#RepairCafe' a #Paciano presso #MercatoDelleCoseBelle - Venerdì 7 agosto 2020
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Sim con plastica riciclata: il progetto eco di TIM
Debutteranno presto le nuove SIM green di TIM, composte per almeno il 60% da plastica riciclata: è l'inizio del cambiamento.

L’obiettivo è ormai noto: TIM vuole diventare un’azienda eco friendly conseguendo la carbon neutrality entro 10 anni. Il primo passo sarà quello di utilizzare plastica riciclata per le loro sim card. Le nuove schede dell’operatore saranno composte, infatti, per il 60% da materiale eco e tutto il corredo (confezione, cartoncini con le istruzioni e via dicendo) sarà biodegradabile. Con questa iniziativa TIM stima di ridurre di circa 13 tonnellate all’anno l’utilizzo di plastica. Un buon punto di partenza che potrebbe portare l’azienda a posizionarsi sul mercato green.
Non è tutto: è prevista anche la diffusione di smartphone ricondizionati. I cellulari saranno venduti direttamente dal gruppo, anche se non è chiaro chi si occuperà del processo di ricondizionamento. Infine, anche per i dispositivi a marchio TIM come i modem o i cordless è previsto l’impiego di materiali riciclati ed ecosostenibili sia per quanto riguarda il packaging sia per la costruzione in sé.
Il piano TIM Green fa parte delle iniziative prese dalla società per abbattere le emissioni di CO2. Il carbon free non è mai sembrato così vicino (ci sarà un bilanciamento per emissioni prodotte e risparmiate grazie a processi produttivi virtuosi); il tutto dovrebbe realizzarsi entro il 2030.
fonte: https://www.greenstyle.it
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Non è tutto: è prevista anche la diffusione di smartphone ricondizionati. I cellulari saranno venduti direttamente dal gruppo, anche se non è chiaro chi si occuperà del processo di ricondizionamento. Infine, anche per i dispositivi a marchio TIM come i modem o i cordless è previsto l’impiego di materiali riciclati ed ecosostenibili sia per quanto riguarda il packaging sia per la costruzione in sé.
Il piano TIM Green fa parte delle iniziative prese dalla società per abbattere le emissioni di CO2. Il carbon free non è mai sembrato così vicino (ci sarà un bilanciamento per emissioni prodotte e risparmiate grazie a processi produttivi virtuosi); il tutto dovrebbe realizzarsi entro il 2030.
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Antibiotici e nanoparticelle di plastica: nelle piante c’è anche questo
Anche se, rispetto all’utilizzo che se ne fa negli uomini e soprattutto negli animali da allevamento i quantitativi impiegati sono molto minori, gli antibiotici vengono impiegati anche sulle colture, spesso senza alcun motivo razionale. E, in questo modo, amplificano il problema delle resistenze, che si trasmettono anche così. E non è tutto: le piante assorbono dal terreno anche le nanoparticelle di plastica, che captano da acqua e terreni.
La questione degli antibiotici sparsi sulle piante alimentari – una pratica esistente da decenni, ma che sta assumendo dimensioni molto preoccupanti – fino a oggi non era mai stata studiata a fondo, e in molti casi non si conoscono neppure le quantità totali usate dai singoli paesi. Ma ora un grande studio prova a definire meglio il fenomeno. A condurlo è stata Plantwise, un circuito di 3.700 “cliniche delle piante” presente in 34 paesi nelle quali chi coltiva può incontrare esperti e trovare risposte per le infestazioni e tutti gli altri problemi legati all’agricoltura, che ha utilizzato dati di organismi quali la FAO insieme a dati raccolti internamente, e ha poi pubblicato i risultati su CABI Agriculture and Bioscience.
Innanzitutto, si legge, su 158 paesi, solo il 3% tiene un monitoraggio completo e aggiornato della somministrazione di antibiotici alle piante: un dato che, da solo, dice molto, soprattutto se si pensa che il 23% dei paesi monitora l’impiego negli umani, e il 23% quello negli animali. Eppure ce ne sarebbe bisogno: in base a quanto emerso in 436.000 documenti dei centri Plantwise di 32 paesi, sono più di 100 le colture sulle quali vengono somministrati antibiotici, e in molti casi si tratta di molecole utili o potenzialmente utili anche per l’uomo, e che quindi andrebbero impiegate con estrema cautela e parsimonia. Stando ai numeri ufficiali, ogni anno decine di tonnellate di farmaci preziosi arrivano nei campi; per esempio, solo per il riso del Sud Est asiatico si parla di 63 tonnellate di streptomicina e 7 di tetraciclina, e in alcune stagioni viene trattato fino al 10% delle coltivazioni.
Uno degli aspetti più negativi, scrivono gli autori, è poi il fatto che questi trattamenti siano spesso del tutto inutili, cioè dati per combattere cose che non hanno nulla a che vedere con le infezioni batteriche come gli insetti, perché si ritiene che gli antibiotici, meglio se in cocktail, possano avere un effetto preventivo: niente di più falso. Sono almeno 11 i protocolli di tutti i continenti tranne l’Africa nei quali si consiglia questo tipo di prevenzione.
Solo per il riso del Sud Est asiatico si parla di 63 tonnellate di streptomicina e 7 di tetraciclina, e in alcune stagioni viene trattato fino al 10% delle coltivazioni
E poi c’è un dato che davvero fa paura: è stato dimostrato che, quando gli antibiotici sono mischiati ad altri fitofarmaci, i batteri amplificano la loro capacità di sviluppare resistenza: in certi casi acquisiscono le mutazioni necessarie fino a 100.000 cicli riproduttivi prima rispetto a quanto non accada se non ci sono altri trattamenti. Ma i batteri resistenti sono poi assunti dall’uomo, soprattutto quando la verdura e la frutta sono consumate crude.
C’è infine un’altra minaccia di cui, per ora, si ha una conoscenza scarsa, ma che probabilmente sarà indagata sempre di più: la possibilità che le piante assorbano dal terreno e dall’acqua i nanomateriali presenti, soprattutto le nanoplastiche. Per capire quanto il problema sia reale, i ricercatori della University of Massachusetts di Amherst insieme a colleghi cinesi della Shandong University hanno condotto una serie di esperimenti sull’ Arabidopsis thaliana, una delle piante più utilizzate in botanica. Anche in questo caso i risultati, pubblicati su Nature Nanotechnology, sono stati preoccupanti: prove al microscopio, genetiche e molecolari condotte per settimane, marcando le piante con sostanze fluorescenti ed eseguendo diversi tipi di test dimostrano senza ombra di dubbio che le nanoplastiche di polistirene, che spesso hanno dimensioni paragonabili a quelle di una proteina o di un virus, entrano nelle cellule vegetali e lì si accumulano, in tutte le radici.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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E poi c’è un dato che davvero fa paura: è stato dimostrato che, quando gli antibiotici sono mischiati ad altri fitofarmaci, i batteri amplificano la loro capacità di sviluppare resistenza: in certi casi acquisiscono le mutazioni necessarie fino a 100.000 cicli riproduttivi prima rispetto a quanto non accada se non ci sono altri trattamenti. Ma i batteri resistenti sono poi assunti dall’uomo, soprattutto quando la verdura e la frutta sono consumate crude.
C’è infine un’altra minaccia di cui, per ora, si ha una conoscenza scarsa, ma che probabilmente sarà indagata sempre di più: la possibilità che le piante assorbano dal terreno e dall’acqua i nanomateriali presenti, soprattutto le nanoplastiche. Per capire quanto il problema sia reale, i ricercatori della University of Massachusetts di Amherst insieme a colleghi cinesi della Shandong University hanno condotto una serie di esperimenti sull’ Arabidopsis thaliana, una delle piante più utilizzate in botanica. Anche in questo caso i risultati, pubblicati su Nature Nanotechnology, sono stati preoccupanti: prove al microscopio, genetiche e molecolari condotte per settimane, marcando le piante con sostanze fluorescenti ed eseguendo diversi tipi di test dimostrano senza ombra di dubbio che le nanoplastiche di polistirene, che spesso hanno dimensioni paragonabili a quelle di una proteina o di un virus, entrano nelle cellule vegetali e lì si accumulano, in tutte le radici.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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Riciclo di classe: 133 scuole mostrano il loro amore per l’ambiente
Decretati i vincitori del progetto scuole di CONAI, a partire dai 1.500 elaborati, inviati da 133 Istituti di tutta Italia. Ai primi posti, i personalissimi sguardi sul riciclo della “Gignese ai suoi prodi” di Gignese e della “Di Via San Salvatore” di Settimo San Pietro

