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Nel 2070 un terzo dell’umanità potrebbe vivere in regioni calde come il Sahara

Uno studio scientifico spiega che, se non agiremo in tempo, tra 50 anni su quasi un quinto della Terra il clima sarà caratterizzato da caldo insopportabile.




Se non agiremo per mitigare i cambiamenti climatici, 3,5 miliardi di persone si ritroveranno, entro i prossimi 50 anni, a vivere in luoghi caldi come lo è oggi il deserto del Sahara. Nel 2070, si tratterà di un terzo della popolazione mondiale. Che si troverà costretta ad abbandonare terre che per seimila anni hanno beneficiato di una “nicchia climatica” che oggi il mondo si appresta ad abbandonare per colpa di uno sviluppo incontrollato, insostenibile e incurante dei limiti del Pianeta.
L’analisi riscrive la geografia climatica del Pianeta

A spiegarlo è un rapporto pubblicato il 4 maggio sulla rivista scientifica americana Proceedings of the National Academy of Science (Pnas). Nel quale spiega in che modo cambierà la “geografia climatica” della Terra in caso di inazione da parte della comunità internazionale. Ovvero qualora il mondo decida di continuare a produrre con i metodi attuali, disperdendo immense quantità di gas ad effetto serra nell’atmosfera e non limitando, di conseguenza, la crescita della temperatura media globale.





Gli impatti e i costi del riscaldamento globale saranno molto più grandi del previsto e avranno un impatto rilevante sugli ecosistemi, sulle comunità e sulle economie umane © Jody Davis / Pixabay

Come noto, infatti, l’Accordo di Parigi indica che il riscaldamento globale dovrà essere limitato ad un massimo di 2 gradi centigradi, alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. “Rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi”, indica il documento. Era il 2015 quando il mondo lo approvò, al termine della ventunesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (Cop 21). All’epoca, ai governi fu chiesto anche di presentare degli impegni formali di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Inoltre, fu chiesto al Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) di redigere un rapporto, con l’obiettivo di comprendere cosa cambierà, in concreto, se la temperatura dovesse crescere di 1,5 o di 2 gradi centigradi. Il documento, chiamato Special report 1.5 è stato consegnato nell’ottobre del 2019, curato da una task force di 91 super-esperti provenienti da 40 paesi, e ha spiegato che le differenze, in termini di impatto del riscaldamento globale, sarebbero enormi.
Il clima rischia di essere stravolto nelle regioni temperate come in quelle tropicali

Eppure, le promesse di riduzione delle emissioni di CO2 avanzate dai governi nel 2015 non soltanto non ci porteranno a centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi, ma neppure quello dei 2 gradi. Faranno salire la temperatura media globale a 3,2 gradi, nel 2100, secondo quanto riferito dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente nel rapporto Emissions Gap. Il che significherà passare da una condizione di crisi climatica ad un’autentica catastrofe. E ciò a patto che gli impegni vengano rispettati per intero…

Ma non è tutto. Uno studio pubblicato da 100 scienziati francesi ha indicato che, nel peggiore degli scenari, il riscaldamento globale potrebbe raggiungere i 7 gradi centigradi. Un valore ben più alto rispetto a quelli finora ipotizzati. Lo studio pubblicato dal Pnas, curato da ricercatori cinesi, americani ed europei, indica che già nel 2070 la temperatura media potrebbe crescere di 3 gradi. “Ma in alcune aree si potrebbe arrivare a 7,5, in assenza di azioni di mitigazione”, spiega il rapporto.

Così, terre che sono state abitate dagli esseri umani (e utilizzate per produzioni agricole) per migliaia di anni diventeranno invivibili. Oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive in regioni temperate, nelle quali la temperatura annuale si situa mediamente tra 11 e 15 gradi centigradi. Un numero più ristretto di persone abita invece in regioni equatoriali o tropicali, nelle quali la media è decisamente più alta: tra i 20 e i 25 gradi.




Il riscaldamento globale potrebbe raggiungere i 7 gradi centigradi
secondo uno studio francese © Uriel Sinai/Getty Images)
A rischio soprattutto le aree più povere del mondo

Ebbene, nel primo caso le temperature potrebbero raggiungere i 20 gradi in media, ovvero l’equivalente attuale dell’Africa settentrionale. Mentre chi abita in zone già calde, il valore medio potrebbe raggiungere i 29 gradi. Condizioni estreme, che oggi si registrano soltanto nello 0,8 per cento della superficie terrestre, ma che potrebbero essere la realtà, di qui a 50 anni, per il 19 per cento del Pianeta.

Infine, lo studio aggiunge che le zone più colpite saranno le più povere del mondo. In particolare l’India, la Nigeria, il Pakistan, l’Indonesia e il Sudan. Nei quali già oggi vivono quasi due miliardi di persone.

fonte: www.lifegate.it


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Promuovere l’efficienza delle risorse per combattere i cambiamenti climatici

Aumentare l'efficienza dei materiali è un'opportunità chiave per realizzare gli impegni dell'accordo di Parigi























Il modo in cui l'economia globale gestisce le risorse naturali influenza profondamente il clima. I sistemi infatti con cui queste risorse vengono estratte, prodotte e utilizzate sono importanti fonti di gas serra. Le emissioni derivanti dalla produzione di materiale sono ora paragonabili a quelli di agricoltura, silvicoltura e cambiamento di uso del suolo, eppure hanno ricevuto molta meno attenzione da parte delle politiche.
Gli sforzi di mitigazione dei cambiamenti climatici globali si sono fino ad oggi infatti concentrati sul miglioramento dell'efficienza energetica e sul passaggio alle energie rinnovabili. Sebbene questo sia fondamentale, è necessario prestare maggiore attenzione all'efficienza dei materiali, altrimenti sarà quasi impossibile e sostanzialmente più costoso mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 ° C. Le tecnologie per aumentare l'efficienza dei materiali sono oggi disponibili e esistono opportunità significative di riduzione delle emissioni climalteranti.
Una rigorosa valutazione del contributo dell’efficienza dei materiali alle strategie di riduzione dei gas serra è stata condotta dall’International resource panel del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) che ha valutato il potenziale di riduzione delle emissioni di gas serra derivante dalle strategie di efficienza dei materiali applicate agli edifici residenziali e ai veicoli utilitari leggeri e ha passato in rassegna le politiche che attualmente affrontano queste strategie.
Le opportunità di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra associate agli edifici residenziali
Le emissioni di gas a effetto serra prodotte dal ciclo dei materiali degli edifici residenziali nel G7 e in Cina potrebbero essere ridotte di almeno l'80% nel 2050 attraverso strategie quali un uso più intensivo delle case, una progettazione che preveda meno materiali, una raccolta sostenibile del legname, un migliore riciclaggio dei materiali da costruzione. Nel complesso, l'utilizzo di queste strategie nel G7 potrebbe comportare risparmi cumulativi nel periodo 2016-2050 pari a 5-7 Gt CO2e.
Le opportunità per ridurre le emissioni di gas a effetto serra associate alle autovetture
Oltre ai risparmi sulle emissioni di gas serra ottenuti passando a forme pulite di energia e a veicoli alimentati a energia elettrica o a idrogeno, l'efficienza dei materiali potrebbe offrire ulteriori e maggiori risparmi. Le emissioni di gas serra dal ciclo dei materiali di autovetture (produzione, uso e smaltimento) nel 2050 potrebbero essere ridotte fino al 70% nei paesi del G7 e il 60% in Cina e in India attraverso diversi modelli di utilizzo del veicolo, come ad esempio la condivisione dell'auto, e il passaggio a veicoli più piccoli che riducono non solo la domanda di materiali, ma anche il consumo di energia durante il loro funzionamento.
infografica unep
Per approfondimenti leggi il report Resource Efficiency and Climate Change
fonte: http://www.arpat.toscana.it/


