumento del 37% rispetto al 2019. Durante le festività natalizie ha consegnato 1,5 miliardi di giocattoli, prodotti per la casa, prodotti di bellezza e per la cura personale ed elettronica in tutto il mondo. Il gigante online ha comunque subito smentito i dati di Oceana, sostenendo che “la cifra è esagerata di almeno il 350%”. Amazon afferma di utilizzare meno di un quarto del quantitativo di plastica indicato degli ambientalisti, più o meno 52 mila tonnellate l’anno. Una quantità pur sempre gigantesca.

Oceana ha ribattuto confermando le cifre del suo rapporto, indicando poca trasparenza sul reale uso della plastica da parte del colosso online e sostenendo che “anche se il numero esiguo rivendicato dalla società per l’impronta degli imballaggi in plastica fosse vero, sarebbe comunque un’enorme quantità di rifiuti di plastica, abbastanza da girare un film di millebolle intorno alla Terra più di cento volte, fatto che potrebbe causare problemi molto grandi per la salute degli oceani”. Insomma, nessuna buona notizia.

Cosa sta facendo la società di Jeff Bezos

Amazon sostiene che attraverso il programma Frustration-Free Packaging (FFP) con il quale stimola i produttori a confezionare i propri prodotti in imballaggi riciclabili al 100%, dal 2015 ad oggi è stato possibile ridurre il peso degli imballaggi in uscita del 33%, eliminando oltre 900 mila tonnellate di materiale da imballaggio, l’equivalente di 1,6 miliardi di scatole per le spedizioni.

Secondo Oceana però, tuttora “la quantità di rifiuti di plastica generata dall’azienda è sbalorditiva e cresce a un ritmo spaventoso”. Del resto, è improbabile che la traiettoria ascendente dello shopping online possa invertire presto la propria rotta. Gli esperti prevedono che questo comportamento rimarrà persistente anche dopo la fine della pandemia. Un sondaggio su 2.000 adulti americani condotto da McKinsey & Company a novembre, ad esempio, ha rilevato un aumento netto del 40% dell’intenzione tra gli intervistati di spendere online dopo il Covid-19.

Come ha affermato Matt Littlejohn, vicepresidente senior di Oceana: “Il nostro studio ha scoperto che gli imballaggi in plastica e i rifiuti generati dagli imballaggi di Amazon sono per lo più destinati, non al riciclaggio, ma alla discarica, all’inceneritore o all’ambiente, inclusi, purtroppo, i nostri corsi d’acqua e il mare, dove la plastica può danneggiare la vita marina. È tempo che Amazon ascolti i suoi clienti che, secondo recenti sondaggi, vogliono alternative prive di plastica e si impegnano concretamente per ridurre la sua impronta plastica”. Più di 660mila persone hanno già firmato una petizione su Change.org, chiedendo ad Amazon di offrire opzioni di imballaggio senza plastica e, secondo un sondaggio condotto da Oceana su migliaia di clienti Amazon, l’87% vorrebbero poter usufruire di un servizio del genere.

Un trend da invertire al più presto

Ricordiamo che, secondo le nuove regole europee sulla gestione dei rifiuti entrate in vigore dal primo gennaio, è previsto il divieto di esportazione dei rifiuti di plastica verso i Paesi più poveri del Pianeta. Fino a oggi, i Paesi dell’Unione Europea hanno esportato oltre 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica all’anno, principalmente in Turchia e in Paesi asiatici come Indonesia e Malesia. Ogni Paese dovrà assumersi la responsabilità dei rifiuti prodotti all’interno dei propri confini e adottare in tempi rapidi una riduzione drastica di imballaggi e plastica monouso e a una gestione dei rifiuti più efficiente.

Per David Pinsky, senior plastics campaigner per Greenpeace, il mito secondo cui la plastica può essere riciclata o addirittura gestita in modo efficace è esattamente questo: un mito. “Dobbiamo cercare altre opzioni”, sostiene Pinsky. È dunque necessario abbandonare l’attuale modello lineare di raccolta differenziata e ripensare il modo in cui progettiamo, utilizziamo e riutilizziamo la plastica, puntando su materiali alternativi ed ecosostenibili. Le prime soluzioni di imballaggi plastic-free, sostenibili e riciclabili rimangono però ancora realtà di nicchia. Poco più che soluzioni sperimentali, estremamente limitate nella loro diffusione.