Si chiude con numeri in crescita Riciclo di classe, il progetto ludico-educativo che da quattro anni CONAI dedica ai ragazzi delle scuole primarie di tutta Italia. L’ultima edizione è stata caratterizzata da 1.500 elaborati (lo scorso anno erano 1.047) provenienti da 133 scuole che, nonostante la pandemia e l’interruzione della didattica in aula, hanno aderito con entusiasmo e creatività. Distanti solo fisicamente, gli studenti hanno portato avanti da casa, supportati dalle famiglie e dai loro insegnanti, il lavoro iniziato a scuola.
Riciclo di classe, il progetto 2019/20
Realizzato ancora una volta in partnership con Corriere della sera, per quest’anno scolastico Riciclo di classe è stato aperto da uno spettacolo teatrale: Dipende da noi, atto unico di un’ora andato in scena a Milano, al Teatro Munari, lo scorso ottobre davanti a 400 giovanissimi spettatori. Un plot che strizza l’occhio al fantasy: sei personaggi a rappresentare i sei materiali di imballaggio (acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro), due teenager che scoprono l’importanza del riciclo, due villain pro-discarica. E un messaggio che arriva limpido e forte: la cura dell’ambiente e il suo futuro dipendono anche – o forse soprattutto – da noi.
3.000 kit didattici, poi, sono partiti verso 2.500 scuole: fra i materiali, il copione dello spettacolo e una mini-guida su come differenziare correttamente gli imballaggi e sui loro processi di riciclo.
Con il lockdown, la registrazione dello spettacolo teatrale è stata messa on-line e resa fruibile in streaming. I ragazzi, così, si sono trovati a reinventare il copione della pièce in tante personalissime ri-messe in scena, dimostrando di aver ben compreso l’importanza della raccolta differenziata, primo passo verso il riciclo.
«Non ci aspettavamo una risposta così entusiasta, soprattutto vista la difficile situazione che gli studenti si sono trovati a vivere da marzo» commenta il presidente CONAI Luca Ruini. «È stato sorprendente scoprire come l’emergenza sanitaria non abbia fermato la creatività dei ragazzi. Il loro entusiasmo emerge da tutti gli elaborati che sono stati presentati. Un risultato che ci convince sempre di più della bontà del percorso che abbiamo intrapreso: formare i giovani per una cultura ambientale sempre più forte e radicata, che guardi a un uso delle risorse attento e responsabile».
I premi
Una giuria – composta da esperti in ambiente e in comunicazione di CONAI e di RCS, da una docente di scuola primaria e dallo sceneggiatore di Dipende da noi – ha valutato tutti i progetti presentati in base a pertinenza al tema, creatività e originalità ed efficacia dell’interpretazione.
Due i primi premi.
Per le prime due classi della scuola primaria, la vincitrice è stata la scuola Gignese ai suoi prodi di Gignese (Verbano-Cusio-Ossola) grazie a un efficace mix di disegni, recite filmate dai genitori e persino una locandina promozionale.
Per le classi terza, quarta e quinta della scuola primaria, vince invece la scuola Di Via San Salvatore, di Settimo San Pietro (Cagliari): da applauso il video-spettacolo degli alunni della 4a B, composto da tanti frammenti inviati dai singoli studenti e montati dalla loro insegnante, completo di backstage con commenti sul progetto e sullo spettacolo.
Entrambi gli istituti ottengono 1.000 euro in materiali didattici per le attività scolastiche.
Due ex-aequo per le scuole seconde classificate.
Per le prime e le seconde classi, sul secondo gradino del podio si piazzano la Aldo Moro di Robecchetto con Induno (Milano) e la Armando Diaz di Vernole (Lecce). La prima per un sorprendente lavoro da costumisti: gli alunni della 2a B hanno infatti vestito i panni dei creatori di costumi di scena, dai bozzetti alle realizzazioni con carta, legno, alluminio e plastica. La seconda, invece, grazie ai suoi alunni della 2a A che hanno reinterpretato il copione di Dipende da noi con forti riferimenti al proprio territorio e, di riflesso, alla tutela del mare.
Per le classi dalla terza alla quinta primaria, invece, arrivano seconde la Carlo Levi di Novara e la scuola Di Via Mancini di Afragola (Napoli). La prima ha visto gli alunni della 4a A e della 4a B impegnati nello shooting di tante scene singole poi montate in un unico filmato. La Scuola Di Via Mancini, invece, entra in classifica grazie al progetto degli alunni della 5a H che, divisi in una serie di gruppi (scenografi, costumisti, attori, scrittori, pubblicitari…), hanno realizzato un progetto dettagliato per un nuovo spettacolo teatrale.
Le quattro scuole vincono un premio di 500 euro in materiali didattici ciascuna.
fonte: www.rinnovabili.it
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Riciclo di classe, il progetto 2019/20
Realizzato ancora una volta in partnership con Corriere della sera, per quest’anno scolastico Riciclo di classe è stato aperto da uno spettacolo teatrale: Dipende da noi, atto unico di un’ora andato in scena a Milano, al Teatro Munari, lo scorso ottobre davanti a 400 giovanissimi spettatori. Un plot che strizza l’occhio al fantasy: sei personaggi a rappresentare i sei materiali di imballaggio (acciaio, alluminio, carta, legno, plastica e vetro), due teenager che scoprono l’importanza del riciclo, due villain pro-discarica. E un messaggio che arriva limpido e forte: la cura dell’ambiente e il suo futuro dipendono anche – o forse soprattutto – da noi.
3.000 kit didattici, poi, sono partiti verso 2.500 scuole: fra i materiali, il copione dello spettacolo e una mini-guida su come differenziare correttamente gli imballaggi e sui loro processi di riciclo.
Con il lockdown, la registrazione dello spettacolo teatrale è stata messa on-line e resa fruibile in streaming. I ragazzi, così, si sono trovati a reinventare il copione della pièce in tante personalissime ri-messe in scena, dimostrando di aver ben compreso l’importanza della raccolta differenziata, primo passo verso il riciclo.
«Non ci aspettavamo una risposta così entusiasta, soprattutto vista la difficile situazione che gli studenti si sono trovati a vivere da marzo» commenta il presidente CONAI Luca Ruini. «È stato sorprendente scoprire come l’emergenza sanitaria non abbia fermato la creatività dei ragazzi. Il loro entusiasmo emerge da tutti gli elaborati che sono stati presentati. Un risultato che ci convince sempre di più della bontà del percorso che abbiamo intrapreso: formare i giovani per una cultura ambientale sempre più forte e radicata, che guardi a un uso delle risorse attento e responsabile».
I premi
Una giuria – composta da esperti in ambiente e in comunicazione di CONAI e di RCS, da una docente di scuola primaria e dallo sceneggiatore di Dipende da noi – ha valutato tutti i progetti presentati in base a pertinenza al tema, creatività e originalità ed efficacia dell’interpretazione.
Due i primi premi.
Per le prime due classi della scuola primaria, la vincitrice è stata la scuola Gignese ai suoi prodi di Gignese (Verbano-Cusio-Ossola) grazie a un efficace mix di disegni, recite filmate dai genitori e persino una locandina promozionale.
Per le classi terza, quarta e quinta della scuola primaria, vince invece la scuola Di Via San Salvatore, di Settimo San Pietro (Cagliari): da applauso il video-spettacolo degli alunni della 4a B, composto da tanti frammenti inviati dai singoli studenti e montati dalla loro insegnante, completo di backstage con commenti sul progetto e sullo spettacolo.
Entrambi gli istituti ottengono 1.000 euro in materiali didattici per le attività scolastiche.
Due ex-aequo per le scuole seconde classificate.
Per le prime e le seconde classi, sul secondo gradino del podio si piazzano la Aldo Moro di Robecchetto con Induno (Milano) e la Armando Diaz di Vernole (Lecce). La prima per un sorprendente lavoro da costumisti: gli alunni della 2a B hanno infatti vestito i panni dei creatori di costumi di scena, dai bozzetti alle realizzazioni con carta, legno, alluminio e plastica. La seconda, invece, grazie ai suoi alunni della 2a A che hanno reinterpretato il copione di Dipende da noi con forti riferimenti al proprio territorio e, di riflesso, alla tutela del mare.
Per le classi dalla terza alla quinta primaria, invece, arrivano seconde la Carlo Levi di Novara e la scuola Di Via Mancini di Afragola (Napoli). La prima ha visto gli alunni della 4a A e della 4a B impegnati nello shooting di tante scene singole poi montate in un unico filmato. La Scuola Di Via Mancini, invece, entra in classifica grazie al progetto degli alunni della 5a H che, divisi in una serie di gruppi (scenografi, costumisti, attori, scrittori, pubblicitari…), hanno realizzato un progetto dettagliato per un nuovo spettacolo teatrale.
Le quattro scuole vincono un premio di 500 euro in materiali didattici ciascuna.
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Estate 2020. Il consiglio di Comieco: “Mettete in valigia anche le buone abitudini, come la raccolta differenziata”
Comieco ricorda che anche durante il tanto atteso periodo di vacanza, a non dover andare in ferie sono il senso civico e il rispetto per l’ambiente, e che anche nelle località di villeggiatura è fondamentale continuare a fare correttamente la raccolta differenziata

Anche se in quest’anno così particolare l’estate sarà vissuta con uno spirito differente, il 46% degli italiani non rinuncia alle proprie vacanze e, la maggior parte, si godrà il meritato riposo in Italia. Che sia per ragioni legate alla sicurezza o per motivi di cautela sul budget, infatti, il 96,2% degli italiani che andrà in vacanza nel 2020 (26,7 milioni di persone) sceglierà come meta il Belpaese, soggiornando prevalentemente in alloggi privati, secondo i dati raccolti da Federalberghi.
Quest’anno più che mai, quindi, Comieco, Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica, ricorda che anche durante il tanto atteso periodo di vacanza, a non dover andare in ferie sono il senso civico e il rispetto per l’ambiente, e che anche nelle località di villeggiatura è fondamentale continuare a fare correttamente la raccolta differenziata, mantenendo invariate le buone abitudini.
Il 25° Rapporto Comieco sulla raccolta, riciclo e recupero di carta e cartone colloca l’Italia ai primi posti in Europa per tasso di riciclo degli imballaggi cellulosici (circa 81%, con un aumento della raccolta pro-capite di 1,7 kg nel 2019), dimostrando come gli italiani si impegnino costantemente per differenziare correttamente carta e cartone.
Proprio per questo, Comieco ci tiene a sottolineare come l’attenzione e l’impegno di ciascuno verso questo semplice gesto civico non debbano venire meno quando ci si sposta da casa:
se ogni italiano in vacanza differenziasse dal resto dei rifiuti anche solo 3 riviste, 3 quotidiani, 2 scatole di gelati, 4 cartoni di succo di frutta e 2 fascette dello yogurt si raccoglierebbero ben 140.000 tonnellate di carta e cartone, l’equivalente di una intera discarica: rifiuti “preziosi” che possono tornare a nuova vita grazie al riciclo.
Informarsi
Il primo punto da seguire è quello di informarsi sulle modalità di raccolta nella località prescelta: raccolta porta a porta, contenitori differenziati, suddivisione nei vari giorni della settimana, conferimento, sono tutte informazioni preziose e preliminari per non sbagliarsi, a prescindere dalla regione in cui ci troviamo. È fondamentale ricordarsi che effettuare una corretta raccolta differenziata significa dimostrare attenzione nei confronti della comunità intera e contribuire attivamente al raggiungimento di importanti benefici ambientali ed economici.
Seguire le regole, come a casa
È fondamentale che, come quando si è a casa, anche in vacanza si seguano le poche semplici regole per il corretto conferimento di carta e cartone:
in spiaggia o durante un’escursione in montagna è essenziale raccogliere i propri rifiuti in sacchetti differenziati, per poi conferirli negli appositi contenitori;
carta e cartone da riciclare vanno collocati all’interno degli appositi contenitori;
gli imballaggi con residui di cibo non vanno nella raccolta differenziata di carta e cartone poiché creano problemi nel processo di riciclo e generano cattivi odori;
la carta oleata, come quella di salumi o formaggi, e la carta da forno non sono riciclabili;
i materiali non cellulosici come punti metallici, rivestimenti in plastica, basi metalliche e nastri adesivi, devono essere raccolti separatamente dalla carta;
gli scontrini vanno conferiti nell’indifferenziato, non insieme alla carta, perché sono composti di carte termiche che causano problemi nel riciclo;
per ridurne il volume, le scatole e gli scatoloni vanno appiattiti;
il sacchetto di plastica usato per portare la carta al contenitore apposito non va poi buttato con la carta;
ogni Comune ha le proprie regole di raccolta differenziata: ogni cittadino ha il dovere di informarsi su quelle in vigore.
I fazzoletti per il raffreddore non vanno buttati nella raccolta differenziata della carta, perché trattati per l’anti-spappolamento e potenzialmente contaminati.

Anche se in quest’anno così particolare l’estate sarà vissuta con uno spirito differente, il 46% degli italiani non rinuncia alle proprie vacanze e, la maggior parte, si godrà il meritato riposo in Italia. Che sia per ragioni legate alla sicurezza o per motivi di cautela sul budget, infatti, il 96,2% degli italiani che andrà in vacanza nel 2020 (26,7 milioni di persone) sceglierà come meta il Belpaese, soggiornando prevalentemente in alloggi privati, secondo i dati raccolti da Federalberghi.
Quest’anno più che mai, quindi, Comieco, Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica, ricorda che anche durante il tanto atteso periodo di vacanza, a non dover andare in ferie sono il senso civico e il rispetto per l’ambiente, e che anche nelle località di villeggiatura è fondamentale continuare a fare correttamente la raccolta differenziata, mantenendo invariate le buone abitudini.
Il 25° Rapporto Comieco sulla raccolta, riciclo e recupero di carta e cartone colloca l’Italia ai primi posti in Europa per tasso di riciclo degli imballaggi cellulosici (circa 81%, con un aumento della raccolta pro-capite di 1,7 kg nel 2019), dimostrando come gli italiani si impegnino costantemente per differenziare correttamente carta e cartone.
Proprio per questo, Comieco ci tiene a sottolineare come l’attenzione e l’impegno di ciascuno verso questo semplice gesto civico non debbano venire meno quando ci si sposta da casa:
se ogni italiano in vacanza differenziasse dal resto dei rifiuti anche solo 3 riviste, 3 quotidiani, 2 scatole di gelati, 4 cartoni di succo di frutta e 2 fascette dello yogurt si raccoglierebbero ben 140.000 tonnellate di carta e cartone, l’equivalente di una intera discarica: rifiuti “preziosi” che possono tornare a nuova vita grazie al riciclo.
Informarsi
Il primo punto da seguire è quello di informarsi sulle modalità di raccolta nella località prescelta: raccolta porta a porta, contenitori differenziati, suddivisione nei vari giorni della settimana, conferimento, sono tutte informazioni preziose e preliminari per non sbagliarsi, a prescindere dalla regione in cui ci troviamo. È fondamentale ricordarsi che effettuare una corretta raccolta differenziata significa dimostrare attenzione nei confronti della comunità intera e contribuire attivamente al raggiungimento di importanti benefici ambientali ed economici.
Seguire le regole, come a casa
È fondamentale che, come quando si è a casa, anche in vacanza si seguano le poche semplici regole per il corretto conferimento di carta e cartone:
in spiaggia o durante un’escursione in montagna è essenziale raccogliere i propri rifiuti in sacchetti differenziati, per poi conferirli negli appositi contenitori;
carta e cartone da riciclare vanno collocati all’interno degli appositi contenitori;
gli imballaggi con residui di cibo non vanno nella raccolta differenziata di carta e cartone poiché creano problemi nel processo di riciclo e generano cattivi odori;
la carta oleata, come quella di salumi o formaggi, e la carta da forno non sono riciclabili;
i materiali non cellulosici come punti metallici, rivestimenti in plastica, basi metalliche e nastri adesivi, devono essere raccolti separatamente dalla carta;
gli scontrini vanno conferiti nell’indifferenziato, non insieme alla carta, perché sono composti di carte termiche che causano problemi nel riciclo;
per ridurne il volume, le scatole e gli scatoloni vanno appiattiti;
il sacchetto di plastica usato per portare la carta al contenitore apposito non va poi buttato con la carta;
ogni Comune ha le proprie regole di raccolta differenziata: ogni cittadino ha il dovere di informarsi su quelle in vigore.
I fazzoletti per il raffreddore non vanno buttati nella raccolta differenziata della carta, perché trattati per l’anti-spappolamento e potenzialmente contaminati.
fonte: www.ecodallecitta.it
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Raee, cresce la gestione ma si allontana il target ue
Crescono le quantità di rifiuti elettrici ed elettronici trattate dagli operatori autorizzati, ma le percentuali di raccolta fanno un passo indietro e si allontanano dal target fissato dall'Ue. Questo quanto emerge dall'ultimo rapporto sulla gestione dei Raee pubblicato dal Centro di Coordinamento nazionale
fonte: www.ricicla.tv
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Una casa stampata in 3D? C’è già una mega-stampante capace di farlo!
Immaginatevi una stampante 3D grande come un furgone, che elabora fino a 4.2 Terabyte di dati con una risoluzione di 16.000x40.000 pixel. Invece della solita plastica, la stampante sparge un legante per cemento in una cassaforma di sabbia, strato dopo strato: una volta asciutto e solidificato, l’oggetto in cemento da 2x1m “emerge” dal resto della sabbia, che si può riutilizzare.
I diversi oggetti ottenuti si incastrano perfettamente l’uno nell’altro e possono essere combinati in cantiere con estrema facilità. Il risultato? Risparmi di materiale fino all’80% e l’abbattimento dei tempi di lavorazione.
Questo è solo uno dei progetti che il team coordinato da Benjamin Dillenburger ha sviluppato nei laboratori EMPA e EA-WAG dell’ETH di Zurigo. Le tecnologie prodotte in laboratorio vengono poi testate all’interno della "DFAB HOUSE" – NEST BUILDING, un edificio che si trova a Dübendorf, a pochi chilometri da Zurigo, che si può visitare su appuntamento.
Nel suo intervento del 23 gennaio 2020 a Bolzano, nell’ambito del Klimahouse Congress, Dillenburger non ha parlato solo di stampanti 3D, ma anche di altre importanti innovazioni che sono già realtà. Ad esempio una parete ondulata in calcestruzzo armato realizzata con la tecnologia mesh mould, dove un robot costruisce autonomamente una maglia in acciaio che funge da cassaforma e rinforzo, dove poi il cemento viene gettato e rifinito a mano.
Il solaio posto sopra questa struttura è stato realizzato con gli elementi in cemento stampanti in 3D. Invece del vetro poi, per delle pareti trasparenti sono stati utilizzati dei telai in legno riempiti di aerogel, il materiale conosciuto più leggero al m³ perché composto di gel e gas speciali, che è trasparente e altamente isolante.
“Ogni anno, in seguito all’urbanizzazione spinta a livello globale” ha sostenuto Dillenburger “viene costruita una nuova superficie urbana delle dimensioni di Parigi.” Dato che l’industria edile ha ancora oggi uno dei più bassi tassi di produttività e automazione, a fronte di costi altissimi, secondo Dillenburger sarà necessario nei prossimi anni digitalizzare quanto più possibile l’intera catena dei processi produttivi, passando dal semplice BIM il Building Information Modeling al FIM, il Fabrication Information Modeling.
“Sarà anche la carenza di risorse che ci costringerà a farlo, se pensiamo che negli ultimi 3 anni la Cina da sola ha utilizzato più cemento che non gli USA in tutto il XX° secolo” ha aggiunto Dillenburger. Il contenimento del consumo di materiali, l’uso di prefabbricati “intelligenti” e la diversificazione delle soluzioni già in fase di progettazione sono gli strumenti per creare una nuova cultura edilizia digitale – “eine digitale Baukultur” come ha detto testualmente Dillenburger.
I laboratori di Zurigo però guardano già al futuro: in programma ci sono nuovi software per potenziare i processi creativi, la stampa 3D di componenti per scale e coperture, l’utilizzo di nuovi estrusi ancora più performanti e la stampa senza cassaforma.
Image credits: Gramazio Kohler Research, ETH Zurich or Keystone/Christian Beutler
fonte: https://www.fierabolzano.it
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Senza bonifiche Il decreto Semplificazioni si è dimenticato dell’ambiente e della partecipazione pubblica
Un dossier redatto da 160 associazioni e comitati di livello nazionale e interregionale denuncia le storture del testo approdato in Senato in materia di risanamento dei territori, impatto ambientale e coinvolgimento dei cittadini
«Il decreto-legge Semplificazioni contiene norme che ritardano o addirittura annullano le bonifiche dei siti inquinati e dimezzano i tempi già oggi molto risicati per la partecipazione dei cittadini nelle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale». Sono questi i due punti più criticati dal dossier “Decreto Semplificazioni, così sono devastazioni” redatto da 160 associazioni e comitati di livello nazionale e interregionale (tra cui Isde-Associazione Medici per l’Ambiente e Medicina democratica Onlus) e inviato a tutti i parlamentari italiani.
L’analisi comprende anche 34 proposte di modifica delle criticità riscontrate nel testo. Criticità che in primis, secondo quanto sottolineato dalle associazioni ambientaliste, indeboliscono la legislazione specifica per le bonifiche dei siti gravemente inquinati in Italia (41 di competenza del Ministero dell’Ambiente e 17 di competenza regionale).
Chi ha inquinato deve solo presentare, invece dell’analisi approfondita e puntuale dell’area, una più semplice e blanda “indagine preliminare”, con un campionamento a maglie larghe per valutare i livelli di contaminazione». Il che paradossalmente complica l’iter di bonifica, introducendo un nuovo passaggio (quello dell’indagine preliminare) ed escludendo le procedure semplificate introdotte nel 2014 all’art.242bis, che per definizione prevedono la velocizzazione delle bonifiche.
fonte: https://www.linkiesta.it
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«Il decreto-legge Semplificazioni contiene norme che ritardano o addirittura annullano le bonifiche dei siti inquinati e dimezzano i tempi già oggi molto risicati per la partecipazione dei cittadini nelle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale». Sono questi i due punti più criticati dal dossier “Decreto Semplificazioni, così sono devastazioni” redatto da 160 associazioni e comitati di livello nazionale e interregionale (tra cui Isde-Associazione Medici per l’Ambiente e Medicina democratica Onlus) e inviato a tutti i parlamentari italiani.
L’analisi comprende anche 34 proposte di modifica delle criticità riscontrate nel testo. Criticità che in primis, secondo quanto sottolineato dalle associazioni ambientaliste, indeboliscono la legislazione specifica per le bonifiche dei siti gravemente inquinati in Italia (41 di competenza del Ministero dell’Ambiente e 17 di competenza regionale).
«Con l’articolo 53 comma 4-quater la bonifica delle acque sotterranee può sostanzialmente venire addirittura bypassata con la previsione di poter ottenere il certificato di avvenuta bonifica anche per il solo suolo» spiega a Linkiesta Augusto De Sanctis, del Forum H20. «Questo significa che un azienda o un privato che inquina un‘area può bonificare soltanto il terreno in superficie, procedimento meno costoso di quello per le falde sotterranee, con contestuale svincolo delle garanzie finanziarie. Ovvero in caso di fallimento degli inquinatori si rischia che sia lo Stato a doversi accollare i costi della bonifica totale» continua De Sanctis.
Al principio “chi inquina paga” con il decreto-legge Semplificazioni si preferisce dunque una bonifica parziale e certamente meno costosa. Vengono infatti annullate anche le procedure di semplificazione già approvate nel 2014: «Non importa quindi se stiamo parlando dei Siti di interesse nazionale (Sin), dei luoghi riconosciuti come i più inquinati d’Italia – dice De Sanctis -, il decreto prevede che si agisca come se si trattasse di un sospetto di inquinamento in qualsiasi altra area del paese.
Chi ha inquinato deve solo presentare, invece dell’analisi approfondita e puntuale dell’area, una più semplice e blanda “indagine preliminare”, con un campionamento a maglie larghe per valutare i livelli di contaminazione». Il che paradossalmente complica l’iter di bonifica, introducendo un nuovo passaggio (quello dell’indagine preliminare) ed escludendo le procedure semplificate introdotte nel 2014 all’art.242bis, che per definizione prevedono la velocizzazione delle bonifiche.
I rilievi, si legge nel documento, nella pratica verranno realizzati con sezioni di centinaia di metri, per cui in alcuni siti vi è pure il rischio che lotti contaminati possano sfuggire. «Basta scavare 20 metri più in là rispetto ad una fossa in cui sono stati sotterrati rifiuti per non accorgersi della loro presenza, dichiarando così non contaminata un’area che invece lo è» aggiunge l’attivista.
Questo vale anche per l’Ilva di Taranto, l’ex Sitoco di Orbetello o le ex discariche di Poggio ai venti a Piombino: tutti siti di interesse nazionale che nonostante il loro livello di inquinamento verranno trattati «come una qualsiasi pompa di benzina». Le modifiche alle normative sono però state accolte con entusiasmo dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che sui social si dice soddisfatto di questo decreto che permetterà bonifiche più veloci. «Forse sarà così, ma non saranno vere bonifiche» ritiene invece De Sanctis.
Quanto alla partecipazione pubblica,secondo le associazioni più impegnate nei territori locali come le Mamme NoPfas del Veneto il decreto legge riduce gli spazi di azione di cittadini e comitati accorciando i termini temporali per presentare le osservazioni. Tempi di fatto dimezzati da 60 a 30 giorni, ad esempio, nel caso della Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) nazionale tramite conferenza dei servizi simultanea. «Per analizzare e commentare documenti lunghi e complessi i cittadini devono trovare tempo, competenze e un’organizzazione per intraprendere quest’attività. Così facendo si elimina questo diritto» assicura De Sanctis.
Il decreto semplificazioni andrà convertito in legge per metà settembre, con in mezzo il “buco” della pausa estiva. Il dossier propone quindi alcune modifiche da fare in extremis, come abrogare gli articoli e i commi che lasciano agli inquinatori campo aperto e allo Stato nessuna garanzia economica, e l’introduzione di «norme operanti da anni in alcune regioni che rendano le procedure di bonifica e di valutazione ambientale realmente efficaci ed efficienti».
fonte: https://www.linkiesta.it
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Buste di plastica: il Giappone annuncia una tassa
Buste di plastica, il Giappone impone finalmente una tassa: la nazione vede un consumo di plastica di lunga superiore agli altri Paesi industrializzati.

Buste di plastica: anche il Giappone segue l’esempio di altre nazioni mondiali, annunciando una tassa per disincentivarne l’uso. È questa l’ultima iniziativa del Sol Levante, nazione dove il ricorso a confezioni monouso in plastica è estremamente diffuso. Così come riferisce CNN, nei negozi del Paese è infatti addirittura possibile trovare singoli frutti imbustati, da un’unica banana fino a un paio di ciliegie.
Di circa i 540 miliardi di sacchetti di plastica usati ogni anno a livello mondiale, ben 30 miliardi sono giapponesi. Per capire l’entità del fenomeno, basti pensare come il Giappone abbia il doppio della popolazione del Regno Unito, ma produca ben 17 volte i sacchetti consumati sul suolo britannico.
Per far fronte a questa forte richiesta, tuttavia dannosa per l’ambiente, le autorità hanno finalmente optato per una tassazione. Dal primo luglio, tutti i negozi hanno l’obbligo di imporre il pagamento dei sacchetti di plastica quando richiesti dai clienti, incentivando al contempo il ricorso a soluzioni riutilizzabili.
La tassa in questione è tra i 3 e i 5 centesimi di euro per ogni singola busta, quindi simile a quanto già previsto in altri Paesi del mondo. Non si tratta di una misura drastica, tuttavia: diverse nazioni, tra cui l’Italia, hanno da tempo vietato il ricorso a sacchetti di plastica non riciclabili e biodegradabili, incentivando invece l’uso di soluzioni in stoffa o riutilizzabili.
Buste in Giappone: la diffusione
Sebbene il Giappone veda una produzione di rifiuti pro-capite inferiore rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati, è la nazione che al mondo ricorre al quantitativo più elevato di plastica. Questo materiale è scelto per ragioni di igiene e sicurezza, soprattutto in campo alimentare. Il progressivo cambiamento demografico della popolazione, con l’aumento sensibile di single, ha però spinto i produttori a soluzioni monouso forse evitabili. Nei negozi è possibile trovare anche singole ciliegie avvolte in contenitori e pellicole di plastica, un eccesso di igiene che ha però conseguenze decisamente negative sull’ambiente.
In ogni caso, il Giappone ha di recente raggiunto il traguardo dell’84% nel recupero di tutta la plastica prodotta nel Paese. Greenpeace, tuttavia, sottolinea come in realtà il materiale raccolto non venga impiegato per la creazione di nuove confezioni, bensì smaltito nei termovalorizzatori per la produzione di energia. L’export rimane comunque ancora elevatissimo: 75.000 tonnellate di plastica sono state portate in Cina nel 2017 e, a partire dal 2018, la quota è stata suddivisa tra Taiwan, Malesia, Thailandia e molte altre nazioni.
Fonte: CNN
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Buste di plastica: anche il Giappone segue l’esempio di altre nazioni mondiali, annunciando una tassa per disincentivarne l’uso. È questa l’ultima iniziativa del Sol Levante, nazione dove il ricorso a confezioni monouso in plastica è estremamente diffuso. Così come riferisce CNN, nei negozi del Paese è infatti addirittura possibile trovare singoli frutti imbustati, da un’unica banana fino a un paio di ciliegie.
Di circa i 540 miliardi di sacchetti di plastica usati ogni anno a livello mondiale, ben 30 miliardi sono giapponesi. Per capire l’entità del fenomeno, basti pensare come il Giappone abbia il doppio della popolazione del Regno Unito, ma produca ben 17 volte i sacchetti consumati sul suolo britannico.
Per far fronte a questa forte richiesta, tuttavia dannosa per l’ambiente, le autorità hanno finalmente optato per una tassazione. Dal primo luglio, tutti i negozi hanno l’obbligo di imporre il pagamento dei sacchetti di plastica quando richiesti dai clienti, incentivando al contempo il ricorso a soluzioni riutilizzabili.
La tassa in questione è tra i 3 e i 5 centesimi di euro per ogni singola busta, quindi simile a quanto già previsto in altri Paesi del mondo. Non si tratta di una misura drastica, tuttavia: diverse nazioni, tra cui l’Italia, hanno da tempo vietato il ricorso a sacchetti di plastica non riciclabili e biodegradabili, incentivando invece l’uso di soluzioni in stoffa o riutilizzabili.
Buste in Giappone: la diffusione
Sebbene il Giappone veda una produzione di rifiuti pro-capite inferiore rispetto a tutti gli altri Paesi industrializzati, è la nazione che al mondo ricorre al quantitativo più elevato di plastica. Questo materiale è scelto per ragioni di igiene e sicurezza, soprattutto in campo alimentare. Il progressivo cambiamento demografico della popolazione, con l’aumento sensibile di single, ha però spinto i produttori a soluzioni monouso forse evitabili. Nei negozi è possibile trovare anche singole ciliegie avvolte in contenitori e pellicole di plastica, un eccesso di igiene che ha però conseguenze decisamente negative sull’ambiente.
In ogni caso, il Giappone ha di recente raggiunto il traguardo dell’84% nel recupero di tutta la plastica prodotta nel Paese. Greenpeace, tuttavia, sottolinea come in realtà il materiale raccolto non venga impiegato per la creazione di nuove confezioni, bensì smaltito nei termovalorizzatori per la produzione di energia. L’export rimane comunque ancora elevatissimo: 75.000 tonnellate di plastica sono state portate in Cina nel 2017 e, a partire dal 2018, la quota è stata suddivisa tra Taiwan, Malesia, Thailandia e molte altre nazioni.
Fonte: CNN
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Packaging ecosostenibile, materiali virtuosi e politiche green
Ricorrere a imballaggi virtuosi è una scelta in grado di apportare dei benefici sia ai produttori e alle aziende che ai consumatori