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INCENERITORI ED EFFETTO SERRA Il contributo degli inceneritori alla produzione di gas climalterante con effetto serra








INCENERITORI ED EFFETTO SERRA
Il contributo degli inceneritori alla produzione di gas climalterante con effetto serra


Sintesi
Secondo i dati ISPRA già oggi gli inceneritori emettono CO2 di origine fossile per kWh netta prodotta in misura pari al 220% rispetto alle emissioni del mix energetico nazionale. Mentre le emissioni di quest’ultimo continuano nella loro pronunciata discesa, gli inceneritori non mostrano altrettanta capacità, per cui il gap già elevato è destinato ad ampliarsi.
Questo dimostra che gli inceneritori non sono assolutamente più una alternativa alle fonti fossili nella produzione di energia, e ancor meno rispetto alle prospettive a medio-lungo termine di emissioni del mix energetico nazionale, ma, anche se la quota di energia prodotta dagli inceneritori è bassa, costituiscono comunque, come tutti gli impianti con emissioni superiori al mix energetico nazionale, una palla al piede rispetto agli obiettivi europei di azzerare le emissioni entro il 2050.
Non appaiono più neanche una valida alternativa rispetto alle discariche dato che con la stabilizzazione obbligatoria del RUR e la captazione del biogas le emissioni di CO2 equivalente derivanti dalla produzione di biogas non sembrano colmare il divario.
Occorre mettere in campo da subito una exit strategy dall’incenerimento che veda la loro chiusura anticipatamente e comunque non oltre la fine degli ammortamenti degli investimenti già eseguiti, e che metta in campo tecnologie e metodologie di gestione dei rifiuti alternative più efficienti, tanto più in considerazione del trend di riduzione dei rifiuti urbani da smaltire.

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Relazione
Per dimostrare che l'incenerimento ha una funzione ambientale positiva si è sempre affermato che tale pratica permette una riduzione delle emissioni di gas climalteranti, usando uno o più dei seguenti argomenti:
· L’energia prodotta da RU è “rinnovabile” (oppure)
· Pur essendo solo parzialmente rinnovabile, sostituisce fonti fossili (oppure) le emissioni di CO2 di origine fossile derivanti dall'incenerimento per unità di energia prodotta sarebbero inferiori a quelli emesse dalle altre fonti di energia.
Tralasciando la prima affermazione, palesemente inconsistente ad uno scrutinio scientifico, esaminiamo le altre due. Chi afferma questo normalmente prende a riferimento tre parametri obsoleti. Infatti il confronto viene fatto:
•• con i combustibili fossili e non col mix energetico nazionale di produzione di energia; e/o
•• prendendo in considerazione la produzione di energia lorda e non quella netta; e/o
•• aggiungendo al risparmio di CO2 equivalente anche l'effetto equivalente delle tradizionali emissioni di metano dalle discariche.
Oggi il confronto va fatto non solo rispetto all'attuale mix energetico nazionale per unità netta di energia prodotta, ma soprattutto rispetto alle prospettive a medio-lungo termine di emissioni del mix energetico nazionale. In effetti, la decarbonizzazione in corso della produzione energetica, processo unidirezionale e con obiettivi dichiarati e condivisi a livello UE, comporta produzioni specifiche di gas climalteranti per kWh prodotto sempre più basse.
Dalle dichiarazioni ambientali dei gestori degli 8 inceneritori per rifiuti urbani presenti nel 2018 in Emilia Romagna, di cui 4 con sola produzione di energia elettrica e 4 con produzione di energia elettrica e termica, si ottiene un dato medio di CO2 totale emessa di 1.135,6 grammi per kWh lordo prodotto. Se prendiamo questo dato come riferimento le emissioni di CO2 degli inceneritori risultano nettamente superiori anche alle emissioni del carbone (884 grammi/kWh lordo).
Ma la CO2 emessa dagli inceneritori proviene dalla combustione sia di prodotti derivati dal petrolio (fossile) sia dalla combustione di sostanza organica (biogenica) derivante direttamente o indirettamente dalla fotosintesi.
La CO2 di derivazione biogenica viene indicata ad effetto neutro rispetto ai cambiamenti climatici perché restituisce all'atmosfera quella sottratta con la fotosintesi[1]. Ovviamente se l'atmosfera, come attualmente, ha già una sovrabbondanza di CO2, sarebbe più utile prevedere processi che sequestrino il carbonio senza reimmetterlo in atmosfera per ridurre l'effetto serra, come avviene in parte con la trasformazione della sostanza organica in compost utilizzato come ammendante dei terreni.
La CO2 di derivazione fossile produce un incremento di gas climalterante in atmosfera con aumento dell'effetto serra[2].
Nella dichiarazione ambientale dei gestori degli inceneritori non viene normalmente specificato quanta della CO2 emessa è di tipo fossile e quanta di tipo biogenica, lasciando intendere che quella biogenetica risulta superiore a quella fossile.
ISPRA[3] certifica[4] che nel 2018 gli inceneritori in Italia hanno emesso 554,2 grammi di CO2 fossile per kWh lordo prodotto di energia combinata termica ed elettrica. Applicando questo dato agli inceneritori dell'Emilia Romagna si ottiene che del totale di CO2 emessa il 48,9% è fossile mentre il 51,1% (pari a 581,4 grammi) è biogenica.
Nello stesso anno (2018) le emissioni del mix energetico nazionale[5] per kWh lordo erano di 281,4 grammi, mentre quelle del comparto termoelettrico per i soli combustibili fossili era di 493,8 grammi.
Questa evidenza, che può apparire paradossale, è in realtà pienamente comprensibile laddove si ponga mente al fatto che gli inceneritori sono impianti poco efficienti rispetto alle centrali elettriche avendo un rendimento lordo, in termini di energia elettrica, attorno al 24%, rispetto al 44,8% delle centrali termoelettriche.
Ma ancor più gli inceneritori sono impianti fortemente energivori. Nei 4 impianti dell'Emilia Romagna con sola produzione di energia elettrica si ha un autoconsumo di energia pari al 22,7%, mentre negli altri 4 con produzione cogenerativa elettrica e termica l'autoconsumo scende al 16,0%. La media di autoconsumo è del 18,3%.
Dai dati ISPRA si apprende che l'autoconsumo per l'intero comparto degli impianti termoelettrici, comprendenti sia quelli con sola produzione elettrica sia quelli con produzione combinata è molto minore e pari al 4,7%.
Se si calcolano le emissioni degli inceneritori di CO2 totale per energia netta prodotta si ottengono 1.389 grammi per kWh netto prodotto, di cui 678 grammi di origine fossile ben oltre il doppio dei 295 del mix energetico nazionale.
Per l'incenerimento la quota di CO2 biogenetica per kWh netto sale a 711 grammi, emissioni non presenti nel resto del comparto termoelettrico, a parte le centrali a biomasse.




