«Se è vero che le sue linee geometriche rendevano il compito abbastanza facile, il motivo principale, per cui mi ostinavo a riprodurre quest’impianto, è perché era al centro della mia vita», dice Stefanov, mantenendo il tono di voce monocorde, tipico dei tanti uomini che, come lui, si sono temprati in tanti anni di socialismo e non smettono di rimpiangerlo. Stefanov è un ex minatore figlio di minatori, e uno dei 420 abitanti rimasti a Golemo Selo, un piccolo villaggio appartenente alla municipalità di Bobov Dol, il cui destino è indissolubilmente intrecciato a quello dell’impianto a carbone più grande del sud-ovest del Paese.
L’attività mineraria in Bulgaria è cominciata nel 1891 nella lingua di terra che da Pernik, città a una trentina di chilometri da Sofia, si estende fino a includere l’intera provincia di Kyustendil, che comprende Bobov Dol e altre sette municipalità. «Quando ci siamo trasferiti in questa casa nel 1970, era tutto un via vai di camion stracolmi di materiale edile», ricorda Stefanov. Uomini provenienti da ogni angolo del blocco sovietico furono richiamati qui per costruire tra il 1973 (anno dell’inaugurazione della prima caldaia) e il 1975 (inaugurazione della terza, e ultima, caldaia) il mega complesso termoelettrico (TPP) ancora attivo. L’unica differenza è che oggi la centrale conta cinque ciminiere per via dell’acquisizione di due nuove unità, dopo che l’impianto è stato dato in concessione all’oligarca Hristo Kovachki nel 2008.
Una foto d’archivio della centrale di Bobov Dol. L’impianto è stato inaugurato nel 1973 e ha attirato lavoratori da tutta l’Unione Sovietica.
Se già allora un Paese marginale sotto ogni punto di vista cominciava ad assicurarsi la sua indipendenza sotto il profilo energetico, oggi il carbone costituisce il 40% del mix energetico e fornisce il 48% dell’elettricità del Paese. In parte, ciò è ancora dovuto alla regione del sud-ovest, ben rappresentata dalle miniere, dalla centrale termoelettrica di Bobov Dol e dal Distretto di Teleriscaldamento di Pernik in mano a Kovachki, il magnate bulgaro dal passato e presente misteriosi.
Indagato a più riprese per evasione fiscale e per riciclaggio di rifiuti illegali provenienti dall’Italia, Kovachki è anche il protagonista della campagna di privatizzazione del settore energetico, avvenuta nei primi anni 2000. Soprattutto, però, l’industria carbonifera bulgara dipende dal distretto di Stara Zagora, 240 km a est di Sofia, che conta diverse miniere e un vasto impianto a conduzione statale, Maritza East, oltre a numerose centrali private (tra cui la più vecchia, gestita da Kovachki stesso).
Bobov Dol, la città degli sfruttati
Camminando per la cittadina di Bobov Dol, che oggi conta non più di 4000 abitanti, non si vede nemmeno una traccia del fermento del passato, durato con alti e bassi fino all’inizio di questo secolo. Lungo il viale principale, i pochi superstiti sono accasciati su panchine traballanti, o si trascinano fino a uno dei due scalcinati bar lungo la piazza principale. La gente non ha più molto da dirsi ed è affidato all’alcool l’ingrato compito di riempire il vuoto che li circonda.
IrpiMedia ha raccolto varie testimonianze tra i residenti di questa e di altre municipalità limitrofe e in molti sembrano discordare su come e quando possa essere iniziato il tracollo economico della regione. C’è chi, soprattutto tra gli anziani ex minatori, non riesce a guardare oltre la fine del socialismo e chi, tra i trenta-quarantenni rimasti senza lavoro e senza speranze, vede nella privatizzazione dell’impianto e nella mancanza di investimenti da parte di Kovachki, l’inizio del declino.
«La fonte della ricchezza di Kovachki rimane un mistero», afferma il report di Greenpeace, Financial Mines, citando un documento confidenziale dell’Ambasciata statunitense in Bulgaria, fatto trapelare a giugno 2009. Grazie a canali preferenziali e a rapporti privilegiati con personaggi chiave del sistema politico e finanziario bulgaro (in primis Ivaylo Mutafchiev della First Investment Bank – FIB), «Hristo Kovachki è emerso come l’attore principale della campagna di privatizzazione del settore energetico», iniziata nel 2000 e terminata nel 2008.