Le alternative in campo

Pensiamo ad Happy Returns, che per ridurre i materiali monouso impiega contenitori riutilizzabili per consentire ai clienti di spedire i resi senza scatola presso i suoi hub di restituzione in California e Pennsylvania. Startup come RePack e LimeLoop offrono buste di spedizione riutilizzabili per la consegna dei loro ordini di abbigliamento online. Asos, una delle 400 aziende e governi che si sono impegnati a ridurre i rifiuti di plastica come parte dell’impegno globale per la New Plastic Economy della Fondazione Ellen MacArthur, sperimenterà i sacchetti riutilizzabili nei primi mesi del 2021.

Per ripensare e ridisegnare il futuro della plastica, a partire dagli imballaggi, è fondamentale perciò che tutti, a partire dai responsabili politici, passando per le aziende – che devono ridisegnare i propri modelli di business – fino ad arrivare alle università, le ONG e i cittadini, si impegnino nell’adozione di un’economia circolare per la plastica.

Facendo leva sulle esperienze di successo e incentivando i comportamenti virtuosi. È la stessa Oceana a sottolineare come Amazon stia agendo bene in India, dietro la spinta di un governo che ha deciso di vietare l’utilizzo delle plastiche monouso entro il 2022. Già a giugno di quest’anno infatti il gruppo ha annunciato di aver eliminato la plastica monouso in tutti i suoi centri di smistamento nel Paese e che il 40% degli ordini viene consegnato nelle sue confezioni originali e senza gli imballaggi Amazon.

Il laboratorio di imballaggi e materiali di Amazon ha anche sviluppato una busta di carta leggera che potrebbe ridurre significativamente l’impronta di plastica dell’azienda se utilizzata al posto delle buste di plastica. Tutte misure che può e dovrebbe cominciare ad adottare anche a livello globale.

fonte: economiacircolare.com

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Fast fashion: il finto e-commerce con mega offerte che svela il prezzo “invisibile” della moda usa e getta




Un e-commerce che offre offerte per capi d’abbigliamento a prezzi stracciati, ma… al momento dell’acquisto la sorpresa: è un sito “fake”, che ha l’unico grande obiettivo di svelare il vero costo della moda “usa e getta” e le conseguenze provocate dalla fast fashion.

Anche nei periodi di crisi, le persone non riescono a rinunciare alla cosiddetta moda veloce (fast fashion). L’Ong Mani Tese ha lanciato la campagna Prezzi dell’altro mondo per sensibilizzare l’opinione pubblica sui molteplici problemi generati dal consumismo sfrenato nel settore dell’abbigliamento. Nei numerosi siti online specializzati possiamo infatti acquistare capi di abbigliamento a basso costo, che con un semplice click saranno spediti al nostro domicilio.

Sul negozio virtuale Prezzi dell’altro mondo, invece, quando acquisti un capo di abbigliamento, sul sito ti compare non solo il prezzo di listino, ma anche il vero prezzo di quell’indumento, che include tutti quei costi aggiuntivi “invisibili”, legati all’insostenibile impatto umano e ambientale del processo produttivo-industriale.

L’industria tessile genera rifiuti e contribuisce all’aumento delle emissioni di gas serra; ogni anno, infatti, produce circa 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra e occupa 38 milioni di ettari di terra, destinati alla coltivazione e alla produzione di vestiti; poi, se i lavoratori e le lavoratrici del settore tessile, soprattutto nel sud del mondo e nei paesi asiatici, vengono sfruttati dai datori di lavoro e subiscono sistematici abusi di ogni genere, alcuni inderogabili diritti umani vengono inevitabilmente violati e nuove forme di schiavitù vengono più o meno apertamente tollerate.

Come funziona

Quando sceglie uno dei prodotti messi “in vendita” e lo mette nel carrello, invece di concludere un grande affare, l’utente viene informato di tutto ciò che quel capo nasconde. Le informazioni sono sia nel relativo video che appare che nella lista della descrizione del prodotto.