Se il rifiuto residuo viene collocato in discarica senza alcun pretrattamento, dalla sostanza organica biogenica si producono nell'arco di 40 anni sostanze gassose (biogas). Tolta una piccola percentuale di altri gas, circa la metà del carbonio biogenico si trasforma in CO2 biogenica e l'altra metà in metano (CH4). Il metano è un gas con potere climalterante 34 volte superiore rispetto alla CO2, anche se meno persistente in atmosfera perché tende a degradarsi col tempo.
Senza alcun intervento le emissioni climalteranti delle discariche risulterebbero nettamente superiori alla CO2 fossile derivante dall'incenerimento.
Oggi però le condizioni sono profondamente mutate, non solo perché circa l'80% del biogas viene captato per alimentare generatori elettrici o, in misura minore, eliminato in torcia, trasformando il metano in CO2 di origine biogenica e quindi considerato neutro sotto l'aspetto climalterante, ma soprattutto perché da alcuni anni è stato finalmente recepita la direttiva discariche 99/31 che impone:
1. la riduzione progressiva del rifiuto biodegradabile in discarica
2. il pretrattamento del rifiuto, che comporta, per il materiale non incenerito, la stabilizzazione della frazione organica prima dello smaltimento.
Per queste ragioni la produzione di biogas dai nuovi rifiuti smaltiti risulta fortemente ridotta, in modo tale, a nostro avviso, da non poter colmare il divario esistente fra emissioni degli inceneritori ed emissioni del mix energetico nazionale.
Da un'analisi di 195 campioni di RUR (Rifiuto Urbano Residuo) condotta da ARPAE[6] dell'Emilia Romagna tra il 2015 e il 2017 risulta una presenza di rifiuti di origine fossile (plastiche varie, quota parte di tessili, di prodotti assorbenti per l'igiene e altre frazioni minori) pari al 23,8% su 276 kg pro-capite di RUR in caso di raccolta prevalentemente stradale, e una quota del 31% su 128 kg pro-capite in caso di una raccolta prevalentemente porta a porta con una media del 25,1% su 227 kg di RUR[7]. Questi dati indicano che più aumenta la raccolta differenziata e diminuisce il RUR pro-capite prodotto, più in esso si concentrano le plastiche. I dati di presenza di plastiche emersi in Emilia Romagna sono superiori a quanto normalmente indica la media nazionale e a quanto indicano i gestori (14-19%) per correlarlo alle proprie emissioni di CO2 fossile.
Si ritiene pertanto che, più progredisce la raccolta differenziata, maggiori siano i quantitativi di emissione di CO2 di origine fossile (dunque non neutra dal punto di vista climalterante) per kg di RUR incenerito e per kWh prodotto, mentre con il trattamento di biostabilizzazione il carbonio di origine fossile rimane “sequestrato” in discarica, e non immesso in atmosfera. È possibile che già oggi il dato di materiale di origine fossile sia sottostimato, ma soprattutto la prospettiva è di una sempre maggiore incidenza della CO2 fossile sul totale della CO2 emessa dagli inceneritori per unità di rifiuti trattato.
Ma anche prendendo come riferimento i dati nazionali appare evidente l'insostenibilità ambientale dell'uso degli inceneritori come strumenti di produzione energetica. Gli inceneritori appaiono impianti energetici sempre più obsoleti, inefficienti, a basso rendimento ed energivori e con scarsissima suscettibilità di miglioramento.
L'obiettivo dell'Unione Europea è di azzerare le emissioni di CO2 fossile entro il 2050. Il trend di emissioni del mix energetico italiano è in forte e costante decrescita. Nel 1990[8] era di 576,9 grammi/kWh lordo. Nel 2018, dopo 28 anni era quasi dimezzato a 281,4 grammi. La linea di tendenza di questo trend porta all'azzeramento prima della data dell'obiettivo.
Per poter centrare l'obiettivo occorre programmare l'abbandono non solo delle fonti e degli impianti che producono emissioni oltre il mix energetico attuale, ma rivolgersi a fonti ed impianti che assicurino di rimanere sempre sotto il trend di decrescita delle emissioni, avendo come riferimento, come indica la UE, non la situazione attuale, ma l'obiettivo di emissioni dell'anno di fine ammortamento dell'impianto.
Poiché normalmente il tempo di ammortamento degli impianti è calcolato in 20 anni, un qualsiasi impianto che entra in funzione oggi, nel 2020 deve garantire emissioni di CO2 fossile non superiori a quelle previste nel 2040, quindi sotto i 100 grammi per kWh prodotta.
Confrontando il trend di calo di emissioni di CO2 fossile del mix energetico nazionale dal 2010 al 2018, pari a meno 26%, con quello minore degli inceneritori pari a meno 16%, si constata che il divario aumenta.
Il calo degli inceneritori è dovuto soprattutto al passaggio da sola produzione elettrica a produzione combinata di elettricità e calore, per cui i margini di miglioramento tendono ad esaurirsi, come dimostra la curva che tende ad appiattirsi negli ultimi anni. 




Gli inceneritori già oggi non solo producono emissioni maggiori di oltre il 100% rispetto all'energia netta prodotta, ma danno anche la garanzia di peggiorare la situazione rispetto al trend, una vera palla al piede alla lotta ai cambiamenti climatici.
Occorre quindi mettere in campo da subito una exit strategy dall'incenerimento che veda la loro chiusura anticipatamente e comunque non oltre la fine degli ammortamenti degli investimenti già eseguiti, e che metta in campo tecnologie e metodologie di gestione dei rifiuti alternative più efficienti, tanto più in considerazione del trend di riduzione dei rifiuti urbani da smaltire.


Conclusioni
Il contributo dell'incenerimento dei rifiuti nella produzione nazionale di energia, sebbene assai limitato, è stato finora indicato come una alternativa alla produzione tradizionale di energia che permette una riduzione delle emissioni di gas climalterante.
Oggi, viceversa, grazie al dimezzamento delle emissioni del mix energetico nazionale, l'incenerimento dei rifiuti contribuisce, assieme ai combustibili fossili, al peggioramento dell'effetto serra, allontanando l'obiettivo europeo di azzerare le emissioni al 2050, obiettivo che potrà essere raggiunto solo se verranno eliminate nei tempi richiesti tutte le fonti maggiormante emissive sostituendole con fonti non emissive.
D'altra parte il recupero energetico finora è stato l'argomento principale che ha collocato l'incenerimento su un gradino superiore rispetto alla discarica. Con quanto esposto questo argomento sembra ormai venuto meno.
Anche la combustione del rifiuto come alternativa al collocamento in discarica per eliminare la dispersione di metano (quale gas fortemente climalterante) che si origina in discarica dai rifiuti organici sottoposti ad ambiente anaerobico, appare superata con le nuove pratiche definitivamente introdotte di biostabilizzazione e di captazione del biogas a fini energetici.
In un contesto ormai profondamente modificato anche rispetto a pochi anni addietro, gli assunti del passato vanno rimessi in discussione e rivisti sulla base delle nuove condizioni per verificare se quel gradino di differenza fra incenerimento e discarica esista ancora o sia venuto meno come i dati esposti indicano.
Ma il tutto va rivisto in base all'evoluzione della produzione e gestione dei rifiuti, del calo sempre più marcato del residuo da smaltire e della sua composizione, alla continua evoluzione delle tecnologie che oggi permettono sia di ampliare e riciclare la gamma delle frazioni differenziate raccolte, ma anche di trattare diversamente il rifiuto residuo e gli scarti delle raccolte differenziate, per cui l'alternativa non è più fra discarica e inceneritore, ma fra questi strumenti e altri stumenti emersi o che stanno emergendo.


In tutti i casi la verifica delle emissioni climalteranti degli inceneritori che abbiamo riportato in confronto con l'insieme dei risultati delle altre fonte energetiche, ma soprattutto rispetto alle prospettive a medio-lungo termine di emissioni del mix energetico nazionale, ci dicono che l'incenerimento dei rifiuti uno strumento ormai superato e diventato dannoso, che non può più avere un alcun futuro ma solo essere oggetto di una exit strategy assieme all'approfondimento delle alternative[9] già in essere che possono sostituirlo.

Comitato Scientifico Rete Rifiuti Zero E


[1] Sul fatto che l'effetto sia effettivamente neutro sono stati sollevati molti dubbi a nostro avviso fondati.
[2] Uno studio di UNIMORE sull'inceneritore di Coriano (RN) indica emissioni per kWh lordo prodotto pari a 564 grammi di CO2 fossile e 885 di CO2 biogenica. Prof. A. M. Ferrari "AnalisiLCA dell’inceneritore dei rifiuti solidi urbani di Coriano (RN)" (in PDF)
[3] ISPRA - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale,
[4] ISPRA – Fattori emissione produzione e consumo elettricità 2019
[5] ISPRA – Rapporti 280/2018 “Fattori di emissione in atmosfera di gas a effetto serra e altri gas nel settore elettrico”
[6] Nostra elaborazione su documentazione ARPAE
[7] La componente fossile risulta mediamente pari al 35% dei solidi volatili.
[8] ISPRA – Rapporti 317/2020 "Fattori di emissione di gas ad effetto serranel settore elettrico nazionale e nei principali paesi Europei"
[9] le alternative che verranno descritte in altre schede, si possono così sintetizzare: interventi a monte del trattamento attraverso il potenziamento delle azioni di riduzione dei rifiuti, il prolungamento della vita utile dei beni, l'ampliamento delle frazioni differenziate raccolte e il loro riciclaggio, l'applicazione dei più performanti sistemi di raccolta sia sotto l'aspetto quantitativo che sotto quello qualitativo per rendere minimo sia il RUR che gli scarti delle frazioni differenziate. Interventi sul trattamento con la selezione del RUR ai fini dell'ulteriore intercettazione di materiali riciclabile e la biostabilizzazione delle frazioni organiche fino a bassi indici respirometrici, con utilizzo alternativo del biostabilizzato. Interventi sulla produzione dei beni sulla base dell'analisi del rifiuto residuo per eliminare qualsiasi prodotto non riusabile o non riciclabile.


fonte: https://rifiutizeroer.blogspot.com/

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La pandemia ci aiuterà a migliorare l’approccio alla green economy?

Ronchi: «Si tornerà al punto di partenza precedente come se niente fosse accaduto, o avremo fatto qualche passo avanti per capire meglio le sfide del nostro tempo?»




La pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 in corso sta facendo calare i consumi, la produzione di rifiuti, il traffico, le concentrazioni di inquinanti atmosferici e le emissioni di CO2, ma tutto ciò non ha niente a che vedere con la sostenibilità: di fatto si tratta di una decrescita imposta da uno shock esterno all’economia, molto lontana da qualsiasi orizzonte di sviluppo sostenibile. Eppure Covid-19 sta dolorosamente mettendo in discussione il nostro modo di vivere la vita, e da tutto questo potremmo trarre delle lezioni utili per la ripresa. Presentato esattamente ad un mese dall’inizio delle misure di distanziamento sociale dal Green city network e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, il dossier Pandemia e sfide green del nostro tempo aiuta a capire quali.

Sappiamo ad esempio che la causa profonda della pandemia in corso va cercata nella progressiva invasione e distruzione degli ecosistemi naturali, che espone l’uomo all’assalto di virus presenti in altri animali. Pensare che la colpa stia (solo) nel traffico di specie che trova sbocco nei wet market cinesi sarebbe un abbaglio: difficilmente riflettiamo sul fatto che i prodotti che noi stessi consumiamo ogni giorno sono fatti con risorse naturali prelevate in grandi quantità in diverse parti del mondo. Di fatto però in Italia, rispetto ad un consumo interno di materiali di 489 milioni di tonnellate, ben 322 vengono importate: questo significa che per ogni 10 kg di materiale, 6,5 kg sono di provenienza estera. Al contempo circa la metà delle emissioni totali di gas a effetto serra e più del 90% della perdita di biodiversità e dello stress idrico sono determinati dall’estrazione di risorse e dai processi di trasformazione di materiali, combustibili e alimenti.

La severa lezione impartita dalla pandemia deve dunque spingerci a ripensare il rapporto tra uomo e consumi, a partire da quelli di cibo, in quanto la progressiva trasformazione ed eliminazione di sistemi naturali, unita ad altri fattori quali il commercio incontrollato e spesso illegale di specie di fauna selvatica, contribuisce in maniera rilevante a facilitare il passaggio di organismi patogeni dagli animali all’uomo.

Il dossier richiama, inoltre, la necessità di contenere i danni generati da questa pandemia al sistema di gestione rifiuti e all’economia circolare, in modo che non diventino permanenti perché è necessario preservare il carattere di servizio essenziale strategico della gestione dei rifiuti che non può essere interrotto e che deve funzionare comunque, e funzionare bene, e restare un perno decisivo di un modello circolare di economia.

È necessario riconoscere anche che il crollo dei consumi energetici sta generando una riduzione delle emissioni di CO2 nel breve periodo, ma il trend delle emissioni globali – prima della pandemia da coronavirus – era ben lontano dalla drastica riduzione necessaria. In questo quadro, per il dossier, la decarbonizzazione del settore civile resta una priorità.