Proprio alla fine del 2008, però, dopo che la procura statale ha aperto un’inchiesta fiscale nei suoi confronti, Kovachki è stato condannato per evasione e i suoi beni temporaneamente congelati, per essere di lì a poco spostati offshore. Quando una nuova legislazione ha limitato il ruolo di tutti gli enti che, pur operando all’interno del settore energetico bulgaro, risiedevano in paradisi fiscali all’estero, le compagnie di Kovachki sono state trasferite verso imprese di facciata con sede in Inghilterra e a Cipro. Da quel momento, il magnate ha dichiarato di volersi allontanare dal business energetico. Peccato che, in alternativa, si sia dato alla politica e che «a oggi mantenga alcune posizioni chiave, proprio lì dove stanno le miniere e le centrali termoelettriche di sua proprietà», secondo Greenpeace.
Se, continua il report, «in un certo senso, i reclami di Kovachi hanno un fondo di verità – e lui non è il proprietario formale di questo impero energetico (sulla carta le compagnie appartengono, infatti, al Consortium Energy JSC), ne è piuttosto il rappresentante e “parafulmine”». Di fatto, comunque, ad oggi il magnate controlla dodici impianti energetici, di cui più di metà a carbone.
Le ambiguità inerenti alle sue attività non si fermano qui. Anzi, proprio quest’anno il portale investigativo bulgaro Bivol ha rivelato la fitta trama di riciclaggio di rifiuti illegali tra Italia – dove a essere coinvolte sono ‘ndrangheta e Camorra – Romania e Bulgaria, rappresentata proprio da Kovachki e dal suo esteso complesso minerario. La foga dell’oligarca nel lanciarsi in nuovi progetti energetici sembrerebbe legarsi ad alcune delle considerazioni dell’inchiesta lanciata da Greenpeace due anni fa. Secondo la stessa, «l’impero del magnate sta subendo una forte flessione, con accatastamenti di passività che ammontano a 575 milioni di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete. La liquidazione di alcuni dei suoi asset è sul tavolo, come già si sta verificando con alcune miniere di carbone, tra cui quelle sotterranee di Bobov Dol».
Come se non bastasse, Greenpeace aveva già previsto allora «come i licenziamenti di massa dei dipendenti avrebbero causato sia la disoccupazione di intere municipalità che la dubbia riabilitazione di vecchie miniere. E come l’azienda non si sarebbe fatta scrupoli a calpestare gli interessi pubblici, nel momento in cui non fosse più riuscita a rimettersi in piedi».
Quando l’impero di Kovachki sembrava ormai spacciato, è arrivata, però, la Commissione Europea a ribaltare ancora una volta la situazione, prima con il Green Deal e poi con svariati miliardi a sostegno di progetti volti a supportare la transizione energetica. È in questo contesto che si inserisce la piattaforma Brown to Green, voluta e sponsorizzata dal braccio destro, nonché volto pubblico e più presentabile, del magnate, Kristina Lazarova.
Una cosa è certa. Il punto di non ritorno è stata la chiusura definitiva delle miniere sotterranee di carbone a dicembre 2018. «Il 98% della nostra economia dipendeva dall’estrazione di carbone, ma invece di trovare delle alternative in tempo, si è pensato bene di chiudere le miniere sotterranee da un giorno all’altro e di abbandonare duemila persone al proprio destino» afferma la sindaca Elza Velichkova, intervallando meccanicamente a ogni tiro di sigaretta un sorso di caffè. «Bobov Dol è l’esempio europeo di quello che non dev’essere fatto».
Se ai massicci tagli del personale si somma l’esodo di tutti quei giovani che sono fuggiti altrove per l’assenza di opportunità, non si fatica a capire il perché dello scenario desolante.
The (un)just transition
«Cosa distingue la nostra dalle altre regioni carbonifere d’Europa?», sbuffa la sindaca Velichkova. «Semplice. Qui la transizione dal carbone non ha avuto nulla di giusto».
A cosa si riferisce Velichkova? Per capirlo, facciamo un passo indietro.