Prendersi cura della natura, del pianeta e delle sue risorse affinché la Terra rimanga un luogo bello e ospitale per le molte generazioni a venire è un dovere che riguarda tutti. Se i privati cittadini sono sempre più chiamati a fare la loro parte nella quotidianità, compiendo scelte green e improntate al rispetto dell’ambiente (la raccolta differenziata, l’acquisto di alimenti e materiali a chilometro zero, la scelta di prodotti plastic free e così via) è indubbio che una parte ancor più essenziale in questo contesto sono chiamate a interpretarla le grandi aziende, in ogni settore.
C’è un elemento che è costantemente presente nelle nostre giornate, in qualsiasi contesto e ad ogni ora: il packaging, gli imballaggi che ogni giorno riceviamo e apriamo. Una mole gigantesca di plastica e altri materiali, che finisce puntualmente nella spazzatura. Ecco perché uno degli obiettivi più importanti in tema di ecosostenibilità riguarda proprio la progettazione e la realizzazione da parte delle aziende di packaging ‘green’. Ricorrere a imballaggi virtuosi, infatti, è una scelta in grado di apportare dei benefici sia ai produttori e alle aziende che ai consumatori (che diventano sempre più sensibili).
Progettare e diffondere imballaggi riciclabili e riutilizzabili
L’imballaggio il più delle volte è molto più ‘impattante’ e ingombrante del prodotto stesso. Anzi, capita spesso di percepire la sua presenza quasi come eccessiva o superflua (a cominciare dai sacchetti in plastica o le bustine per separare frutta e verdura ma non solo). Le soluzioni ci sono ma per trovarle devono essere interessati esperti del settore.
Definire e avviare la produzione di imballaggi sempre più virtuosi, riciclabili e riutilizzabili è la strada maestra che le aziende devono imboccare per raggiungere – nella prossima decade – obiettivi ambiziosi in tema di impatto ambientale. La cui riduzione, in primis, passa dall’abbattimento dei consumi di plastica vergine derivata dal petrolio. Occorre procedere con passi decisi all’alleggerimento del packaging e all’aumento dell’impiego di plastica riciclata in quest’ultimo.
Inoltre, ogni volta che sia possibile, si dovrà privilegiare l’utilizzo di materiali del tutto alternativi. Le politiche green sono ormai sempre più trasversali e quello della tutela del pianeta è un mantra che ha raggiunto una diffusione capillare e globale.
Le regole per un packaging rispettoso dell’ambiente e della salute umana
Il concetto di packaging è ampio e complesso, comprende tutti quei contenitori che rivestono i prodotti, mantenendoli al sicuro da contaminazioni esterne. Il loro compito è dunque proteggerli, senza mettere in pericolo la salute umana. Ma gli imballaggi possono ricoprire anche ulteriori funzioni, per esempio quella estetica dal momento che si tratta di elementi forti nell’ambito del marketing aziendale. Devono essere sviluppati, inoltre, con una funzionalità etica: il consumatore, cioè, deve ricevere un chiaro messaggio relativo all’importanza di tutelare il futuro della Terra. Ci sono tre ambiti principali che entrano in gioco quando si parla di ecosostenibilità: ambiente, economia e sociale.
Naturalmente il packaging per essere virtuoso e rispettare i diktat dell’ecosostenibilità deve ridurre il suo impatto ai minimi livelli sia per quanto riguarda l’ambiente che in relazione agli altri due ambiti. Per quanto riguarda materiali e prodotti migliori da utilizzare per il packaging sarà utile indicare in primis la plastica riciclata, raccolta dagli oceani e dalle spiagge, nei confronti della quale è in corso una campagna informativa e di sensibilizzazione internazionale. Poi, tra gli altri, ci sono PET (polietilene tereftalato), ovvero plastica 100% riciclabile la cui trasparenza è in grado di far risaltare il contenuto, ma anche polipropilene, anch’esso ideale per intraprendere politiche green aziendali poiché – con il PET – è la plastica ideale per il riciclo. La scelta dell’ecosostenibilità è in grado di orientare e influenzare i mercati, aumentando la brand reputation del marchio e dei relativi prodotti.
fonte: www.rinnovabili.it
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Prendersi cura della natura, del pianeta e delle sue risorse affinché la Terra rimanga un luogo bello e ospitale per le molte generazioni a venire è un dovere che riguarda tutti. Se i privati cittadini sono sempre più chiamati a fare la loro parte nella quotidianità, compiendo scelte green e improntate al rispetto dell’ambiente (la raccolta differenziata, l’acquisto di alimenti e materiali a chilometro zero, la scelta di prodotti plastic free e così via) è indubbio che una parte ancor più essenziale in questo contesto sono chiamate a interpretarla le grandi aziende, in ogni settore.
C’è un elemento che è costantemente presente nelle nostre giornate, in qualsiasi contesto e ad ogni ora: il packaging, gli imballaggi che ogni giorno riceviamo e apriamo. Una mole gigantesca di plastica e altri materiali, che finisce puntualmente nella spazzatura. Ecco perché uno degli obiettivi più importanti in tema di ecosostenibilità riguarda proprio la progettazione e la realizzazione da parte delle aziende di packaging ‘green’. Ricorrere a imballaggi virtuosi, infatti, è una scelta in grado di apportare dei benefici sia ai produttori e alle aziende che ai consumatori (che diventano sempre più sensibili).
Progettare e diffondere imballaggi riciclabili e riutilizzabili
L’imballaggio il più delle volte è molto più ‘impattante’ e ingombrante del prodotto stesso. Anzi, capita spesso di percepire la sua presenza quasi come eccessiva o superflua (a cominciare dai sacchetti in plastica o le bustine per separare frutta e verdura ma non solo). Le soluzioni ci sono ma per trovarle devono essere interessati esperti del settore.
Definire e avviare la produzione di imballaggi sempre più virtuosi, riciclabili e riutilizzabili è la strada maestra che le aziende devono imboccare per raggiungere – nella prossima decade – obiettivi ambiziosi in tema di impatto ambientale. La cui riduzione, in primis, passa dall’abbattimento dei consumi di plastica vergine derivata dal petrolio. Occorre procedere con passi decisi all’alleggerimento del packaging e all’aumento dell’impiego di plastica riciclata in quest’ultimo.
Inoltre, ogni volta che sia possibile, si dovrà privilegiare l’utilizzo di materiali del tutto alternativi. Le politiche green sono ormai sempre più trasversali e quello della tutela del pianeta è un mantra che ha raggiunto una diffusione capillare e globale.
Le regole per un packaging rispettoso dell’ambiente e della salute umana
Il concetto di packaging è ampio e complesso, comprende tutti quei contenitori che rivestono i prodotti, mantenendoli al sicuro da contaminazioni esterne. Il loro compito è dunque proteggerli, senza mettere in pericolo la salute umana. Ma gli imballaggi possono ricoprire anche ulteriori funzioni, per esempio quella estetica dal momento che si tratta di elementi forti nell’ambito del marketing aziendale. Devono essere sviluppati, inoltre, con una funzionalità etica: il consumatore, cioè, deve ricevere un chiaro messaggio relativo all’importanza di tutelare il futuro della Terra. Ci sono tre ambiti principali che entrano in gioco quando si parla di ecosostenibilità: ambiente, economia e sociale.
Naturalmente il packaging per essere virtuoso e rispettare i diktat dell’ecosostenibilità deve ridurre il suo impatto ai minimi livelli sia per quanto riguarda l’ambiente che in relazione agli altri due ambiti. Per quanto riguarda materiali e prodotti migliori da utilizzare per il packaging sarà utile indicare in primis la plastica riciclata, raccolta dagli oceani e dalle spiagge, nei confronti della quale è in corso una campagna informativa e di sensibilizzazione internazionale. Poi, tra gli altri, ci sono PET (polietilene tereftalato), ovvero plastica 100% riciclabile la cui trasparenza è in grado di far risaltare il contenuto, ma anche polipropilene, anch’esso ideale per intraprendere politiche green aziendali poiché – con il PET – è la plastica ideale per il riciclo. La scelta dell’ecosostenibilità è in grado di orientare e influenzare i mercati, aumentando la brand reputation del marchio e dei relativi prodotti.
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Mobilità sostenibile: arriva il tour elettrico #EViaggioItaliano
Parte #EViaggioItaliano, il tour elettrico e di mobilità sostenibile per la scoperta e la valorizzazione delle eccellenze ambientali dell'Italia.

Partirà il 4 settembre dalla Campania #EViaggioItaliano, un tour elettrico tra le eccellenze dello Stivale. E vi sarà anche una novità non di poco conto: la prima cucina elettrica mobile al mondo, alimentata unicamente da energia solare.
#EViaggioItaliano rilancia il turismo sostenibile toccando sei regioni, il tutto con l’alto Patrocinio del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e dei Ministeri dell’Ambiente, degli Esteri, delle Infrastrutture e dei Trasporti. L’obiettivo è quello di valorizzare il patrimonio enogastronomico della Penisola, con un tour amico dell’ambiente.
La prima tappa avverrà in Campania dal 4 al 6 settembre, per poi toccare Emilia Romagna, Lombardia, Lazio e Trentino Alto Adige. Nel 2021, invece, l’iniziativa verrà estesa al resto d’Italia. Realizzato in collaborazione con la Fondazione Univerde e il suo progetto #ioviaggioitaliano, il progetto si avvarrà di una flotta di veicoli elettrici da una a quattro ruote, tra cui una singolare e bellissima motocicletta dall’innovativo stile retrò.
Il tour metterà in mostra non solo le meraviglie d’Italia, ma anche le realtà imprenditoriali più interessanti e innovative, i borghi più virtuosi, le eccellenze della sostenibilità energetica e ambientale. E non manca la tecnologia e l’innovazione, grazie a Future Trailer: il prototipo di una cucina mobile completamente alimentata a energia solare, per ShowCooking amici dell’ambiente. Alcuni dei più famosi chef realizzeranno delle ricette a chilometro zero nei luoghi delle tappe del tour. Il trailer è collegato a un veicolo elettrico che farà anche da Studio Mobile, per realizzare interviste, streaming, lanciare podcast, aggiornare i social e molto altro ancora.
Come già accennato, il tour partirà dalla Campania, grazie al supporto della Regione e Scabec, la Società Campana dei Beni Culturali. Collaborerà anche “campania>artecard”, il pass turistico che garantisce da 15 anni la possibilità di ammirare il patrimonio artistico e geografico della regione. Con Fondazione Univerde, invece, verrà supportata la cultura ecologista, la difesa del Made in Italy e le grandi tradizioni agroalimentari dello Stivale.
Nella piazza di Caiazzo, il 4 settembre il pizzaiolo più bravo al mondo – Franco Pepe – dimostrerà tutte le potenzialità della cucina solare di Future Trailer. Nel programma di tappa anche visite all’Acquedotto Carolino, patrimonio dell’Unesco, ma anche alla Reggia di Portici e al Parco Nazionale del Vesuvio. Spazio anche al Castello di Mercato San Severino, al Museo di Pietrarsa, a Villa Campolieto e al Parco Archeologico di Paestum.
Verranno quindi valorizzate eccellenze locali come la mozzarella di bufala campana, il pomodoro di piennolo e il vino Lacryma Christi. Ci saranno poi esperti del calibro di Alfonso Pecoraro Scanio (Presidente della Fondazione UniVerde e docente presso l’Università di Napoli Federico II), Matteo Lorito (Direttore del dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II), Eugenio Gervasio (fondatore e CEO del MAVV – Wine Art Museum) e lo Chef stellato Alfonso Iaccarino. Il tour parlerà anche di buone pratiche nella tutela dell’ambiente, partendo dall’esempio di Baronissi, comune in prima fila per la campagna plastic free promossa dal Ministero dell’Ambiente.
#EViaggioItaliano è stato ideato grazie a realtà italiane decisamente innovative e incentrate sulla mobilità elettrica, come Fondazione eV-Now!, XMove, theSocialBreakers e To Be.
fonte: www.greenstyle.it
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Partirà il 4 settembre dalla Campania #EViaggioItaliano, un tour elettrico tra le eccellenze dello Stivale. E vi sarà anche una novità non di poco conto: la prima cucina elettrica mobile al mondo, alimentata unicamente da energia solare.
#EViaggioItaliano rilancia il turismo sostenibile toccando sei regioni, il tutto con l’alto Patrocinio del Parlamento Europeo, della Commissione Europea e dei Ministeri dell’Ambiente, degli Esteri, delle Infrastrutture e dei Trasporti. L’obiettivo è quello di valorizzare il patrimonio enogastronomico della Penisola, con un tour amico dell’ambiente.
La prima tappa avverrà in Campania dal 4 al 6 settembre, per poi toccare Emilia Romagna, Lombardia, Lazio e Trentino Alto Adige. Nel 2021, invece, l’iniziativa verrà estesa al resto d’Italia. Realizzato in collaborazione con la Fondazione Univerde e il suo progetto #ioviaggioitaliano, il progetto si avvarrà di una flotta di veicoli elettrici da una a quattro ruote, tra cui una singolare e bellissima motocicletta dall’innovativo stile retrò.
Il tour metterà in mostra non solo le meraviglie d’Italia, ma anche le realtà imprenditoriali più interessanti e innovative, i borghi più virtuosi, le eccellenze della sostenibilità energetica e ambientale. E non manca la tecnologia e l’innovazione, grazie a Future Trailer: il prototipo di una cucina mobile completamente alimentata a energia solare, per ShowCooking amici dell’ambiente. Alcuni dei più famosi chef realizzeranno delle ricette a chilometro zero nei luoghi delle tappe del tour. Il trailer è collegato a un veicolo elettrico che farà anche da Studio Mobile, per realizzare interviste, streaming, lanciare podcast, aggiornare i social e molto altro ancora.
Come già accennato, il tour partirà dalla Campania, grazie al supporto della Regione e Scabec, la Società Campana dei Beni Culturali. Collaborerà anche “campania>artecard”, il pass turistico che garantisce da 15 anni la possibilità di ammirare il patrimonio artistico e geografico della regione. Con Fondazione Univerde, invece, verrà supportata la cultura ecologista, la difesa del Made in Italy e le grandi tradizioni agroalimentari dello Stivale.
Nella piazza di Caiazzo, il 4 settembre il pizzaiolo più bravo al mondo – Franco Pepe – dimostrerà tutte le potenzialità della cucina solare di Future Trailer. Nel programma di tappa anche visite all’Acquedotto Carolino, patrimonio dell’Unesco, ma anche alla Reggia di Portici e al Parco Nazionale del Vesuvio. Spazio anche al Castello di Mercato San Severino, al Museo di Pietrarsa, a Villa Campolieto e al Parco Archeologico di Paestum.
Verranno quindi valorizzate eccellenze locali come la mozzarella di bufala campana, il pomodoro di piennolo e il vino Lacryma Christi. Ci saranno poi esperti del calibro di Alfonso Pecoraro Scanio (Presidente della Fondazione UniVerde e docente presso l’Università di Napoli Federico II), Matteo Lorito (Direttore del dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II), Eugenio Gervasio (fondatore e CEO del MAVV – Wine Art Museum) e lo Chef stellato Alfonso Iaccarino. Il tour parlerà anche di buone pratiche nella tutela dell’ambiente, partendo dall’esempio di Baronissi, comune in prima fila per la campagna plastic free promossa dal Ministero dell’Ambiente.
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Onnipresente plastica: anche in pioggia, neve e rocce
Nel report “Plastica-una storia infinita”, il WWF avverte: l'impatto della plastica non si limita agli oceani. La sua presenza a è evidente anche nei depositi terrestri e nelle perturbazioni atmosferiche.

Un avvertimento inquietante, quello lanciato dal WWF nella seconda tranche del report “Plastica, una storia infinita”. Oltre che negli oceani, dove la plastica è presente nel 70%-90% dei rifiuti in mare, residui di questo invadentissimo materiale sono stati ritrovati persino nelle rocce, nelle quali sono diventati un immancabile elemento stratigrafico, distintivo della nostra epoca geologica: l'Antropocene. Quale testimonianza della nostra attuale presenza, i futuri abitanti della Terra potranno dunque riscontrare tracce di materiali plastici nei sedimenti.
Plastica ovunque
Nel rapporto, lanciato nell'ambito della campagna GenerAzioneMare, si fa riferimento in particolare a un recente studio, che dimostra come i processi geologici abbiano iniziato a incorporare in rocce litoranee la plastica finita in mare. Ciò significa che nei depositi terresti e nei depositi sedimentari marini, tanto di acque profonde che poco profonde, si rilevano materiali plastici. Ma non è tutto. Stando a quanto rilevato dalla recente analisi “Sta piovendo plastica”, mirata a rintracciare un eventuale inquinamento da azoto nella zona delle Montagne Rocciose, oltre il 90% dei campioni prelevati di acqua piovana contengono microfibre di plastica. Le tracce si trovano nelle cime oltre i 3000 metri di altezza, a riprova del fatto che le perturbazioni atmosferiche sono in grado di trasportare gli inquinanti ovunque, anche in aree potenzialmente incontaminate.
Non si tratta, purtroppo, di un fenomeno isolato. Abbondano, infatti, ricerche che hanno riscontrato grandi quantità di particelle plastiche nelle precipitazioni: sui Pirenei francesi, sulle Alpi svizzere e persino nell'Artico, dimostrando come esse vengano veicolate anche dalla neve. Le elevate concentrazioni -a dispetto della bassa densità di popolazione che abita alcune delle zone esaminate- attesta come le microplastiche vengano trasportate a lunga distanza, attraverso le correnti atmosferiche e oceaniche.
L'appello del WWF
A fronte dei nuovi dati acquisiti, la problematica relativa all'inquinamento da plastica- già flagello ambientale fra i più gravi- diventa ancora più pressante. Per limitarne l'impatto, il WWF non cessa di portare avanti un’azione di pressione sui Governi. L'obiettivo è che venga raggiunto un accordo globale vincolante e severo, che individui norme e impegni concreti per arrestare l'immissione di nuova plastica nell'ecosistema Mondo. Tante le iniziative, rivolte anche alla cittadinanza: da azioni di informazione e sensibilizzazione al Tour Spiagge Plastic Free di WWF Italia, volto a ripulire i litorali della penisola dai rifiuti plastici. I prossimi appuntamenti internazionali, a partire da settembre, dovranno riprendere le azioni verso un modello plastic free, momentaneamente sospese a causa dell’emergenza Covid-19.
Intanto, la petizione globale- promossa dall'organizzazione- ha già raggiunto oltre un milione e 760 mila cittadini. “Diciamo basta alla plastica che soffoca i nostri oceani, danneggiando noi e la natura che ci circonda. I Paesi delle Nazioni Unite devono stipulare un Accordo globale che ponga fine alla dispersione di plastica in natura entro il 2030” si legge nell'appello del WWF. “Per anni questo problema è stato ignorato. Oggi, abbiamo urgente bisogno che le Nazioni Unite stringano un Accordo per porre fine alla dispersione di plastica in mare entro il 2030. Tutti i Paesi sono responsabili di questa emergenza ambientale e ciascuno deve essere parte della soluzione.#StopPlasticPollution”.
fonte: https://www.nonsoloambiente.it
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Un avvertimento inquietante, quello lanciato dal WWF nella seconda tranche del report “Plastica, una storia infinita”. Oltre che negli oceani, dove la plastica è presente nel 70%-90% dei rifiuti in mare, residui di questo invadentissimo materiale sono stati ritrovati persino nelle rocce, nelle quali sono diventati un immancabile elemento stratigrafico, distintivo della nostra epoca geologica: l'Antropocene. Quale testimonianza della nostra attuale presenza, i futuri abitanti della Terra potranno dunque riscontrare tracce di materiali plastici nei sedimenti.
Plastica ovunque
Nel rapporto, lanciato nell'ambito della campagna GenerAzioneMare, si fa riferimento in particolare a un recente studio, che dimostra come i processi geologici abbiano iniziato a incorporare in rocce litoranee la plastica finita in mare. Ciò significa che nei depositi terresti e nei depositi sedimentari marini, tanto di acque profonde che poco profonde, si rilevano materiali plastici. Ma non è tutto. Stando a quanto rilevato dalla recente analisi “Sta piovendo plastica”, mirata a rintracciare un eventuale inquinamento da azoto nella zona delle Montagne Rocciose, oltre il 90% dei campioni prelevati di acqua piovana contengono microfibre di plastica. Le tracce si trovano nelle cime oltre i 3000 metri di altezza, a riprova del fatto che le perturbazioni atmosferiche sono in grado di trasportare gli inquinanti ovunque, anche in aree potenzialmente incontaminate.
Non si tratta, purtroppo, di un fenomeno isolato. Abbondano, infatti, ricerche che hanno riscontrato grandi quantità di particelle plastiche nelle precipitazioni: sui Pirenei francesi, sulle Alpi svizzere e persino nell'Artico, dimostrando come esse vengano veicolate anche dalla neve. Le elevate concentrazioni -a dispetto della bassa densità di popolazione che abita alcune delle zone esaminate- attesta come le microplastiche vengano trasportate a lunga distanza, attraverso le correnti atmosferiche e oceaniche.
L'appello del WWF
A fronte dei nuovi dati acquisiti, la problematica relativa all'inquinamento da plastica- già flagello ambientale fra i più gravi- diventa ancora più pressante. Per limitarne l'impatto, il WWF non cessa di portare avanti un’azione di pressione sui Governi. L'obiettivo è che venga raggiunto un accordo globale vincolante e severo, che individui norme e impegni concreti per arrestare l'immissione di nuova plastica nell'ecosistema Mondo. Tante le iniziative, rivolte anche alla cittadinanza: da azioni di informazione e sensibilizzazione al Tour Spiagge Plastic Free di WWF Italia, volto a ripulire i litorali della penisola dai rifiuti plastici. I prossimi appuntamenti internazionali, a partire da settembre, dovranno riprendere le azioni verso un modello plastic free, momentaneamente sospese a causa dell’emergenza Covid-19.
Intanto, la petizione globale- promossa dall'organizzazione- ha già raggiunto oltre un milione e 760 mila cittadini. “Diciamo basta alla plastica che soffoca i nostri oceani, danneggiando noi e la natura che ci circonda. I Paesi delle Nazioni Unite devono stipulare un Accordo globale che ponga fine alla dispersione di plastica in natura entro il 2030” si legge nell'appello del WWF. “Per anni questo problema è stato ignorato. Oggi, abbiamo urgente bisogno che le Nazioni Unite stringano un Accordo per porre fine alla dispersione di plastica in mare entro il 2030. Tutti i Paesi sono responsabili di questa emergenza ambientale e ciascuno deve essere parte della soluzione.#StopPlasticPollution”.
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Plastica biodegradabile o riciclata? Ecco quali sono i pro e i contro
Plastica biodegradabile o plastica riciclata? Quale delle due opzioni è migliore per l’ambiente? Il gruppo di ricerca IDTechEx ha cercato di rispondere a questa domanda, nel tentativo di far fronte alla sempre maggiore produzione di plastica che, con l’attuale tasso di crescita, potrebbe raggiungere le 600 milioni di tonnellate entro il 2030.
Le nuove materie plastiche biodegradabili, insieme alle più avanzate tecniche di riciclaggio, sono due approcci promettenti per aiutare il mondo a ridurre i rifiuti di plastica. Attualmente, la maggior parte della plastica prodotta non è biodegradabile, con il 30-50% impiegata per applicazioni monouso.
Generalmente, si è pensato che un maggiore investimento sulla produzione di plastica biodegradabile avrebbe potuto rappresentare una potenziale soluzione al problema dei rifiuti. Non a caso, negli ultimi dieci anni c’è stata una sempre maggiore attenzione nei confronti delle cosiddette bioplastiche, polimeri prodotti da materie prime biologiche come l’acido polilattico (PLA) e i poliidrossialcanoati (PHA).
La plastica biodegradabile ha fatto dunque sperare che il mondo potesse continuare a produrre grandi quantità di materie plastiche, senza doversi preoccupare del loro fine vita. Tuttavia, la realtà è molto diversa da quello che appare. Infatti, la provenienza biologica non garantisce che la plastica si possa realmente degradare in tempi accettabili, e molte bioplastiche pubblicizzate come tali in realtà non lo sono.
La questione, infatti, riguarda cosa si intende per “plastica biodegradabile”. Il PLA, ad esempio, è comunemente etichettato come biodegradabile, ma si degrada solo in impianti di compostaggio industriali, a temperature sufficientemente elevate affinché i microbi possano abbatterlo ad una certa velocità. Di conseguenza, se una bottiglia di PLA venisse buttata nell’oceano, ci vorrebbero centinaia di anni prima di degradarsi.
In un report dal titolo Bioplastics 2020-2025, IDTechEx sottolinea che molte regioni del mondo non hanno accesso a queste strutture di compostaggio industriale, il che significa che una diffusione di materie plastiche in PLA probabilmente non comporterebbe alcun beneficio ambientale. Questo, però, non è il caso di tutte le bioplastiche. I PHA, ad esempio, si decompongono nell’ambiente naturale nel corso di alcuni mesi, così come le miscele di amido e le nanocellulose.
Anche il riciclaggio della plastica è un’altra potenziale strada per superare il problema mondiale dei rifiuti di plastica. Le tecnologie di riciclaggio esistenti si sono affidate allo smistamento meccanico e alla fusione dei rifiuti di plastica, strategie che spesso comportano elevati livelli di contaminazione. Tuttavia, esiste una gamma di tecnologie di riciclaggio alternative che potrebbero portare a ulteriori opportunità nella catena del valore dei polimeri.
Ad esempio, l’estrazione con solvente è un metodo di riciclaggio che può produrre un polimero puro con proprietà meccaniche simili o potenzialmente identiche al materiale vergine. Tecniche come la pirolisi possono essere utilizzate per creare carburanti e materie prime chimiche da rifiuti di plastica, contribuendo a un’economia più circolare.
Dunque, sia una maggiore attenzione alla plastica biodegradabile, sia un miglioramento delle strategie di riciclaggio dei polimeri potrebbero rappresentare, congiuntamente, un buono modo per superare il problema dei rifiuti in plastica. Tuttavia, secondo IDTechEx, i due sistemi rischiano di essere in concorrenza tra loro: ad esempio, una maggiore attenzione al riciclaggio potrebbe portare ad un depotenziamento del mercato delle bioplastiche, aggravando le sfide economiche che il campo deve affrontare.
fonte: www.rinnovabili.it
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Alternative alla plastica, nei bicchieri monouso qualche criticità inaspettata. Lo rivela il test di Altroconsumo
Nonostante una lettera inviata dell’associazione europea dei convertitori plastici EuPC indirizzata alla Commissione Europea che invitava a posporne l’entrata in vigore, l’ormai nota direttiva Sup (Single use plastics) metterà al bando dal prossimo anno diverse categorie di prodotti in plastica usa e getta, per i quali già oggi esistono valide alternative.
In particolare, dal 2021 saranno vietati: bastoncini cotonati per la pulizia delle orecchie; posate (forchette, coltelli, cucchiai, bacchette): piatti (sia in plastica che in carta con film plastico); cannucce; mescolatori per bevande; aste per palloncini (esclusi per uso industriale o professionale): contenitori con o senza coperchio (tazze, vaschette con relative chiusure) in polistirene espanso (Eps) per consumo immediato (fast-food) o asporto (take-away) di alimenti senza ulteriori preparazioni; contenitori per bevande e tazze in Eps; tutti gli articoli monouso in plastica oxo-degradabile.
I bicchieri di plastica usa e getta non sono compresi nel regolamento SUP, ma sono già in commercio alternative
Stranamente i bicchieri in plastica sono esclusi dal divieto di commercializzazione e non vengono elencati tra i prodotti per i quali la direttiva chiede misure ambiziose di riduzione nel consumo o attraverso sistemi di Epr, che allargano ai produttori il sostegno economico di trattamento e recupero dei rifiuti. Tuttavia il futuro di questi contenitori potrebbe seguire la medesima strada e sugli scaffali dei supermercati si trovano già oggi bicchieri monouso realizzati in materiali “alternativi” come la carta e la bioplastica. Materiali che il consumatore, in molti casi, fa fatica a distinguere e soprattutto a smaltire in modo corretto una volta usati.
Altroconsumo ha deciso di indagare sulla qualità di questi prodotti, spesso ritenuti implicitamente sicuri solo perché si trovano in commercio ma che in realtà possono nascondere insidie, anche di carattere rilevante, come dimostra lo studio. Le indagini di Altroconsumo hanno riguardato diversi parametri tra cui l’assenza di trasferimento di odori e sapori alle bevande, la robustezza, la capacità di contenere liquidi caldi ma soprattutto, di importanza fondamentale, la presenza di contaminanti e la loro capacità di migrare.
I risultati, relativi a bicchieri in carta e bioplastica, sono stati a volte eclatanti, visto che alcuni campioni prelevati dalle corsie dei supermercati, sono risultati non idonei al contatto con alimenti. Stiamo parlando in questo caso di requisiti cogenti, stabiliti dalla legge, e non di parametri “nice to have” o di carattere marginale.
Tradotto: si tratta di prodotti che, stando ai risultati delle analisi, non dovrebbero trovarsi in commercio.
Stranamente i bicchieri in plastica sono esclusi dal divieto di commercializzazione e non vengono elencati tra i prodotti per i quali la direttiva chiede misure ambiziose di riduzione nel consumo o attraverso sistemi di Epr, che allargano ai produttori il sostegno economico di trattamento e recupero dei rifiuti. Tuttavia il futuro di questi contenitori potrebbe seguire la medesima strada e sugli scaffali dei supermercati si trovano già oggi bicchieri monouso realizzati in materiali “alternativi” come la carta e la bioplastica. Materiali che il consumatore, in molti casi, fa fatica a distinguere e soprattutto a smaltire in modo corretto una volta usati.
Altroconsumo ha deciso di indagare sulla qualità di questi prodotti, spesso ritenuti implicitamente sicuri solo perché si trovano in commercio ma che in realtà possono nascondere insidie, anche di carattere rilevante, come dimostra lo studio. Le indagini di Altroconsumo hanno riguardato diversi parametri tra cui l’assenza di trasferimento di odori e sapori alle bevande, la robustezza, la capacità di contenere liquidi caldi ma soprattutto, di importanza fondamentale, la presenza di contaminanti e la loro capacità di migrare.
I risultati, relativi a bicchieri in carta e bioplastica, sono stati a volte eclatanti, visto che alcuni campioni prelevati dalle corsie dei supermercati, sono risultati non idonei al contatto con alimenti. Stiamo parlando in questo caso di requisiti cogenti, stabiliti dalla legge, e non di parametri “nice to have” o di carattere marginale.
Tradotto: si tratta di prodotti che, stando ai risultati delle analisi, non dovrebbero trovarsi in commercio.
Altroconsumo ha evidenziato criticità fra alcuni bicchieri in materiali alternativi alla plastica usati per bevande calde
Se in generale, dal punto di vista dell’assenza di odori, della robustezza e della stabilità i modelli realizzati in carta si sono rilevati migliori rispetto a quelli in bioplastica, sotto il profilo chimico la situazione si ribalta. Tre prodotti in carta su cinque hanno mostrato criticità di rilievo inerenti il mancato rispetto di requisiti di legge: sbiancanti ottici in quantità superiori ai limiti previsti, presenza di piombo e dell’interferente endocrino bisfenolo A.
Il piombo è un metallo pesante neurotossico, la cui esposizione va limitata soprattutto considerando i bambini, e potrebbe essere un contaminante della cellulosa usata per produrre i bicchieri o derivante dal contatto con i macchinari. Il bisfenolo A è invece un additivo usato per conferire durezza e resistenza, noto interferente endocrino al centro del dibattito scientifico. Si tratta di una sostanza che può agire in fasi particolari del ciclo vitale alterando l’equilibrio ormonale, e che sdarebbe meglio evitare.
Ma sono stati trovati anche ftalati (in tre bicchieri su cinque realizzati in carta e in uno su quattro in bioplastica). Si tratta di additivi che vengono aggiunti al polimero per renderlo flessibile e impermeabile e hanno effetti sul sistema endocrino e riproduttivo.
Altroconsumo suggerisce inoltre di usarli solo con bibite fredde: le criticità maggiori sono state individuate con i bicchierini che si propongono come adatti anche per bere bevande calde. Infine, spesso sulle etichette mancano indicazioni sul corretto smaltimento, punto piuttosto critico quando si parla di materiali nuovi, come le bioplastiche che i consumatori non sono abituati a gestire. La destinazione finale va definita in base alla compostabilità dei materiali (individuabile attraverso i marchi ufficiali), sia che si tratti di carta che di bioplastica.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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Il piombo è un metallo pesante neurotossico, la cui esposizione va limitata soprattutto considerando i bambini, e potrebbe essere un contaminante della cellulosa usata per produrre i bicchieri o derivante dal contatto con i macchinari. Il bisfenolo A è invece un additivo usato per conferire durezza e resistenza, noto interferente endocrino al centro del dibattito scientifico. Si tratta di una sostanza che può agire in fasi particolari del ciclo vitale alterando l’equilibrio ormonale, e che sdarebbe meglio evitare.
Ma sono stati trovati anche ftalati (in tre bicchieri su cinque realizzati in carta e in uno su quattro in bioplastica). Si tratta di additivi che vengono aggiunti al polimero per renderlo flessibile e impermeabile e hanno effetti sul sistema endocrino e riproduttivo.
Altroconsumo suggerisce inoltre di usarli solo con bibite fredde: le criticità maggiori sono state individuate con i bicchierini che si propongono come adatti anche per bere bevande calde. Infine, spesso sulle etichette mancano indicazioni sul corretto smaltimento, punto piuttosto critico quando si parla di materiali nuovi, come le bioplastiche che i consumatori non sono abituati a gestire. La destinazione finale va definita in base alla compostabilità dei materiali (individuabile attraverso i marchi ufficiali), sia che si tratti di carta che di bioplastica.
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Energia in Europa, il 2020 è l’anno del sorpasso delle rinnovabili sulle fossili
Nei primi sei mesi del 2020 la produzione di energia da fonti rinnovabili in Europa ha superato quella da combustibili fossili. Il caso del Portogallo.
Quest’anno sarà indimenticabile per il mondo energetico. Un primato storico ha segnato i primi sei mesi del 2020: la produzione di energia da fonti rinnovabili in Europa ha superato quella da combustibili fossili. Nei 27 paesi dell’Unione europea le fonti alternative hanno coperto il 40 per cento della produzione, quelle tradizionali solo il 34 per cento. In cinque anni il distacco si è dimezzato. I benefici per l’ambiente? Il 23 per cento in meno di emissioni di gas serra.
A rivelarlo uno studio condotto dal think tank indipendente Ember e pubblicato il 22 luglio scorso. La ricerca raccoglie i dati degli operatori dei sistemi di trasmissione delle reti nazionali (Tso) riuniti all’interno dell’associazione Entso-E.
Rinnovabili in crescita dell’11% in un anno
Ember rivela che la produzione di energia rinnovabile è cresciuta in media dell’11 per cento rispetto al primo semestre del 2019 favorita da un inizio anno mite e ventoso. Per il solare si registra un +16 per cento, per l’eolico +11 per cento e per l’idroelettrico +12 per cento. Questo grazie alle nuove installazioni di eolico e solare in Ue che hanno coperto il 21 per cento della produzione. La maggior concentrazione è stata registrata in Danimarca (64%), Irlanda (49) e Germania (42).
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Quest’anno sarà indimenticabile per il mondo energetico. Un primato storico ha segnato i primi sei mesi del 2020: la produzione di energia da fonti rinnovabili in Europa ha superato quella da combustibili fossili. Nei 27 paesi dell’Unione europea le fonti alternative hanno coperto il 40 per cento della produzione, quelle tradizionali solo il 34 per cento. In cinque anni il distacco si è dimezzato. I benefici per l’ambiente? Il 23 per cento in meno di emissioni di gas serra.
A rivelarlo uno studio condotto dal think tank indipendente Ember e pubblicato il 22 luglio scorso. La ricerca raccoglie i dati degli operatori dei sistemi di trasmissione delle reti nazionali (Tso) riuniti all’interno dell’associazione Entso-E.
Rinnovabili in crescita dell’11% in un anno
Ember rivela che la produzione di energia rinnovabile è cresciuta in media dell’11 per cento rispetto al primo semestre del 2019 favorita da un inizio anno mite e ventoso. Per il solare si registra un +16 per cento, per l’eolico +11 per cento e per l’idroelettrico +12 per cento. Questo grazie alle nuove installazioni di eolico e solare in Ue che hanno coperto il 21 per cento della produzione. La maggior concentrazione è stata registrata in Danimarca (64%), Irlanda (49) e Germania (42).

Le rinnovabili battono le fossili. © Ember
Fossili in calo, per il carbone -32%
Di contro, la produzione da fossili ha risentito del calo della domanda per la pandemia di Covid-19. Questo ha comportato un altro primato: la Germania non è riuscita a eguagliare la produzione da carbone della Polonia. Nell’Ue a 27 la generazione da carbone è diminuita del 32 per cento e quella da lignite del 29 per cento. Anche la produzione di gas, indicato da molti come il vettore energetico più favorevole per la transizione energetica, ha registrato una diminuzione del 6 per cento.Leggi anche
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Continua a calare la produzione di carbone in Europa
Fossili in calo, per il carbone -32%
Di contro, la produzione da fossili ha risentito del calo della domanda per la pandemia di Covid-19. Questo ha comportato un altro primato: la Germania non è riuscita a eguagliare la produzione da carbone della Polonia. Nell’Ue a 27 la generazione da carbone è diminuita del 32 per cento e quella da lignite del 29 per cento. Anche la produzione di gas, indicato da molti come il vettore energetico più favorevole per la transizione energetica, ha registrato una diminuzione del 6 per cento.Leggi anche
Continua a calare la produzione di carbone in Europa

Il collasso della produzione a carbone. © Ember
“È un progresso velocissimo rispetto a soli nove anni fa quando le fossili generavano il doppio delle rinnovabili”, commenta Dave Jones, senior electricity analyst di Ember. “Il piano per la ripresa economica, il next generation eu, può aiutare i Paesi ad accelerare nella transizione energetica, investendo nell’eolico e nel solare. Il just transition fund può aiutare ad abbandonare la produzione da carbone”.Leggi anche
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Next Generation Eu. Dall'Europa 750 miliardi contro la crisi economica
Centrali a carbone: le diverse anime d’Europa
Se il 2020 è l’anno del sorpasso delle rinnovabili sulle fossili, per l’anima nera della Polonia non è ancora tempo di conversione. Nel paese la produzione da carbone equivale a quella di 25 stati e non esiste un piano per la chiusura delle centrali a carbone. Ciò dimostra quanto il suo contributo sarà determinante nel percorso comunitario di transizione energetica.
“È un progresso velocissimo rispetto a soli nove anni fa quando le fossili generavano il doppio delle rinnovabili”, commenta Dave Jones, senior electricity analyst di Ember. “Il piano per la ripresa economica, il next generation eu, può aiutare i Paesi ad accelerare nella transizione energetica, investendo nell’eolico e nel solare. Il just transition fund può aiutare ad abbandonare la produzione da carbone”.Leggi anche
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Centrali a carbone: le diverse anime d’Europa
Se il 2020 è l’anno del sorpasso delle rinnovabili sulle fossili, per l’anima nera della Polonia non è ancora tempo di conversione. Nel paese la produzione da carbone equivale a quella di 25 stati e non esiste un piano per la chiusura delle centrali a carbone. Ciò dimostra quanto il suo contributo sarà determinante nel percorso comunitario di transizione energetica.

In Germania crolla la produzione di energia da carbone. © Ember
In compenso, altri stati membri ne hanno anticipato la chiusura. L’ultimo in ordine di tempo, dopo Austria e Svezia, è il Portogallo. L’utility portoghese Edp ha annunciato lo stop anticipato della centrale a Sines, prevista per il biennio 2021-2023. L’utility ha dichiarato che la fonte fossile è meno conveniente della controparte green, motivo che la porterà alla chiusura o alla conversione di altre centrali, anche in Spagna.
In compenso, altri stati membri ne hanno anticipato la chiusura. L’ultimo in ordine di tempo, dopo Austria e Svezia, è il Portogallo. L’utility portoghese Edp ha annunciato lo stop anticipato della centrale a Sines, prevista per il biennio 2021-2023. L’utility ha dichiarato che la fonte fossile è meno conveniente della controparte green, motivo che la porterà alla chiusura o alla conversione di altre centrali, anche in Spagna.

Elettricità da rinnovabili più conveniente. © Ember
È un progresso velocissimo rispetto a soli nove anni fa quando le fossili generavano il doppio delle rinnovabili
Dave Jones, senior electricity analyst di Ember
Entro il 2025 altri sette paesi fermeranno la produzione di queste centrali. Si tratta di Francia (2022), Slovacchia (2023), Portogallo (2023), Irlanda (2025) e, ultima, Italia (2025). Il Belgio, invece, ha segnato il suo record personale: ha chiuso con il carbone nel 2016.
fonte: www.lifegate.it
È un progresso velocissimo rispetto a soli nove anni fa quando le fossili generavano il doppio delle rinnovabili
Dave Jones, senior electricity analyst di Ember
Entro il 2025 altri sette paesi fermeranno la produzione di queste centrali. Si tratta di Francia (2022), Slovacchia (2023), Portogallo (2023), Irlanda (2025) e, ultima, Italia (2025). Il Belgio, invece, ha segnato il suo record personale: ha chiuso con il carbone nel 2016.
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L’Italia può fare da battistrada dell’industria dell’eolico offshore galleggiante
Le potenzialità dell'eolico galleggiante per l'Italia sono enormi anche per gli sviluppi legati all'indotto. Ne parliamo con Luigi Severini, l'ingegnere che ha progettato il primo impianto nazionale a Taranto, e con Alex Sorokin, esperto energetico.

Dall’industria fotovoltaica fuggita in Oriente, fino alle auto elettriche ignorate dal maggior produttore automobilistico nazionale: di treni per agganciare la transizione energetica a un rilancio e ammodernamento della produzione industriali, l’Italia ne ha persi un bel po’.
Adesso un altro convoglio si sta avvicinando alla “Stazione Italia”, ma riusciremo a saltarci sopra?
Il treno si chiama eolico offshore galleggiante, una tecnologia di cui si parla ormai da molti anni, ma che nessuna nazione ha ancora sviluppato, preferendo, finché c’è spazio, continuare a costruire turbine piantate in terra o sul fondo di mari profondi meno di 30 metri.
Nei nostri mari l’eolico offshore tradizionale non lo si può installare, perché fondali così bassi, accoppiati a venti forti e costanti, sono presenti quasi sempre solo a ridosso delle coste, e gli impianti sarebbero troppo invasivi: ci servono turbine montate sopra grossi galleggianti ancorati sul fondo, da mettere molto al largo.
Che lo si possa fare lo ha dimostrato dal 2017 la norvegese Statoil, che ha installato di fronte alla Scozia sei Hywind, turbine da 5 MW montate su lunghi cilindri immersi, che da allora funzionano con un’altissima produttività, resistendo a furiose tempeste. E ci sono altri prototipi in fase di test in giro per il mondo, come quelli dell’Università del Maine.
Eppure, adesso, l’Italia potrebbe essere la prima nazione a utilizzare in modo massiccio questa tecnologia, diventando anche un centro di produzione e sviluppo di macchine per fondali profondi, da esportare nei tanti paesi, dal Giappone alle Hawaii, dalla Grecia alla California, con gli stessi nostri problemi geografici.
Sono infatti state depositate al ministero dell’Ambiente due domande per la costruzione di impianti eolici galleggianti, uno nel Canale di Sicilia, fra Pantelleria e Lampedusa, a 35 km dalla costa più vicina, e l’altro a 32 km al largo di Buggerru, sulla costa sudoccidentale sarda: il primo dovrebbe avere una potenza di 250 MW con 25 turbine Siemens da 10 MW l’una, il secondo sarebbe composto da 42 turbine GE da 12 MW l’una per 504 MW di potenza complessiva.
Si stima che insieme i due impianti produrrebbero circa 2,7 TWh l’anno, aumentando del 16% la produzione eolica annuale italiana. Queste turbine sarebbero montate su un galleggiante a tetraedro, stabilizzato da una zavorra triangolare, ideato dalla società danese Stiesdal.

Dall’industria fotovoltaica fuggita in Oriente, fino alle auto elettriche ignorate dal maggior produttore automobilistico nazionale: di treni per agganciare la transizione energetica a un rilancio e ammodernamento della produzione industriali, l’Italia ne ha persi un bel po’.
Adesso un altro convoglio si sta avvicinando alla “Stazione Italia”, ma riusciremo a saltarci sopra?
Il treno si chiama eolico offshore galleggiante, una tecnologia di cui si parla ormai da molti anni, ma che nessuna nazione ha ancora sviluppato, preferendo, finché c’è spazio, continuare a costruire turbine piantate in terra o sul fondo di mari profondi meno di 30 metri.
Nei nostri mari l’eolico offshore tradizionale non lo si può installare, perché fondali così bassi, accoppiati a venti forti e costanti, sono presenti quasi sempre solo a ridosso delle coste, e gli impianti sarebbero troppo invasivi: ci servono turbine montate sopra grossi galleggianti ancorati sul fondo, da mettere molto al largo.
Che lo si possa fare lo ha dimostrato dal 2017 la norvegese Statoil, che ha installato di fronte alla Scozia sei Hywind, turbine da 5 MW montate su lunghi cilindri immersi, che da allora funzionano con un’altissima produttività, resistendo a furiose tempeste. E ci sono altri prototipi in fase di test in giro per il mondo, come quelli dell’Università del Maine.
Eppure, adesso, l’Italia potrebbe essere la prima nazione a utilizzare in modo massiccio questa tecnologia, diventando anche un centro di produzione e sviluppo di macchine per fondali profondi, da esportare nei tanti paesi, dal Giappone alle Hawaii, dalla Grecia alla California, con gli stessi nostri problemi geografici.
Sono infatti state depositate al ministero dell’Ambiente due domande per la costruzione di impianti eolici galleggianti, uno nel Canale di Sicilia, fra Pantelleria e Lampedusa, a 35 km dalla costa più vicina, e l’altro a 32 km al largo di Buggerru, sulla costa sudoccidentale sarda: il primo dovrebbe avere una potenza di 250 MW con 25 turbine Siemens da 10 MW l’una, il secondo sarebbe composto da 42 turbine GE da 12 MW l’una per 504 MW di potenza complessiva.
Si stima che insieme i due impianti produrrebbero circa 2,7 TWh l’anno, aumentando del 16% la produzione eolica annuale italiana. Queste turbine sarebbero montate su un galleggiante a tetraedro, stabilizzato da una zavorra triangolare, ideato dalla società danese Stiesdal.
Per rassicurare gli scettici sul fatto che sia una cosa seria, diciamo subito che dietro a questi due giganteschi progetti, c’è l’ingegnere Luigi Severini, l’uomo che “ha fatto l’impresa”: riuscire cioè a progettare, far approvare e ora costruire il primo impianto eolico offshore d’Italia (e del Mediterraneo), quello di Taranto.
«In realtà l’impianto di Taranto non è stato ancora completato. Dopo i noti problemi nati da ricorsi che ci hanno fatto perdere anni preziosi e il fallimento del fornitore tedesco delle turbine Senvion, abbiamo dovuto trovare una nuova turbina e adeguare il progetto ad essa. Adesso contiamo di riuscire a produrre la prima elettricità entro il 2021».
Ecco, proprio considerate tutte le difficoltà incontrate per installare appena 30 MW di eolico offshore davanti a una acciaieria, questo “rilancio” di centinaia di MW in mare aperto sembra un po’ il solito annuncio velleitario di megaimpianti che non vedremo mai…
«A finanziare questo progetto sarà la società danese Copenhagen Offshore Partners, una delle maggiori al mondo nello sviluppo di parchi eolici offshore, che intende investire in questi due impianti 2,1 miliardi di euro. Loro ci credono».
Come ha fatto a convincerli?
«Con le società 7SEASmed e ICHNUSA Wind Power, abbiamo prodotto business plan credibili e spiegato che l’Italia è un paese che ha grandi capacità industriali, infrastrutture adatte e che nei prossimi anni dovrà installare molti GW di eolico per rispettare gli impegni sul clima, ma non ha lo spazio a terra o in mari bassi per farlo. L’unica strada realistica per noi è installare impianti eolici galleggianti in alto mare, e, se ci riusciremo qui, poi potremo esportare la tecnologia in tutto il mondo. Dopo una accurata verifica dei progetti ci hanno dato fiducia».
Però lei sa meglio di chiunque altro quanto sia difficile fare eolico offshore in questo paese. Non teme ambientalisti, sovraintendenze e comitati del no, scatenati contro le sue turbine?
«Guardi, ci siamo riletti i 25 progetti di eolico offshore respinti in Italia, prima che approvassero quello di Taranto. Abbiamo capito che il rifiuto di tali impianti, molte volte giustificato, si è basato su tre ragioni principali: interferenza con paesaggio, ambiente e navigazione. Per cui questi due nuovi progetti li abbiamo tarati proprio per evitare queste tre obiezioni. Li metteremo così al largo che per vederli da terra servirà un binocolo, in zone di scarso traffico navale, ancorandoli a fondali di 250-300 metri, dove la luce non arriva e la vita vegetale sui fondali è inesistente».
In realtà un primo parere del WWF sull’impianto siciliano non sembra proprio entusiasta: secondo loro potrebbe danneggiare gli uccelli migratori.
«Abbiamo preso in considerazione anche quell’aspetto, e comunque gli ambientalisti dovrebbero applicare un metro di giudizio più completo, considerando il contributo che questo tipo di impianti fornirà al contenimento della principale minaccia per la Natura: il climate change».
Comunque, sembra che l’idea sia quella di evitare ad ogni costo i ritardi di Taranto.
«Ovviamente, ma questa volta è ancora più importante, perché si tratta di tecnologie nuove e costose e la remunerazione in Italia per l’elettricità da offshore, 215 €/MWh, è giusto sufficiente a rientrare dell’investimento. Siamo sul filo e dobbiamo procedere senza intoppi. Per capirci, in Francia danno 240 €/MWh all’eolico offshore».
Perché non avete costruito lì, allora?
«Diciamo che entrare nel mercato di quel paese non è facilissimo. Loro stanno lavorando sul galleggiante, ma attraverso progetti e industrie francesi».
Ma se i margini sono così ristretti, perché avete scelto la tecnologia della Stiesdal, che non è mai stata testata in mare?
«È stata abbondantemente testata in vasca navale, simulando condizioni anche molto peggiori di quelle del Mediterraneo, con ottimi risultati e già oggi è pronto un primo prototipo per una turbina da 3,6 MW. Quella tecnologia ha comunque un grande vantaggio sulle altre: i galleggianti sono costituiti con le stesse strutture delle torri eoliche e si possono assemblare con le turbine in un porto, per poi rimorchiarli al largo, evitando costosi e rischiosi lavori di montaggio in mare».
Questo però richiederà di avere delle basi a terra, dove effettuare il montaggio.
«Certo, e ciò crea una enorme opportunità per l’Italia: saremo i primi a valorizzare porti, bacini e industrie dedicati all’offshore galleggiante, acquisendo un know-how unico, da spendere poi nel mondo. Abbiamo già individuato porti adatti in Sicilia e Sardegna».
E a questo, dite, si aggiungerebbe la richiesta di acciaio che potrebbe arrivare all’Ilva di Taranto per la costruzione delle torri e dei galleggianti.
«Avremo bisogno di circa 270mila tonnellate proprio del tipo di prodotti in acciaio di alta qualità che lo stabilimento tarantino è in grado di offrire: sarà una commessa preziosa dopo il suo rilancio in chiave green. E non c’è solo l’acciaio. Il nostro progetto apre un’altra opportunità industriale: le grandi turbine offshore sono oggi progettate per i mari del nord, quindi per venti medi di 10-12 metri al secondo, contro i 6-8 del Mediterraneo. Questo ci obbliga a usare macchine sovradimensionate, più costose e meno efficienti di quanto sarebbero modelli “mediterranei”. La nostra industria potrebbe produrre turbine tarate per i nostri e altri mari nel mondo con venti simili».
Come sta andando l’iter autorizzativo?
«Abbiamo presentato la richiesta di Valutazione di Impatto Ambientale, e attendiamo dai ministeri le prime risposte. C’è stato qualche mese di ritardo anche per il covid-19, ma ora contiamo di ricevere la risposta a breve, le prime interlocuzioni con i ministeri sono andate molto bene, c’è comprensione e interesse per questo nuovo progetto. Superata la Via, le cose potrebbero procedere spedite ed entro due o tre anni potremmo cominciare a vedere le prime turbine galleggiare nel Mediterraneo. Evidentemente Taranto, nonostante i tanti intoppi, ha rotto il ghiaccio che bloccava l’offshore in Italia e tanti ne comprendono oggi le potenzialità».

«In realtà l’impianto di Taranto non è stato ancora completato. Dopo i noti problemi nati da ricorsi che ci hanno fatto perdere anni preziosi e il fallimento del fornitore tedesco delle turbine Senvion, abbiamo dovuto trovare una nuova turbina e adeguare il progetto ad essa. Adesso contiamo di riuscire a produrre la prima elettricità entro il 2021».
Ecco, proprio considerate tutte le difficoltà incontrate per installare appena 30 MW di eolico offshore davanti a una acciaieria, questo “rilancio” di centinaia di MW in mare aperto sembra un po’ il solito annuncio velleitario di megaimpianti che non vedremo mai…
«A finanziare questo progetto sarà la società danese Copenhagen Offshore Partners, una delle maggiori al mondo nello sviluppo di parchi eolici offshore, che intende investire in questi due impianti 2,1 miliardi di euro. Loro ci credono».
Come ha fatto a convincerli?
«Con le società 7SEASmed e ICHNUSA Wind Power, abbiamo prodotto business plan credibili e spiegato che l’Italia è un paese che ha grandi capacità industriali, infrastrutture adatte e che nei prossimi anni dovrà installare molti GW di eolico per rispettare gli impegni sul clima, ma non ha lo spazio a terra o in mari bassi per farlo. L’unica strada realistica per noi è installare impianti eolici galleggianti in alto mare, e, se ci riusciremo qui, poi potremo esportare la tecnologia in tutto il mondo. Dopo una accurata verifica dei progetti ci hanno dato fiducia».
Però lei sa meglio di chiunque altro quanto sia difficile fare eolico offshore in questo paese. Non teme ambientalisti, sovraintendenze e comitati del no, scatenati contro le sue turbine?
«Guardi, ci siamo riletti i 25 progetti di eolico offshore respinti in Italia, prima che approvassero quello di Taranto. Abbiamo capito che il rifiuto di tali impianti, molte volte giustificato, si è basato su tre ragioni principali: interferenza con paesaggio, ambiente e navigazione. Per cui questi due nuovi progetti li abbiamo tarati proprio per evitare queste tre obiezioni. Li metteremo così al largo che per vederli da terra servirà un binocolo, in zone di scarso traffico navale, ancorandoli a fondali di 250-300 metri, dove la luce non arriva e la vita vegetale sui fondali è inesistente».
In realtà un primo parere del WWF sull’impianto siciliano non sembra proprio entusiasta: secondo loro potrebbe danneggiare gli uccelli migratori.
«Abbiamo preso in considerazione anche quell’aspetto, e comunque gli ambientalisti dovrebbero applicare un metro di giudizio più completo, considerando il contributo che questo tipo di impianti fornirà al contenimento della principale minaccia per la Natura: il climate change».
Comunque, sembra che l’idea sia quella di evitare ad ogni costo i ritardi di Taranto.
«Ovviamente, ma questa volta è ancora più importante, perché si tratta di tecnologie nuove e costose e la remunerazione in Italia per l’elettricità da offshore, 215 €/MWh, è giusto sufficiente a rientrare dell’investimento. Siamo sul filo e dobbiamo procedere senza intoppi. Per capirci, in Francia danno 240 €/MWh all’eolico offshore».
Perché non avete costruito lì, allora?
«Diciamo che entrare nel mercato di quel paese non è facilissimo. Loro stanno lavorando sul galleggiante, ma attraverso progetti e industrie francesi».
Ma se i margini sono così ristretti, perché avete scelto la tecnologia della Stiesdal, che non è mai stata testata in mare?
«È stata abbondantemente testata in vasca navale, simulando condizioni anche molto peggiori di quelle del Mediterraneo, con ottimi risultati e già oggi è pronto un primo prototipo per una turbina da 3,6 MW. Quella tecnologia ha comunque un grande vantaggio sulle altre: i galleggianti sono costituiti con le stesse strutture delle torri eoliche e si possono assemblare con le turbine in un porto, per poi rimorchiarli al largo, evitando costosi e rischiosi lavori di montaggio in mare».
Questo però richiederà di avere delle basi a terra, dove effettuare il montaggio.
«Certo, e ciò crea una enorme opportunità per l’Italia: saremo i primi a valorizzare porti, bacini e industrie dedicati all’offshore galleggiante, acquisendo un know-how unico, da spendere poi nel mondo. Abbiamo già individuato porti adatti in Sicilia e Sardegna».
E a questo, dite, si aggiungerebbe la richiesta di acciaio che potrebbe arrivare all’Ilva di Taranto per la costruzione delle torri e dei galleggianti.
«Avremo bisogno di circa 270mila tonnellate proprio del tipo di prodotti in acciaio di alta qualità che lo stabilimento tarantino è in grado di offrire: sarà una commessa preziosa dopo il suo rilancio in chiave green. E non c’è solo l’acciaio. Il nostro progetto apre un’altra opportunità industriale: le grandi turbine offshore sono oggi progettate per i mari del nord, quindi per venti medi di 10-12 metri al secondo, contro i 6-8 del Mediterraneo. Questo ci obbliga a usare macchine sovradimensionate, più costose e meno efficienti di quanto sarebbero modelli “mediterranei”. La nostra industria potrebbe produrre turbine tarate per i nostri e altri mari nel mondo con venti simili».
Come sta andando l’iter autorizzativo?
«Abbiamo presentato la richiesta di Valutazione di Impatto Ambientale, e attendiamo dai ministeri le prime risposte. C’è stato qualche mese di ritardo anche per il covid-19, ma ora contiamo di ricevere la risposta a breve, le prime interlocuzioni con i ministeri sono andate molto bene, c’è comprensione e interesse per questo nuovo progetto. Superata la Via, le cose potrebbero procedere spedite ed entro due o tre anni potremmo cominciare a vedere le prime turbine galleggiare nel Mediterraneo. Evidentemente Taranto, nonostante i tanti intoppi, ha rotto il ghiaccio che bloccava l’offshore in Italia e tanti ne comprendono oggi le potenzialità».

Vedremo se sarà così. Ma siccome è troppo facile chiedere all’oste se il vino è buono, abbiano sentito un esperto indipendente per un giudizio su questa iniziativa, l’ingegner Alex Sorokin, che da molti anni ha la scomoda parte del “profeta inascoltato”, colui cioè che indica nell’eolico offshore galleggiante una scelta obbligata per il nostro paese, ma finora senza troppo successo.
Allora ingegner Sorokin, qualcuno finalmente l’ha ascoltata?
«Più che ascoltare me, qualcuno ha ascoltato il buon senso: nella condizione geografica italiana, quella è l’unica via percorribile per un eolico massivo. E anche per la nostra industria, che ha bisogno di rilanciare la siderurgia e ha grande esperienza nella cantieristica e nelle piattaforme offshore; è l’uovo di Colombo».
Ma questi progetti le sembrano realistici? Non peccano un po’ di megalomania?
«Sono fatti molto bene, con grande professionalità. Le loro grandi dimensioni non devono sorprendere: l’unico modo per rendere profittevoli iniziative così innovative, è puntare alle economie di scala e quindi ai grandi numeri. Il solo punto su cui ho qualche dubbio è il sistema di galleggiamento, molto interessante e innovativo, ma mai testato in grande scala e in mare aperto, ma immagino, vista l’esperienza nell’offshore dei finanziatori danesi, che chi lo produce abbia ben dimostrato la sua affidabilità».
Ma veramente l’ingegner Severini riuscirà a farseli approvare in tempi ragionevoli?
«La burocrazia italiana è forse la maggiore incognita di questa impresa, ma visti gli impegni climatici presi in sede europea, considerato che ormai l’eolico offshore dilaga nel mondo, dimostrandosi affidabile e molto produttivo, viste le enormi ricadute positive per il sistema industriale del nostro paese che arriveranno da questi due impianti, e, non ultimo, considerata anche la fiducia che i danesi sembrano riporre in noi, voglio sperare che si farà veramente di tutto per agevolarne l’iter. Anche al farsi male da soli c’è un limite, persino in Italia».
Forse questo treno che corre sull’acqua, non ce lo faremo scappare.
fonte: www.qualenergia.it
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Allora ingegner Sorokin, qualcuno finalmente l’ha ascoltata?
«Più che ascoltare me, qualcuno ha ascoltato il buon senso: nella condizione geografica italiana, quella è l’unica via percorribile per un eolico massivo. E anche per la nostra industria, che ha bisogno di rilanciare la siderurgia e ha grande esperienza nella cantieristica e nelle piattaforme offshore; è l’uovo di Colombo».
Ma questi progetti le sembrano realistici? Non peccano un po’ di megalomania?
«Sono fatti molto bene, con grande professionalità. Le loro grandi dimensioni non devono sorprendere: l’unico modo per rendere profittevoli iniziative così innovative, è puntare alle economie di scala e quindi ai grandi numeri. Il solo punto su cui ho qualche dubbio è il sistema di galleggiamento, molto interessante e innovativo, ma mai testato in grande scala e in mare aperto, ma immagino, vista l’esperienza nell’offshore dei finanziatori danesi, che chi lo produce abbia ben dimostrato la sua affidabilità».
Ma veramente l’ingegner Severini riuscirà a farseli approvare in tempi ragionevoli?
«La burocrazia italiana è forse la maggiore incognita di questa impresa, ma visti gli impegni climatici presi in sede europea, considerato che ormai l’eolico offshore dilaga nel mondo, dimostrandosi affidabile e molto produttivo, viste le enormi ricadute positive per il sistema industriale del nostro paese che arriveranno da questi due impianti, e, non ultimo, considerata anche la fiducia che i danesi sembrano riporre in noi, voglio sperare che si farà veramente di tutto per agevolarne l’iter. Anche al farsi male da soli c’è un limite, persino in Italia».
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