@Mani Tese

Per potere vendere a prezzi così bassi, infatti, oltre che sulla scarsa qualità dei materiali utilizzati, la fast fashion si regge sulle strategie di outsourcing e delocalizzazione dei grandi marchi globali, che basano larga parte della loro produzione in stabilimenti caratterizzati da bassissimi costi di manodopera, assenza di tutele efficaci dei lavoratori e scarso rispetto delle normative ambientali.

Il progetto dell’Ong è rivolto soprattutto ai giovani tra i 18 e i 35 anni, particolarmente attratti dalla moda usa e getta pubblicizzata su Internet. Figlia di un modello totalmente insostenibile sul piano sia sociale che ambientale, esaspera la portata delle problematiche già esistenti nella restante industria dell’abbigliamento.

Un vestito venduto a poco prezzo è spesso costituito da materiali di scarsa qualità, nocivi per gli esseri umani (bambini inclusi) e per l’ambiente, poiché attinge a risorse naturali scarse. Le principali marche di abbigliamento del mondo, non a caso, hanno delocalizzato la produzione in paesi dove la tutela legislativa dei lavoratori è meno stringente e/o dove non esiste una normativa ambientale.
Come abbandonare la moda usa e getta

Per modificare le proprie preferenze rispetto al mondo dell’abbigliamento e per diventare consumatori più responsabili e attenti alle implicazioni etiche dei propri comportamenti d’acquisto, puoi fare molte cose:
Compra meno cose e indossale molto di più.
Il tuo stile personale è come te: unico! Non devi per forza seguire le mode stagionali per esprimere la tua identità.
Evita l’acquisto d’impulso: nella maggioranza dei casi è destinato al fondo dell’armadio!
Impara a leggere le etichette e le certificazioni di qualità ambientale e sociale, pur sapendo che non potranno mai dire tutto del capo che stai per acquistare.
Informati sulle tue marche d’abbigliamento preferite e fai sapere loro che per te sostenibilità, rispetto dei diritti dei lavoratori e trasparenza sono importanti.
Scegli tessuti in fibre naturali e, se proprio devi comprare tessuti sintetici, preferisci quelli ottenuti dal riciclo di materiali plastici.
Evita lunghi spostamenti in auto da un negozio all’altro: muoviti a piedi o in bici quando devi fare un acquisto, oppure compra online in modo consapevole.
Scopri il fascino dei negozi dell’usato, vintage e del commercio equo e solidale.
Modifica i tuoi vecchi capi per reinventarli e dare loro una seconda vita (refashion).
Scegli se vuoi applicare uno o più di questi suggerimenti e ricorda che non esiste un modo unico di essere consumatori consapevoli. Proprio come non c’è un modo unico di vestirsi e di dare il proprio contributo per un mondo più equo e sostenibile

Fonti: Mani Tese/Prezzi dell’Altro Mondo


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Acquisti online post pandemia: cresce il quantitativo di packaging e crescono i rifiuti

Confezionare i beni che consumiamo per il trasporto via corriere comporta un utilizzo di materiali decisamente maggiore rispetto agli acquisti fatti direttamente in negozio e, senza regole e buon senso, aumentano i rifiuti. Al netto dell'impero di Amazon, dagli Stati Uniti arrivano tanti esempi virtuosi




L’anno della pandemia ha segnato un’accelerazione degli acquisti online a sfavore delle compere in negozio. Un trend che, con la stagione dei regali, ha visto un’ulteriore crescita. Tra i tanti problemi che questa tendenza porta con sé da un punto di vista ambientale, non ultimo è l’aumento della produzione di rifiuti: confezionare i beni che consumiamo per il trasporto via corriere, infatti, comporta un utilizzo di materiali decisamente maggiore rispetto agli acquisti fatti direttamente in negozio.

Così, nel Natale appena passato, sotto l’albero ci siamo trovati milioni di scatole e scatoloni entrati nel ciclo dei rifiuti. Negli Stati Uniti, dove gli acquisti online erano molto diffusi già prima della pandemia, il fenomeno assume dimensioni preoccupanti e c’è chi sta provando a trovare soluzioni.