La Bulgaria è uno dei Paesi europei a più alta intensità energetica, ovvero – secondo l’indicatore che rapporta il consumo energetico al Pil – consumerebbe 3,6 volte in più rispetto alla media europea, per convertire l’energia in prodotto interno lordo, e quindi per far funzionare i vari settori e servizi. Inoltre, emette 4,4 volte di emissioni di CO2 in più, principalmente a causa del carbone. Uno spreco energetico, questo, che si traduce in costi spropositati per lo Stato.
La situazione si è fatta particolarmente critica, da quando, con il Protocollo di Parigi, l’anidride carbonica – di cui il carbone è il principale responsabile – è stata identificata come la prima causa del riscaldamento globale e il costo delle emissioni di CO2, a carico dei Paesi e degli impianti che eccedono i limiti, è passato dai 5 euro del 2017 ai 25 euro del 2019 (e ai quasi 30 euro di dicembre 2020).
«All’incirca tre anni fa, quando nessuno in Bulgaria ne parlava, ho sfidato i miei capi, dicendo che era arrivato il momento di affrontare l’elefante nella stanza», racconta Georgi Stefanov, portavoce di WWF Bulgaria, da non confondere con l’omonimo abitante di Golemo Selo. «Non c’era più tempo da perdere; dovevamo focalizzarci sul vero problema, cioè il settore carbonifero, causa dei due terzi delle emissioni di CO2 riportate annualmente nel nostro Paese».
Prendendo esempio da altri Stati, il WWF ha introdotto, primo in Bulgaria, il concetto di transizione verso forme di energia più pulita e, poi, col passare del tempo, di transizione giusta, termine cui fa riferimento anche la sindaca di Bobov Dol, che si riferisce a un cambiamento energetico positivo non solo per l’ambiente, ma anche per l’assetto sociale ed economico delle comunità interessate.
È il 2019 quando il WWF riesce ad attirare l’attenzione di alcuni interlocutori strategici; in primis, di Hristo Kovachki. Le decisioni prese dal magnate fino ad allora, a partire dalla chiusura delle miniere sotterranee a fine 2018, non possono essere ricondotte a politiche verdi ma, piuttosto, a considerazioni di natura economica, essendo diventato il carbone sempre meno redditizio.
«Dopo che Kovachki ha tagliato i suoi dipendenti per ragioni economiche – non sapremo mai di quante persone si tratti, perché lui a Bobov Dol è il dio indiscusso e nessuno osa parlargli alle spalle – siamo riusciti a convincerlo della bontà della transizione», spiega Stefanov del WWF. «Abbiamo iniziato col dirgli che se lui, proprietario di 11 impianti sparsi per il Paese, voleva mantenere un ruolo di primo piano nella produzione energetica, doveva pensare a delle alternative. La svolta è avvenuta, però, quando gli abbiamo riferito che, se si fosse convertito a fonti di energia pulite, la Commissione Europea avrebbe aperto il portafogli».
Per questo, anche il cambio di rotta successivo intrapreso da Kovachki, suggellato con la creazione della piattaforma Brown to Green, sembra avere poco o nulla a che fare con i principi etici. Piuttosto, sarebbe da ricondursi al Green Deal europeo, con l’istituzione del Just Transition Fund a gennaio 2020, e ai 1,1 miliardi di euro stanziati per la Bulgaria, previa consegna di un piano strategico nazionale, da investire nelle due regioni carbonifere di Pernik-Kyustendil e Stara Zagora.
Il complesso carbonifero di Maritza East, a Stara Zagora, conta all’incirca 12 mila dipendenti (e possibili elettori). Per questo, in zona, il Governo si fa carico dei debiti degli impianti in perdita, pur di non mettere la parola “fine” all’industria carbonifera. Ma nel sud-ovest la situazione è molto diversa. Qui l’impero di Kovachki, tra passività di centinaia di miliardi di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete, non avrebbe retto la chiusura delle miniere sotterranee, se non fosse stato per quest’ultima allettante àncora di salvezza.
Ecco perché quella che la sindaca Velichkova definisce come transizione ingiusta è, in realtà, noncuranza del destino della propria gente. Anche in seguito è difficile scorgere in Kovachki e nella sua squadra la volontà di fare del bene alla comunità, quanto, invece, l’ennesima possibilità di arricchirsi.
fonte: irpimedia.irpi.eu
#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897. Grazie!
=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria