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Energia: i combustibili fossili rimangono la fonte dominante

La quota di combustibili fossili nel consumo di energia non è diminuita nel 2020 per il decimo anno consecutivo e le energie rinnovabili stentano a crescere, nonostante siano sempre più vantaggiose economicamente



Il 2020 avrebbe potuto essere un anno di svolta grazie alla pandemia ma così non è stato; nonostante la domanda di energia primaria sia diminuita del 4%, infatti, i paesi del G20, i maggiori inquinatori del pianeta, hanno a malapena raggiunto o addirittura mancato i loro obiettivi di energia rinnovabile, già poco ambiziosi.

Secondo il rapporto sulle rinnovabili REN21, la quota di combustibili fossili nel mix energetico totale è rimasta alta quanto un decennio fa (80,3% contro l'80,2% di oggi) e le moderne rinnovabili, che includono idroelettrico e biomasse, sono aumentate di poco (da 8,7% a 11,2%).

I cinque membri del G20 con obiettivi di energia rinnovabile per il 2020 (UE, Italia, Francia, Germania, UK) hanno lottato per raggiungere i loro obiettivi mentre gli altri 15 non ne avevano nemmeno uno.

Non siamo dunque affatto vicini al necessario cambiamento di paradigma verso un futuro energetico pulito, più sano e più equo.

Lo scorso mese di giugno, i membri del G7 hanno dichiarato che non destineranno più finanziamenti internazionali a progetti che prevedano l'uso del carbone come combustibile, a meno che non garantiscano allo stesso tempo tecnologie per la cattura e lo stoccaggio delle emissioni. Tuttavia, il G7 non è stato chiaro su tempi e modi della transizione energetica, non specificando, ad esempio, obiettivi precisi e limiti temporali.

La stessa Agenzia internazionale per l'energia (AIE), nel delineare la tabella di marcia per abbattere le emissioni e raggiungere l'obiettivo di zero emissioni derivanti dal settore energetico nel 2050, aveva già previsto esplicitamente l'esclusione di investimenti in nuovi progetti di fornitura di combustibili fossili e nessuna ulteriore decisione di investimento in nuove centrali a carbone.

È chiaro però che non basta annunciare traguardi per il 2050 se poi non si agisce in modo coerente con queste affermazioni e con i previsti scenari di azzeramento delle emissioni.

Questa strada è necessaria ed anche possibile. I combustibili fossili sono infatti responsabili del cambiamento climatico e contribuiscono pesantemente anche alla perdita di biodiversità e all'inquinamento. Passare dai combustibili fossili alle energie rinnovabili è un passo necessario da fare e rendere le rinnovabili la norma non è una questione di tecnologia o di costi.

Il settore energetico ha già fatto grandi progressi. Oggi, quasi tutta la nuova capacità energetica è rinnovabile (83%). Nel 2020 sono stati aggiunti globalmente oltre 256 GW, superando il record precedente di quasi il 30%. In sempre più regioni, comprese parti della Cina, dell'UE, dell'India e degli Stati Uniti, è ora più economico costruire nuovi impianti eolici o solari fotovoltaici piuttosto che far funzionare le centrali elettriche a carbone esistenti.

Secondo le stime di Irena, nel 2020 è infatti proseguita la tendenza al calo dei costi per l'energia solare ed eolica, nonostante l'impatto della pandemia e le interruzioni causate dalla diffusione del virus. Nel 2020, il costo dell'elettricità derivante da nuovi impianti eolici onshore è diminuito del 13%, rispetto al 2019, l'energia solare a concentrazione del 16%, l'eolico offshore del 9% e del solare fotovoltaico su scala industriale del 7%.

I costi di generazione di energia rinnovabile sono diminuiti drasticamente nell'ultimo decennio, grazie anche a tecnologie in costante miglioramento ed alle economie di scala. I costi per l'elettricità da fotovoltaico su scala industriale sono diminuiti dell'85% tra il 2010 e il 2020. Il costo dell'elettricità da energia solare ed eolica è sceso, a livelli però molto bassi.

Dal 2010, a livello globale, è stato aggiunto un totale cumulativo di 644 GW di capacità di generazione di energia rinnovabile con costi stimati inferiori rispetto all'opzione più economica di combustibili fossili in ogni rispettivo anno. Nelle economie emergenti, i 534 GW aggiunti a costi inferiori ai combustibili fossili ridurranno i costi di generazione dell'elettricità fino a 32 miliardi di dollari quest'anno.

I nuovi progetti solari ed eolici stanno minando sempre di più anche le centrali elettriche a carbone più economiche e meno sostenibili. L'analisi Irena suggerisce che 800 GW di capacità esistente a carbone hanno costi operativi superiori rispetto al nuovo solare fotovoltaico su larga scala e all'eolico onshore. La sostituzione di questi impianti a carbone ridurrebbe i costi annuali di 32 miliardi di dollari all'anno e ridurrebbe le emissioni annuali di CO2 di circa 3 Gigatonnellate.

Ma come mai nonostante questi vantaggi provenienti dall'implementazione delle rinnovabili non si osserva un trend ci crescita più incisivo?

Il rapporto sulle rinnovabili REN21 rileva come nel 2020 ci sia stata un'ondata di impegni più forti per contrastare la crisi climatica; invece di guidare però la trasformazione anche verso l'energia rinnovabile, i piani di risanamento avrrebbero portato ad investimenti sei volte superiori sui combustibili fossili rispetto alle energie rinnovabili, nonostante tutte le promesse fatte durante la crisi indotta da Covid-19.

La maggior parte dei governi non ha quindi sfruttato l'opportunità unica offerta dalla pandemia per condurre una trasformazione e ridurre ulteriormente l'inquinamento da carbonio, abbattendo la resistenza degli operatori storici dei combustibili fossili.

Gli autori del rapporto suggeriscono un modo per accelerare il passaggio alle energie rinnovabili, ovvero rendere tali energie un indicatore chiave di prestazione per i processi decisionali sia pubblici che privati verso gli obiettivi climatici ed energetici, consentendo alle persone di misurare i progressi e garantire il coinvolgimento a livello globale, nazionale, regionale e locale, in qualsiasi settore economico.

Per approfondimenti leggi
Renewables Global Status Report
Renewable power generation costs in 2020

fonte: www.arpat.toscana.it


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Chi saprà guidare la battaglia per il clima?

Oggi nessun paese ha la forza politico-economica di guidare l’agenda internazionale verso obiettivi comuni. Cambiamenti climatici e rischi geopolitici del 2021 nel rapporto di Eurasia Group.



La lotta contro il cambiamento climatico porterà verso una maggiore cooperazione tra governi, o sarà un nuovo terreno di scontro e competizione?

Al netto della pandemia, il clima figura tra i principali rischi geopolitici del 2021 secondo il rapporto annuale Top Risks (allegato in basso) elaborato da Eurasia Group, la società di consulenza fondata e presieduta dal politologo americano Ian Bremmer.

Il 2020 intanto si è chiuso come l’anno più caldo della storia insieme con il 2016, afferma il Copernicus Climate Change Service (C3S): si è registrato un incremento della temperatura media di circa 1,25 gradi a livello globale in confronto al periodo preindustriale (1850-1900) e di 0,6 gradi in confronto al 1981-2010.

Nell’Artico e in Siberia ci sono state deviazioni delle temperature annuali molto consistenti: fino a +6 gradi rispetto alla media in alcune zone della Siberia settentrionale, mentre la concentrazione di anidride carbonica è continuata a salire, nonostante il temporaneo calo delle emissioni durante il lockdown.

Il 2020 è stato l’anno, scrive Eurasia Group, in cui si sono moltiplicati gli annunci net-zero di vari paesi: Unione europea, Cina, Corea del Sud, Giappone, si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette di anidride carbonica entro metà secolo (2060 per la Cina).

Ecco perché la società di consulenza parla delle complesse relazioni tra obiettivi net-zero e scenario “G-Zero”, dove G-Zero è la teoria del vuoto politico (sostenuta da Bremmer) in cui nessun paese ha la forza politico-economica di guidare l’agenda internazionale verso obiettivi comuni. G-Zero è anche un modo per dire che i gruppi tradizionali di potere industriale e finanziario, come il G7, sono ormai obsoleti.

L’impegno climatico potrebbe cambiare questa situazione di vuoto, grazie anche al nuovo presidente americano, Joe Biden, il cui insediamento alla Casa Bianca avverrà il 20 gennaio, al termine del mandato di Trump.

Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti torneranno dentro l’accordo di Parigi sul clima e ha puntato la sua campagna elettorale su una maxi ondata di investimenti nelle energie rinnovabili.

Tuttavia, afferma Eurasia Group, c’è il rischio di sovrastimare la nuova era di cooperazione globale sul clima, perché i nuovi piani su energia e clima potrebbero essere meno coordinati ed efficaci di quanto si creda oggi.

La transizione energetica, si legge nel rapporto, sarà dominata dalla competizione e da una mancanza di coordinamento internazionale, con il rischio di accentuare le fratture tra stati e governi.