Più Internet vuol dire più imballaggio

Secondo dati del Department of Commerce, nel secondo quadrimestre del 2020 i consumatori americani hanno speso 211 miliardi di dollari online, il 16 per cento del totale degli acquisti, segnando un aumento del 44,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Nonostante una lieve flessione nel terzo quadrimestre dovuta alla riapertura dei negozi, l’e-commerce sembra il grande vincitore dell’anno che sta per finire. A conferma, basta citare un dato: nel secondo quadrimestre dell’anno, Amazon ha registrato un aumento del 40 per cento delle vendite per una cifra record pari a 88.9 miliardi di dollari.

Tutti questi acquisti arrivano nelle case dei consumatori imballati in confezioni spesso sovradimensionate. Secondo il rapporto mensile sui contenitori in cartone pubblicato lo scorso luglio dall’American Forest & Paper Association, nel primo semestre del 2020, la produzione di questi contenitori negli Usa è stata del 5 per cento maggiore rispetto allo stesso periodo del 2019.

La spinta è arrivata dal settore residenziale, proprio per via dell’aumento delle consegne a domicilio e del ricorso all’e-commerce. E non c’è solo cartone nei pacchi consegnati nelle nostre case: spesso le confezioni contengono plastica e polistirolo per proteggere i prodotti in esse contenuti. Secondo il rapporto E-Commerce Plastic Packaging – Global Market Outlook, il mercato globale degli imballaggi in plastica per l’e-commerce raggiungerà i 28,60 miliardi di dollari nel 2027, quando nel 2019 ammontava a 9,62 miliardi. Il rapporto cita la crescente penetrazione di Internet e degli acquisti online tra i fattori principali di questa crescita.

Se a restituire all’azienda ci pensa lo stesso corriere

Il problema è reale e tante sono le aziende che stanno esplorando soluzioni. Da una parte, c’è la necessità di confezionare meglio ed evitando lo spreco di materiali: diverse sono le associazioni di categoria che stanno portando l’attenzione verso la spesso frustrante esperienza del consumatore che si ritrova ad aprire grossi pacchi multistrato per scartare prodotti dalle dimensioni ridotte. Dall’altra c’è una spinta a riciclare di più e meglio gli imballaggi. L’Environmental Protection Agency la scorsa primavera ha pubblicato una serie di video informativi per diffondere buone pratiche legate al riciclo, con una particolare enfasi sui cartoni per gli imballaggi, e alcune aziende stanno iniziando a prediligere materiali facilmente differenziabili e riciclabili.

Ma soprattutto si sta diffondendo sempre di più l’idea che le confezioni possano essere utilizzate più volte. In questo filone si inseriscono diverse esperienze che cercando di eliminare gli imballaggi usa e getta dalla catena dell’e-commerce. Tra queste c’è The Lime Loop che offre alle aziende la possibilità di utilizzare i propri servizi e imballaggi per garantire ai propri consumatori un’esperienza di acquisto online a rifiuti zero. Lime Loop fornisce ai propri clienti delle confezioni riutilizzabili all’interno delle quali il consumatore finale riceve i prodotti ordinati online, per poi restituire il contenitore semplicemente dandolo in consegna al corriere. Le confezioni prodotte da Lime Loop sono realizzate in vinile riciclato da vecchi cartelloni pubblicitari. Le aziende le affittano e sono riutilizzabili fino a 2000 volte. Quando il pacco arriva a destinazione, il cliente tira fuori i suoi prodotti, appone sulla confezione un’etichetta di spedizione inclusa nel pacco e lascia o spedisce il contenitore vuoto al corriere che lo restituisce al mittente.

Imballaggi su misura

La startup ha creato anche una app attraverso la quale le aziende possono tracciare le consegne, valutare la soddisfazione dei propri clienti e l’impatto ambientale della scelta di confezioni riutilizzabili. Molto simile è il modello di RePack, nata in Europa nel 2011 e arrivata anche negli Stati Uniti nel 2019. Repack offre ai commercianti che aderiscono le proprie buste riutilizzabili, le loro confezioni sono meno durevoli, ma i vantaggi sono comunque assicurati, non solo per l’ambiente ma anche per i budget delle aziende che, sul lungo periodo, spendono meno in imballaggi. Tante altre sono le aziende che progettano e vendono ai negozi online confezioni riutilizzabili.