Lo stesso si può dire per la mobilità: le città sono praticamente prive di traffico da quando il coronavirus ha costretto tutti a restare a casa, e per evitare che a crisi finita si ritorni al traffico congestionato e inquinante delle nostre città si deve approfittare per aprire una riflessione sul modello di mobilità urbana e su come cambiarlo quando il coronavirus se ne sarà andato. Le misure di confinamento (lockdown) mettono allo stesso tempo in discussione comportamenti e abitudini consolidate: ad esempio l’utilità dello spostamento e le possibili alternative, come lo smart working.

Una riflessione che si collega giocoforza anche a quella dell’abitazione concepita non più come solo dormitorio, ma anche luogo di lavoro, di studio e di cultura, di svago e di socialità. La pandemia ha insegnato l’importanza di spazi per lo smart working ma anche di balconi, terrazzi, cortili e giardini anche condominiali, tutti gli spazi intermedi in generale che possono svolgere ruoli importanti, anche dal punto di vista ambientale, con il green building approach.

«Durante questa pandemia i consumi sono calati, l’attenzione sui consumi alimentari è cresciuta – si domanda Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – ma dopo si tornerà al punto di partenza precedente, come se niente fosse accaduto, o avremo fatto qualche passo avanti per capire meglio le sfide del nostro tempo?». La risposta è nelle nostre mani, a partire dalla domanda di cambiamento che è necessario esprimere verso istituzioni e politica.

fonte: www.greenreport.it


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Clima, esplodono le emissioni del super gas ad effetto serra Hfc-23

Il gas Hfc-23, 13mila volte più potente della CO2, era dato in forte calo. Invece, secondo uno studio, ha raggiunto livelli record nell’atmosfera.















Le conferenze internazionali, i rapporti degli istituti di ricerca e le denunce delle ong si concentrano spesso sulle emissioni di biossido di carbonio (CO2). Ovvero il principale gas ad effetto serra di origine antropica, in termini di quantitativo disperso nell’atmosfera terrestre. Ma il processo di riscaldamento di quest’ultima è alimentato anche da altre sostanze. Una di queste, è l’Hfc-23.

Secondo uno studio, il gas Hfc-23 ha raggiunto livelli record nell’atmosfera terrestre

In pochi lo conoscono, anche perché si riteneva che fosse stato sostanzialmente eliminato già negli anni scorsi. Contrariamente ad ogni aspettativa, invece, le concentrazioni di trifluorometano nell’atmosfera terrestre sono cresciute a livelli recordsecondo uno studio pubblicato il 21 gennaio dalla rivista scientifica Nature.
Una notizia drammatica, se si tiene conto del fatto che l’Hfc-23 – prodotto secondario necessario alla fabbricazione dell’Hcfc-22, presente nei condizionatori d’aria di tutto il mondo (ma in particolare nei paesi in via di sviluppo) – ha un potere climalterante 13mila volte maggiore rispetto alla CO2. E permane nell’atmosfera per più di due secoli.

hfc-23 clima gas
L’andamento delle emissioni del potente gas ad effetto serra Hfc-23, secondo uno studio pubblicato su Nature © “Increase in global emissions of HFC-23 despite near-total expected reductions”, Nature, 2020

Le emissioni di Hfc-23 avrebbero dovuto calare dell’87 per cento entro il 2017

Lo studio sottolinea come il problema sia concentrato soprattutto in Cina e in India, nonostante le due nazioni avessero promesso una riduzione drastica. “A partire dal 2015 – scrivono gli scienziati autori del testo – i due stati asiatici che dominano la produzione di Hcfc-22, e dunque sono responsabili anche del derivato Hfc-23, avevano definito dei programmi ambiziosi. Che avrebbero dovuto portare ad un calo dell’87 per cento, a livello globale, entro il 2017”.
Tuttavia, prosegue l’analisi dei ricercatori, “tenuto conto dell’ampiezza dello scarto tra le emissioni attese e quelle osservate, è probabile che gli obiettivi di riduzioni dichiarati non siano stati in realtà centrati. Oppure che esista una produzione importante, non dichiarata di Hcfc-22, in grado di spiegare le emissioni non contabilizzate di Hfc-23”. In attesa di comprendere la causa del problema, ciò che è chiaro è che il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi diventa sempre più difficile.
fonte: www.lifegate.it

Crisi climatica: 8 record inquietanti dal decennio che abbiamo appena vissuto

Caldo, fenomeni estremi, emissioni di CO2, scioglimento dei ghiacci polari, incendi. I cambiamenti climatici sono la nostra quotidianità. Il 2019 chiude un decennio catastrofico.




Con il 2019 si è chiuso un decennio drammatico per il clima. Fatto di ondate di caldo eccezionali, di ghiacciai in ritirata ovunque nel mondo, di concentrazioni record di gas ad effetto serra nell’atmosfera, di crescita del livello dei mari e di eventi meteorologici estremi sempre più violenti e frequenti. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha raccolto ed elencato i dati più inquietanti.


A partire da quelli relativi alla temperatura media globale: “È praticamente certo che quella degli ultimi cinque anni (2015-2019) risulterà la più alta mai registrata”. Gli indicatori climatici mondiali recensiti dall’Omm raccontano il decennio appena concluso e pongono il mondo di fronte a dati, numeri, cifre che non ammettono interpretazione. È la scienza che parla. E la politica deve cominciare ad ascoltare, dopo il fallimento della Cop 25 di Madrid. Ecco otto tra i segnali più preoccupanti che ci sta inviando la Terra.

1 Il 2019 chiude il decennio più caldo di sempre

Con una temperatura superiore di 1,1 gradi centigradi rispetto all’epoca pre-industriale, il 2019 sarà ricordato come il secondo o il terzo anno più caldo di sempre. E ciò non rappresenta un’eccezione: dagli anni Ottanta, ogni decennio che si è chiuso è stato più caldo del precedente. In particolare, l’Omm sottolinea come vaste regioni dell’Artico abbiano registrato temperature eccezionalmente elevate nel 2019.

A livello globale, inoltre, i dati di ottobre 2019 hanno superato di 0,69 gradi centigradi la media del periodo compreso fra il 1981 e il 2010. Anche se di poco, è stato l’ottobre più caldo degli ultimi quattro decenni, con una differenza minima rispetto agli stessi mesi del 2015 (+0,01 gradi centigradi) e del 2017 (+0,09 gradi), che si collocano rispettivamente sul secondo e sul terzo gradino del podio

2 Concentrazione record di gas ad effetto serra nell’atmosfera

Nel 2018 (i dati del 2019 saranno disponibili alla fine del 2020) le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera terrestre hanno raggiunto nuovi picchi. Ciò per quanto riguarda la CO2 (con 407,8 parti per milione), il metano (1.869 parti per miliardo) e il protossido di azoto (331,1 parti per miliardo). “Parliamo rispettivamente del 147, del 259 e del 123 per cento rispetto ai livelli pre-industriali”, sottolinea l’Organizzazione meteorologica mondiale. Al contempo, le emissioni mondiali di CO2 continuano ad aumentare. E raggiungeranno un nuovo record nel 2019. A confermarlo è il rapporto annuale del Global carbon project, consorzio di decine di scienziati e laboratori internazionali, pubblicato mercoledì 4 dicembre. Nel mondo si dovrebbero raggiungere i 36,8 miliardi di tonnellate, battendo così il record del 2018.



Un mercato nei pressi della centrale a carbone di Huainan, nella provincia cinese di Anhui © Kevin Frayer/Getty Images

3 Livello dei mari in crescita su scala mondiale


“Il livello dei mari – indica l’Omm – è in continua crescita secondo i rilievi altimetrici satellitari, ma il ritmo di tale risalita è aumentato nel corso degli ultimi anni”. E nel mese di ottobre del 2019 il livello medio su scala globale ha raggiunto il massimo da quando sono cominciate le misurazioni di precisione, ovvero nel gennaio del 1993.

A ciò si aggiunge il fatto che quello che viene chiamato “contenuto termico” – ovvero l’energia in eccedenza accumulata nel sistema climatico a causa dell’aumento dei gas ad effetto serra, e che viene assorbita dagli oceani – si è mantenuta per tutto il 2019 “a livelli record o quasi record”.

4 Prosegue l’acidificazione degli oceani

Nel decennio 2009-2018, inoltre, l’oceano ha assorbito circa il 22 per cento delle emissioni di CO2, il che ha contribuito in modo determinante ad attenuare i cambiamenti climatici. Tuttavia, l’immissione nei mari di tale quantitativo (crescente) di biossido di carbonio non fa che modificarne la composizione.

Le osservazioni hanno così mostrato un calo del pH (grado di acidità) della superficie degli oceani. Il che esaurisce a poco a poco la capacità dei mari di fornirci quello stesso – imprescindibile – assorbimento di gas climalteranti. Ma rischia anche di provocare cambiamenti negli ecosistemi, nelle correnti e, ancora una volta, negli equilibri meteorologici mondiali.



La barriera corallina è la casa di oltre il 25 per cento di tutte le specie marine. L’acidificazione delle acque e il riscaldamento globale potrebbe distruggerla entro la fine del XXI secolo © Burtynsky

5 La calotta glaciale sempre più in ritirata

La ritirata della calotta glaciale artica è proseguita nel corso del 2019. La superficie media mensile del mese di settembre (normalmente la più ridotta dell’anno) è stata tra le tre più esigue mai registrate. In Groenlandia, in particolare, tra i mesi di settembre del 2018 e di agosto del 2019 è stata registrata una perdita netta pari a 329 miliardi di tonnellate, secondo i dati della missione Grace (Gravity recovery and climate experiment).


6 Fenomeni meteorologici estremi in aumento nel 2019

Precipitazioni torrenziali negli Stati Uniti, in Canada, in Russia, in Iran, in Africa orientale e in Asia meridionale. Ondate di siccità estrema nel Sud-Est asiatico, in numerose aree interne dell’Australia. E in Honduras, Guatemala, Nicaragua, El Salvador e Cile.

Ondate di Caldo estremo in Europa: in Francia è stato raggiunta la temperatura più elevata di sempre, con 45,9 gradi nella cittadina di Gallargues-le-Montueux; in Germania si sono raggiunti i 42,6 gradi; ad Helsinki il termometro ha raggiunto i 33,2 gradi. In Australia, nel periodo estivo è stato superato di un grado il record assoluto per la nazione. Ad Adelaide si sono toccati i 46,6 gradi il 24 gennaio.




Alla fine dell’anno, in Russia, il periodo natalizio è stato caratterizzato da temperature ben oltre la media: il 18 dicembre a Mosca il termometro non è sceso al di sotto dei 5,4 gradi, contro una media di -6. Non accadeva dal 1886 e per la notte di San Silvestro le autorità hanno deciso di sopperire alla mancanza di neve con una coltre artificiale, al fine di concedere agli abitanti l’atmosfera alla quale sono abituati.

A novembre, in Italia, Venezia ha vissuto un episodio di acqua alta come non avveniva dal 1966, con 187 centimetri in alcuni punti della città. Un evento che ha portato il mare a sommergere oltre l’80 per cento della città, complici anche i venti fortissimi di scirocco che hanno soffiato sulla laguna.

7 Incendi in Amazzonia, Indonesia, Australia e Africa

Il 2019 è stato anche caratterizzato da un numero enorme di incendi. Dalla Siberia all’Alaska, passando perfino per alcune regioni artiche. In Indonesia e nelle nazioni limitrofe i roghi sono stati particolarmente attivi. In America Latina si sono registrati i dati peggiori dal 2010, in particolare in Bolivia e Venezuela.
La foresta amazzonica, allo stesso modo, è stata colpita da migliaia di roghi.



L’Australia è nella morsa di un’ondata di caldo record, che alimenta i devastanti incendi © David Gray/Getty Images

Così come l’intera fascia centrale dell’Africa, dall’oceano Atlantico a quello Indiano, al livello del Gabon e dell’Angola. In Australia, poi, il fuoco ha devastato centinaia di migliaia di ettari di boschi, provocando l’emissione di 250 milioni di tonnellate di CO2 e arrivando a minacciare la metropoli di Sydney.

8 Cicloni tropicali dal Mozambico alle Bahamas passando per il Giappone

Nel 2019, l’attività ciclonica è risultata superiore alla media su scala globale. Nell’emisfero settentrionale sono stati registrati 66 cicloni tropicali, rispetto ad una media di 56.



I danni provocati dal ciclone Idai in Mozambico © Yasuyoshi Chiba/Afp/Getty Images

Uno degli episodi più drammatici ha colpito nel mese di marzo il Mozambico, lo Zimbabwe e il Malawi. Il ciclone Idai è stato uno dei più violenti di sempre, ha provocato centinaia di vittime, oltre 180mila profughi e la distruzione di quasi 800mila ettari di colture. In America centrale, a settembre si è scatenato invece l’uragano Dorian, che ha toccato terra alle Bahamas con un’intensità massima (categoria 5). Ed è stato particolarmente distruttivo a causa dell’eccezionale lentezza del suo spostamento. Ad ottobre, poi, il Giappone è stato colpito da gravi inondazioni causate dal tifone Hagibis.



Secondo la Banca mondiale, entro il 2050 potranno arrivare a 143 milioni i migranti climatici che si spostano all’interno delle loro nazioni © World Bank

La crisi climatica, dunque, non è più una prospettiva futura ma è la nostra quotidianità. E porta con sé anche rischi sanitari crescenti, conseguenze sulla sicurezza alimentare e sulle migrazioni. “Tra gennaio e giugno del 2019 – si legge nel rapporto dell’Omm – ci sono stati 10 milioni di nuovi spostamenti interni. Con le relative necessità umanitarie e di protezione”.