Un esempio è quello di Returnity che offre imballaggi su misura e personalizzati sulla base degli specifici bisogni dei diversi venditori che possono ordinarne le quantità di volta in volta desiderate. Concetto simile ma design decisamente meno accattivante per Reusepac e Livingpackets. Il tema interessante, e che approfondiremo molto presto su EconomiaCircolare.com, è per chi invece chi si spinge ancora più in là proponendo alle aziende, non solo gli imballaggi per la consegna, ma contenitori riciclabili per i loro stessi prodotti, come fa Terracycle con il suo sistema Loop.

Intanto, nel nostro Paese sono ancora pochi i negozi online che si servono di imballaggi riutilizzabili. E allora buoni propositi per il nuovo anno: gli acquisti della Befana, meglio farli in negozio.

fonte: economiacircolare.com/


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Amazon Distrugge














Il Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale, lanciato nel 2019 e promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), aveva come obiettivo quello di portare alla luce storie e inchieste relative all’impatto dell’attività d’impresa sui diritti e sull’ambiente.
A vincerlo era stato il team composto da Roberto Pisano, Elisabetta Muratori e Rosario Daniele Guzzo con il progetto d’inchiesta “Amazon: indagine su uno smaltimento al di sopra di ogni sospetto”, che si proponeva di identificare i meccanismi di smaltimento della merce invenduta da parte di Amazon, uno degli attori protagonisti dell’e-commerce a livello globale.

I tre autori erano stati scelti durante la cerimonia di premiazione, tenutasi il 2 maggio 2019 presso la Fondazione Feltrinelli, fra una rosa di sei finalisti da una giuria composta dai giornalisti Gad Lerner, Tiziana Ferrario, Gianluigi Nuzzi, Francesco Loiacono e dal Direttore Comunicazione di AICS Emilio Ciarlo.
Alla selezione dei finalisti del premio avevano contribuito, inoltre, le giornaliste Eva Giovannini e Stefania Prandi e il direttore di Fanpage.it Francesco Piccinini.

AMAZON, UNO SMALTIMENTO
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
Dalla distruzione di massa dei beni invenduti a una nuova economia circolare.

di ROSARIO DANIELE GUZZO, ELISABETTA MURATORI, ROBERTO PISANO

  1. LIBERI DI DISTRUGGERE
La sequenza di camion disposti sul retro del magazzino si allunga a perdita d’occhio. I gaylord, enormi contenitori riempiti da migliaia di oggetti, sono pronti per essere stivati sugli autotreni in attesa. Sulle scatole la destinazione: destroy.
Secondo le testimonianze raccolte, in Italia il gigante del commercio on-line Amazon distrugge mensilmente fino a 100 mila prodotti nuovi nei poli logistici del territorio. Si tratta di resi danneggiati e beni invenduti: solo una minima parte di questi trova una seconda vita sugli scaffali o diventa un dono. Per il resto delle merci, il capolinea è la pressa di un’azienda incaricata da Amazon allo smaltimento dei beni che non trovano più spazio nelle corsie dei suoi immensi magazzini.
I prodotti condannati alla distruzione hanno gestazione lunga ma vita breve: dalle materie prime per costruirli estratte nell’altro emisfero all’assemblaggio, che avviene spesso molto lontano, fino ai mezzi di trasporto più vari, per arrivare su gomma, rotaia o via mare nei magazzini italiani. E infine, invenduti, ancora avvolti nei loro involucri di plastica, dritti verso il macero.
È nelle pieghe di un regolamento forgiato dalla rapida conquista dei mercati esteri che si gioca la partita della responsabilità. Il prodotto che ordiniamo può avere tre diverse tipologie di provenienza: può essere di proprietà di Amazon oppure di un venditore che si serve solamente di questa vetrina digitale (oggi il 58% delle unità vendute sulla piattaforma). O ancora, la merce di un fornitore esterno che acquista solo i servizi di logistica.
Nell’ultimo caso a decidere delle sorti di resi e prodotti alla fine della scadenza non sarebbe infatti la multinazionale di Seattle, e neanche la sua controllata con sede in Lussemburgo, il piccolo paradiso che accoglie i giganti che vogliono stare con un piede nell’Unione Europea. A disporre la distruzione degli oggetti oltre la giacenza concordata è il fornitore stessopadrone di fare ciò che desidera con la sua merce in virtù di una normativa sulla distruzione volontaria che si sviluppa alla fine degli anni novanta. A eseguire l’eliminazione è invece una piccola azienda dell’indotto locale alla quale viene appaltato lo smaltimento.
Per qualche centesimo in meno. Secondo il tariffario in vigore tra il 2017 e il 2018 le tariffe dello smaltimento rendevano immensamente più conveniente distruggere invece che restituire25 centesimi per unità il costo del reso al fornitore per un articolo di dimensioni standard (fino a 12 chili e dimensioni di 45x34x26cm) contro i 10 centesimi dello smaltimento…



Carta e cartone. A Milano la campagna 'Carrello virtuale, imballo reale'

Al via la campagna di sensibilizzazione sulle corrette modalità di smaltimento di scatole e scatoloni in cartone promossa da Comieco e AMSA Gruppo A2A




















Ogni giorno (lavorativo) circa 1 milione di pacchi viaggia su strada per raggiungere i consumatori italiani che hanno acquistato online.
L’e-commerce è un fenomeno sempre più rilevante e in un contesto internazionale in cui il numero di consumatori online cresce in maniera inarrestabile, anche l'Italia ha la sua cospicua parte di web-shopper (ben 22 milioni secondo le ultime stime Netcomm-Human Highway).
Nel 2018 il valore degli acquisti online toccherà, secondo i dati dell'Osservatorio eCommerce B2c, i 27 miliardi di euro con un incremento di oltre 3,6 miliardi di euro rispetto al 2017.

Cosa acquistano esattamente gli italiani sul web? Fondamentalmente biglietti aerei, vestiti, libri, articoli per la casa, giocattoli e cibo.

Nello specifico, l’eCommerce di prodotto ha generato nel 2018 circa 260 milioni di spedizioni: la concentrazione è poi maggiore al Nord (soprattutto nelle grandi città), dove arriva il 56% del volume totale delle spedizioni. Nel Centro finisce il 23% del flusso e nel Sud e Isole il rimanente 21%.
In uno scenario che vede un numero così ingente di pacchi, per la maggior parte in materiale cellulosico, in circolazione è indispensabile che i Comuni si attrezzino con potenziamenti del servizio di raccolta per gestire le maggiori quantità di carta e cartone che entrano nelle case degli italiani.

Milano, grazie al lavoro di AMSA Gruppo A2A, si è già attrezzata per far fronte a queste nuove abitudini di consumo rinforzando i ritiri della frazione cellulosica.

Ma d’altra parte è altrettanto indispensabile che anche i cittadini facciano la loro parte imparando a conferire correttamente questa tipologia di rifiuto e la campagna di sensibilizzazione promossa da Comieco e AMSA punta proprio a ricordare le semplici operazioni da fare per garantire il corretto smaltimento dei cartoni dei pacchi e-commerce:

- Separare il cartone da elementi estranei come scotch e plastiche che contengono le bolle di consegna e l’indirizzo di destinazione
- Togliere se possibile le grosse graffette metalliche che a volte saldano il pacco
- Piegare e appiattire il cartone in modo che occupi il minor spazio possibile nel cassonetto
- Buttarlo – ovviamente – nel cassonetto della carta.

La campagna è on air fino al 31 dicembre 2018 sui due principali siti e-commerce (Amazon ed E-Bay) e nelle stazioni centrali della metropolitana di Milano.

Link: www.amsa.it


fonte: www.ecodallecitta.it

Dalla Cina un messaggio “in una scatola” riutilizzabile per un nuovo e-commerce

I rifiuti da imballaggio derivanti dalla crescita del commercio online stanno diventando un flusso importante nel rifiuto urbano che richiede politiche di prevenzione alla pari di altri rifiuti generati dal consumo di cibo e bevande da asporto. Finalmente arriva dalla Cina un importante segnale da parte del suo più importante operatore del commercio online con l’adozione di un imballaggio riutilizzabile.  


























JD.com (abbreviazione di JingDong ) è il più grande rivenditore online B2C in Cina e al terzo posto nella classifica mondiale come volume di affari. I suoi oltre 300 milioni di clienti attivi acquistano in media 26 articoli all’anno. JD.com, che fornisce un servizio simile a quello di Amazon, ha investito molto nella logistica e nelle infrastrutture per garantire che le merci vengano consegnate lo stesso giorno se ordinate entro le ore 11:00. Il 90% degli ordini che riceve viene mediamente consegnato entro 24 ore.
I piani di espansione internazionale del gigante cinese dell’e-commerce passano anche dall’Europa con un avvio delle operazioni in Germania, Regno Unito e Francia, dove l’azienda ha investito due miliardi in due anni per l’allestimento di una nuova rete logistica europea.
JD Logistics ha presentato lo scorso anno la Green Stream Initiative  che ha l’obiettivo di promuovere l’uso di materiali di imballaggio sostenibili e ridurre l’impatto ambientale dell’intera catena di fornitura. Un progetto dell’iniziativa che è stato appena lanciato permette ora ai clienti di JD di scegliere una spedizione con imballaggi riutilizzabili. Si tratta di scatole di colore verde  destinate a spedizioni in cui è richiesto un imballaggio di piccola o media dimensione che possono essere riutilizzate sino a 10 volte.
Secondo JD, il programma può fare risparmiare 32,5 milioni di RMB (circa 4.680.400 milioni di dollari) all’anno, qualora il 10% degli ordini totale utilizzasse le nuove confezioni.
Grazie all’adozione di queste scatole JD prevede di ridurre l’uso di imballaggi di 10 miliardi di pezzi entro il 2020. Tra gli altri impegni assunti con la Green Stream Initiative c’è l’obiettivo di riciclare l’80% dei materiali di imballaggio, sostituire il 50% degli imballaggi di plastica con materiali biodegradabili e avere il 100% degli imballaggi composto da materiali riciclabili o riutilizzabili.
Il servizio viene offerto gratuitamente, e l’opzione riutilizzabile può essere selezionata in fase di ordinazione. Chi sceglie questa opzione può restituire l’imballaggio al momento della consegna. I clienti che scelgono la “scatola verde” riutilizzabile vengono premiati con i punti fedeltà “Jingdou” che valgono come buoni per tutti i prodotti presenti sul catalogo di di JD . Le scatole riutilizzabili  vengono ora impiegate per la spedizione di prodotti come gioielli, cellulari, orologi, cosmetici e prodotti per la cura della pelle, ad eccezione del cibo fresco.
Il servizio, che ha preso il via a Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen, si espanderà a Chengdu e in altre cinque città entro la fine di questo mese. Entro la fine del 2018, JD fornirà questa opzione riutilizzabile in 20 città.
La divisione JD Logistics ha introdotto all’inizio di quest’anno a Shanghai una flotta di furgoni ad idrogeno per rendere zero carbon il percorso finale della consegna ai clienti. All’inizio di giugno, la società ha invece presentato una flotta di 50 veicoli a propulsione solare operativi a Pechino.
Visto le similitudini esistenti tra il modello di commercio online di JD e Amazon la richiesta che dovrebbe partire da tutti i governi nazionali e locali in cui quest’ultimo opera è quella di seguire l’esempio del competitor cinese in arrivo sul mercato europeo nei prossimi anni. La città di San Francisco, come viene raccontato in questo video di The Story of Stuff Project deve gestire ogni giorno 100 tonnellate di imballaggi di cartone in più grazie al commercio online.
Tuttavia il precursore di un sistema riutilizzabile parla finlandese e si tratta di RePack vincitore di numerosi premi e ora tra i 10 finalisti di Launch Circular Innovators. In un precedente post abbiamo spiegato come funziona il sistema di RePack al quale hanno aderito oltre 36 rivenditori online in Finlandia e perché l’imballaggio del futuro non può che essere riutilizzabile.
STILI DI VITA E DI CONSUMO INSOSTENIBILIserve azione da parte dei governi locali e nazionali