Anche per questo il 2020 dovrà essere l’anno dell’azione. Il mondo deve governare una rivoluzione. Se non lo farà, sarà condannato ad una catastrofe.

fonte: www.lifegate.it

Condizionatori e climate change: il circolo vizioso (energivoro) e gli strumenti per uscirne

“Utilizziamo sempre più energia per adattarci a un problema creato dall’uso di energia. Ed è un paradosso”. L’analisi del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Ecco perché è necessario puntare sull’isolamento termico delle abitazioni e sull’efficientamento












La necessità di far fronte all’aumento globale delle temperature porterà a un aumento dell’uso di condizionatori e degli impianti di raffreddamento negli ambienti industriali e nel settore dei servizi, oltre che nelle abitazioni private. Questo determinerà un aumento della domanda globale di energia compreso tra l’11% e il 27% entro il 2050 se l’aumento delle temperature medie globali si manterrà entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Ma che potrebbe raggiungere livelli ancora più elevati (tra il 25 e il 58%) nell’eventualità in cui la temperatura globale aumentasse di 4 gradi entro la fine del secolo.
“Paradossalmente usiamo sempre più energia per adattarci ad un problema creato dall’uso di energia, essendo questa la fonte principale di emissioni di gas a effetto serra”, spiega ad Altreconomia Enrica De Cian, professore associato in Economia dell’ambiente presso l’università Ca’ Foscari di Venezia e ricercatrice del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC).
I dati emergono da uno studio internazionale che ha visto la partecipazione di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, del CMCC, dell’International Institute for applied system analysis (Austria) e della Boston University recentemente pubblicato sulla rivista “Nature communications”.
A pagare il prezzo più alto di questa situazione saranno le fasce di popolazione più povere, che dovranno investire una parte sempre maggiore del proprio reddito per adattarsi agli aumenti della domanda di energia. Entro il 2050 l’aumento della temperatura potrebbe esporre mezzo miliardo di persone a più basso reddito in Paesi del Medio Oriente e dell’Africa ad aumenti della domanda di energia del 25%. “I più poveri dovranno confrontarsi non solo con sfide pecuniarie, ma anche con il maggiore rischio di malattie e di mortalità legate al calore, qualora non fossero in grado di soddisfare i bisogni di raffreddamento, a causa di forniture di elettricità inaffidabili o per la mancanza del tutto le connessioni alla rete. O semplicemente perché non possono acquistare un condizionatore”, spiega De Cian.
In linea generale -evidenzia lo studio- le nostre società si adegueranno al cambio delle temperature aumentando il raffreddamento degli ambienti durante le stagioni calde e diminuendo il riscaldamento durante le stagioni fredde. Ma non sempre il maggiore consumo di energia per il raffreddamento verrà compensato dalla riduzione per il riscaldamento: “Nel Nord del mondo prevarrà una riduzione della domanda energetica per la riduzione dei consumi, nelle regioni meridionali tende a prevalere l’aumento di bisogno di elettricità per raffreddamento”, spiega De Cian. I tropici, l’Europa Meridionale, la Cina e gli Stati Uniti sono le regioni che probabilmente sperimenteranno i maggiori aumenti di consumi energetici. “Lo stesso differenziale lo troviamo anche in Europa e in Italia -spiega De Cian- In Italia il consumo di elettricità per il raffreddamento degli ambienti è passato da 21.169 ktoe (migliaia di tonnellate di petrolio equivalenti, ndr) nel 1990 a 147.039 nel 2015. Una crescita di sette volte nel periodo 1990-2015”.
Di fronte a questa situazione -e in assenza di politiche mirate ed efficaci, ad esempio le politiche per favorire l’isolamento termico e l’efficienza energetica- le famiglie si affideranno sempre più ai condizionatori per adattarsi ai cambiamenti climatici, rischiando così di generare ancora più emissioni di CO2. Un ulteriore studio dell’Università Ca’ Foscari e del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici ha analizzato, infatti, la diffusione di climatizzatori in cinque Paesi europei (Francia, Olanda, Spagna, Svezia e Svizzera): tra il 2011 e il 2040, il numero di persone che avranno in casa un impianto di raffreddamento aumenterà, mediamente, del 4,3%.
Il caso emblematico è quello spagnolo dove, anche a causa delle diverse ondate di calore che hanno colpito il Paese negli ultimi anni, si stima che quasi il 50% delle famiglie avrà un condizionatore entro il 2040 (contro il 5% del 1990). Anche per la Francia è prevista una crescita lenta ma costante (dal 13% del 2011 al 17,3% del 2040) anche se nel Paese quasi il 50% delle abitazioni sono dotate di isolamento termico. In Svezia il numero di condizionatori è già oggi superiore di 30 volte rispetto al 2005 e, secondo le previsioni dei ricercatori, una famiglia su cinque ne avrà uno in casa entro il 2040.
Per spezzare il circolo vizioso che vede l’aumento dell’uso dei climatizzatori come risposta all’aumento delle temperature e che determina un conseguente aumento delle emissioni occorre cambiare strategia. “Si può intervenire promuovendo forme meno energivore di raffreddamento, sia a livello individuale, sia a livello urbano di comunità: zone e tetti verdi sono misure che possono ridurre la temperatura -spiega Enrica De Cian-. Inoltre è importante puntare sull’efficienza energetica degli impianti di raffreddamento. Quelli che consumano meno, però, vengono acquistati relativamente poco perché i consumatori preferiscono modelli meno costosi. Per questo sono importanti anche politiche di incentivo di acquisto di modelli efficienti, oltre a politiche di incentivo per l’isolamento termico, una strategia di più lungo periodo che però richiede un investimento iniziale che non tutti riescono ad affrontare per questioni economiche o di vincoli istituzionali”.
fonte: https://altreconomia.it

12 anni per agire o il clima impazzirà

“Agire ora, o sarà la catastrofe climatica”. L'ultimo allarme degli scienziati, l'ultimo treno per l'umanità nelle conclusioni del rapporto Sr15 dell'Ipcc.
La temperatura media globale potrebbe crescere di 1,5 gradi già nel 2030, rispetto ai livelli pre-industriali. Lo Special report 15 (Sr15), documento redatto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), è più che un campanello d’allarme. È la conferma – definitiva: si rassegnino i pochi che ancora negano i cambiamenti climatici – degli sconvolgimenti ai quali il mondo andrà incontro se non si agirà per limitare la crescita della temperatura media globale. Ovvero, se non si abbatteranno a tempo di record le emissioni di gas ad effetto serra.



Il rapporto Sr15 dell’Ipcc: 250 pagine, 91 autori, 6mila studi vagliati

Il documento, pubblicato alle 3 di notte italiane di lunedì 8 ottobre (le 10 di mattina in Corea del Sud, dove si sono tenuti i negoziati tra i governi prima della presentazione), è una dettagliata analisi di 250 pagine. Curata da una task force di 91 super-esperti provenienti da 40 paesi, che hanno analizzato più di seimila studi. E il cui lavoro è stato sottoposto al vaglio di altre decine di scienziati. Ebbene, esso spiega che la temperatura media sulla superficie delle terre emerse e degli oceani di tutto il mondo è cresciuta di 0,17 gradi centigradi ogni decennio, dal 1950 ad oggi.