Secondo i dati del Conai la produzione di imballaggi in Italia ha avuto nel 2016 una crescita del 3,2% rispetto al 2015 e l’impiego di imballaggi è cresciuto del 4,4% .
Nel 2016 il peso degli imballaggi immessi al consumo ha raggiunto i 12,6 milioni di tonnellate con una crescita del 2,2% rispetto al 2015.
Uno studio di GEO -Green Economy Observatory- dello IEFE-Università Bocconi presentato qualche tempo fa ha stimato quanti rifiuti da imballaggio potrebbero essere prodotti al 2030. Il modello utilizzato dallo studio ha quantificato in 4 milioni di tonnellate la quantità di rifiuti che sarebbe possibile evitare grazie a politiche di riduzione e innovazione tecnologica. Quest’importante riduzione viene però minimizzata da un aumento nella produzione di rifiuti – che vale più del doppio– dovuto alle modalità di consumo e stili di vita . Tra i fattori che contribuiscono all’aumento degli imballaggi c’è un crescente ricorso agli acquisti online e la riduzione della dimensione dei nuclei famigliari che favorisce un maggior consumo di cibo pronto all’uso e monoporzioni a maggiore impatto di packaging. L’approfondimento sul tema dello scorso anno, drammaticamente attuale, visto lo stato di paralisi degli impianti nazionali, l’emergenza dietro all’angolo(non solamente per la capitale) si trova a questo link e negli articoli correlati segnalati a fine pagine.

fonte: https://comunivirtuosi.org

Cresce l’e-commerce, crescono anche i rifiuti: servono soluzioni per imballaggi sostenibili

















Con l’aumento degli acquisti online, aumentano anche gli imballaggi che diventano scarto. L’associazione americana Ameripen accende i riflettori sul problema e individua cinque principali aree d’intervento per affrontare il problema.
Gli acquisti viaggiano sempre più tramite internet: in Italia, nel 2016, gli utenti che hanno effettuato acquisti online sono aumentati del 10% rispetto all’anno precedente, per un totale di 20.7 milioni e un valore globale delle transazioni pari a 20 miliardi di euro (fonte Netcomm). Per il 2017, si prevede una crescita annua del 19%: questo aumento riflette una tendenza globale che pare destinata a protrarsi negli anni a venire.
Come ogni innovazione, anche il commercio online porta con sé vantaggi e rivela, d’altra parte, qualche problematica. Negli Stati Uniti, il gruppo Ameripen (American Institute for Packaging and the Environment) accende i riflettori sulla seconda categoria, spingendoci a porre attenzione al tema del packaging. Con l’aumento degli imballaggi, infatti, si fa sempre più accentuata la necessità di trovare soluzioni sostenibili per la produzione e per il recupero. L’associazione ha pubblicato un white paper nel quale identifica 5 fronti sui quali intervenire per poter ridurre l’impatto ambientale della crescente quantità di packaging prodotta dal commercio virtuale:
  1. Accrescimento della collaborazione e della trasparenza favorendo una maggiore consapevolezza, da parte delle aziende, riguardo ai migliori formati e ai materiali più adatti per la vendita tramite e-commerce, aumentando la sostenibilità e diminuendo i costi associati al danneggiamento dei prodotti durante spedizioni e trasporti.
  2. Collaborazione tra tutti gli attori della supply chain per la creazione di una filiera virtuosa riguardante i nuovi materiali che si stanno diffondendo per rispondere alle specifiche esigenze del comparto e-commerce.
  3. Incremento della ricerca sui materiali da imballaggio destinati all’e-commerce, con lo scopo di sviluppare strategie per la riduzione, lo smaltimento e il riuso della materia prima.
  4. Migliorare la logistica di ritorno, anche tramite nuovi imballaggi in grado di ridurre il rischio di danneggiamento dei prodotti.
  5. Sviluppo di nuovi standard di sicurezza per nuovi formati e modalità di distribuzione.
La ricerca di soluzioni sostenibili non può prescindere dall’importante vincolo di garantire il minor rischio possibile di danneggiamento e di deterioramento dei prodotti spediti, soprattutto per quanto riguarda il comparto alimentare. Ridurre il rischio di danno ai prodotti, inoltre, permette di limitare il ricorso alla logistica di ritorno, con relativo risparmio di consumi e imballaggi.
La logistica e il trasporto del materiale, così come lo conosciamo oggi, vanno insomma ripensati per far fronte a esigenze recenti e in rapida crescita: chi saprà raccogliere e vincere la sfida?

fonte: http://nonsoloambiente.it/