Un trend che, se sarà mantenuto, porterà appunto la Terra a sfondare la barriera dei +1,5 gradi, rispetto ai livelli pre-industriali, già tra il 2030 e il 2052(secondo i differenti scenari presi in considerazione dal rapporto Sr15). In altre parole, tra soli dodici anni potremmo aver già raggiunto la crescita della temperatura che l’Accordo di Parigi aveva ipotizzato per il 2100 (nel testo si parlava infatti di massimo 2 gradi, ma “rimanendo il più possibile vicini agli 1,5”). E, se nel resto del secolo la tendenza rimanesse invariata, la catastrofe climatica sarebbe assicurata, poiché a questo ritmo si arriverebbe a +3 gradi.
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Secondo l’Ipcc, con il riscaldamento globale il mondo dovrà prepararsi a casi di estati senza ghiaccio nell’oceano artico © Marjorie Teo/Unsplash

“Potremmo sfondare la barriera dei +1,5 gradi già nel 2030”

D’altra parte, l’Ipcc ha sottolineato come nel biennio 2017-2018 si sia già raggiunto un grado centigrado di aumento. Una situazione quasi disperata, insomma. Ciò nonostante, però, il Pianeta non è ancora dato per spacciato dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. “Il nostro ruolo non è quello di determinare se sia fattibile o meno l’obiettivo contenuto nell’Accordo di Parigi, ma nulla nella letteratura scientifica dice che non lo si potrà raggiungere. Ciò che abbiamo spiegato è quali sono le condizioni necessarie per arrivare al traguardo. Ora sta ai decisori politici l’assunzione delle conseguenti responsabilità”, ha affermato Henri Waisman, ricercatore dell’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali, coautore del rapporto.
Il rapporto speciale, infatti, era stato commissionato all’Ipcc durante la Cop 21 di Parigi, nel 2015. Si voleva infatti comprendere quale fosse la traiettoriaattuale proprio in riferimento all’obiettivo degli 1,5 gradi. Ciò sulla base degli impegni finora assunti dai singoli governi in materia di riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
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La traiettoria che potrebbe seguire la crescita della temperatura media globale: continuando così, secondo l’Ipcc, si raggiungeranno i +1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali già tra il 2030 e il 2052 © Ipcc

“Necessarie nuove tecnologie per recuperare la CO2 dall’atmosfera”

È per questo che l’Ipcc è corso in qualche modo ai ripari, sottolineando il fatto che è ormai imprescindibile introdurre tecnologie in grado di “recuperare” la CO2 presente nell’atmosfera. E farlo su larga scala. Ciò al fine di produrre quelle che sono state presentate come “emissioni negative”. “Utilizzare solo la biomassa (foreste, boschi e spazi verdi, ndr) per captare la CO2 significherebbe entrare in conflitto con settori come quello della produzione agricola, le cui superfici di suolo utili verrebbero limitate. Il che esacerberebbe la corsa all’accaparramento delle terre”, ha aggiunto Waisman. Problema: le tecniche artificiali di recupero del biossido di carbonio sono ancora allo stato embrionale.
Ma il rapporto Sr15 non si è limitato ad indicare il trend dell’evoluzione climatica. Ha anche spiegato che mondo ci troveremmo di fronte anche qualora l’Accordo di Parigi fosse rispettato. Anche con soli 1,5 gradi in più, le nazioni più vulnerabili potrebbero non avere il tempo di adattarsi alle conseguenze dei cambiamenti climatici. In particolare alcuni atolli. Ciò poiché il livello dei mari è destinato ad aumentare per parecchi secoli, a causa dello scioglimento dei ghiacci perenni.
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In tutti gli scenari presi in considerazione dal rapporto Sr15 dell’Ipcc, le emissioni nette di CO2 dovranno essere azzerate entro il 2050 se si vorrà limitare ad 1,5 gradi la crescita della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali © Ipcc

Livello dei mari in crescita per secoli. D’estate oceano artico senza ghiaccio

Eppure, con 1,5 gradi l’innalzamento sarebbe di dieci centimetri inferiore rispetto alla prospettiva di 2 gradi, nel 2100. Inoltre, l’ipotesi di un’estate con un oceano artico privo di ghiaccio è calcolata come altamente improbabile (una volta al secolo) con 1,5 gradi, mentre ben più frequente (una volta ogni decennio) con 2 gradi. Allo stesso modo, con 2 gradi il 99 per cento delle barriere coralline potrebbe essere spacciato, mentre la percentuale scenderebbe al 70-90 nello scenario più favorevole. “Ogni piccolo aumento della temperatura provocherà conseguenze irreversibili come la perdita totale di alcuni ecosistemi”, ha spiegato Hans-Otto Pörtner, presidente di uno dei gruppi di lavoro dell’Ipcc.
Quest’ultimo indica poi che negli oceani numerosi sconvolgimenti causeranno la mortalità delle specie che hanno più difficoltà a spostarsi. E ci vorranno millenni per superare i cambiamenti che si produrranno nella chimica a causa del processo di acidificazione. Inoltre, nell’emisfero settentrionale si produrrà una moltiplicazione delle ondate di calore. “Il rischio è che l’Europa meridionale vada incontro ad una desertificazione di qui alla fine del secolo”, ha sottolineato il Wwf. Inondazioni e siccità colpirebbero poi ripetutamente non solo il Vecchio Continente ma anche l’America del Nord e l’Asia. Mentre gli uragani aumenteranno la loro intensità.
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L’Ipcc chiede di ridurre le emissioni delle industrie, degli edifici e dei trasporti. E di aumentare la quota di rinnovabili nel mix energetico © Peter Macdiarmid/Getty Images

La soluzione per limitare i danni: azzerare le emissioni nette entro il 2050

Come fare per evitare tutto ciò? Il rapporto speciale dedica un capitolo intero alle possibili soluzioni che occorrerebbe attuare. Ed è stato proprio questo il punto sul quale si sono scontrati con più forza gli interessi opposti di alcuni stati. L’Ipcc ha in ogni caso sottolineato a più riprese nel testo la necessità di ridurre drasticamente la domanda di energia delle industrie, dei trasporti e degli immobili. Per salvare il Pianeta, infatti, occorrerà ridurre del 45 per cento le emissioni globali di CO2 entro il 2030 (rispetto al 2010). E azzerare quelle “nette” entro il 2050. La quota di energie rinnovabili dovrà contemporaneamente arrivare al 70-85 per cento entro il 2050.





The Special Report on 1.5°C will be published Monday. It includes concepts such as net zero emissions, temperature overshoot, decarbonization. We have prepared a brief explaining what these mean and why the report matters. https://bit.ly/2zW9PIt 
Ciò significherà investimenti. E infatti l’Ipcc sottolinea in un paragrafo il fatto che il coinvolgimento di tutte le forze economiche e finanziarie del mondo è imprescindibile. “L’umanità – ha concluso il Wwf – è di fronte ad una nuova guerra. Contro sé stessa. Occorre un cambiamento profondo delle nostre società. Se non agiamo immediatamente, nel 2040 potremmo aver perduto la battaglia”.
fonte: www.lifegate.it