Definire politiche globali sul clima, come una carbon tax, è sempre stato difficile, tanto per usare un eufemismo.

E un’analisi di Carbon Brief evidenzia che solamente 45 Paesi, alla scadenza fissata dalle Nazioni Unite in base all’accordo di Parigi (il 2020), hanno trasmesso i rispettivi piani con impegni rafforzati per ridurre le emissioni inquinanti.

Troppo poco, anche perché mancano all’appello colossi come Cina, India, Stati Uniti.

Il rischio allora è che gli annunci net-zero per il 2050 restino annunci vuoti, o solo in parte riempiti con gli investimenti necessari per realizzare un’economia a zero emissioni.

Greta Thunberg, su Twitter, con riferimento alla recente decisione del governo inglese di non intervenire contro il progetto di aprire una nuova miniera di carbone, West Cumbria Mining (il carbone servirà per la produzione di acciaio), ha scritto (traduzione nostra dall’inglese, in corsivo): “Questo mostra il vero significato del cosiddetto ‘net zero nel 2050’. Questi obiettivi vaghi, insufficienti e proiettati nel futuro, fondamentalmente non significano nulla oggi”.

A dicembre, in due distinti rapporti, il programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep, United Nations Environment Programme) ha evidenziato l’enorme divario tra “dove si sta andando” e “dove si dovrebbe andare” in tema di cambiamenti climatici.

In sostanza, scriveva l’Unep, l’attuale modello di sviluppo economico-energetico è totalmente incompatibile con gli obiettivi per il clima al 2030 e 2050, perché i governi stanno pianificando di incrementare la produzione di carbone, petrolio e gas del 2% l’anno in media da qui al 2030, anziché ridurla.

Quindi le azioni dei governi su scala mondiale contraddicono gli annunci di obiettivi net-zero per azzerare le emissioni nette di anidride carbonica entro metà secolo.

Inoltre, come spiegava già Luca Mercalli in questa intervista a QualEnergia.it dello scorso maggio, il calo annuale della CO2, se rimarrà circoscritto al 2020 (circa -7% sul 2019 “grazie” agli effetti del lockdown), avrà una conseguenza trascurabile sulla tendenza del clima di lungo periodo.

Ecco perché diventa fondamentale utilizzare i piani di ripresa economica per investire nella transizione “verde”: fonti rinnovabili, efficienza energetica, tutela degli ecosistemi, auto elettriche, in modo da ridurre velocemente e costantemente le emissioni di CO2.

fonte: www.qualenergia.it


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L’unico sistema per arrivare alle emissioni zero nette sarà quello di avere un efficiente sistema di stoccaggio dell’energia. E l’idrogeno può essere la via (pulita).














Entro il 2050 l’Europa ha dichiarato di voler raggiungere le zero emissioni nette di CO2, obiettivi minimi per il raggiungimento deglia impegni climtici. E per fare ciò dovrà immagazzinare sei volte più energia di quella che stocchiamo oggi. Le rinnovabili oggi sono in forte crescita in tutta l’Ue a 27 – in Italia hanno raggiunto quota 40,5 per cento di copertura per la domanda elettrica nei primi sei mesi dell’anno –, ma d’altro canto non sono fonti stabili per la produzione di elettricità. E ciò è risaputo: è per questo che le centrali termiche siano esse a olio combustibile o a gas sono tuttora fondamentali per la rete, perché producono il cosiddetto “baseload”, ovvero il minimo di produzione elettrica necessaria a gestire i picchi di domanda. Per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 l’Europa dovrà dunque trasformare il suo sistema energetico, responsabile del 75 per cento delle emissioni di gas a effetto serra del continente. È per questo motivo che la Commissione europea, lo scorso 8 luglio, ha adottato un piano strategico per l’integrazione del sistema energetico e per l’idrogeno, come vettore per sviluppare un settore dell’energia efficiente e a basse emissioni.

“Considerato che il 75 per cento delle emissioni di gas serra dell’Ue viene dal settore dell’energia, abbiamo bisogno di un cambio di paradigma per raggiungere i traguardi che ci siamo fissati per il 2030 e il 2050”, ha detto in una nota la commissaria per l’Energia Kadri Simson. “Il sistema energetico dell’Unione deve diventare più integrato e più flessibile, oltre ad essere in grado di far proprie le soluzioni più pulite ed efficaci sotto il profilo dei costi. Ora che il calo dei prezzi dell’energia rinnovabile e l’innovazione continua lo rendono un’opzione praticabile per un’economia climaticamente neutra, l’idrogeno svolgerà un ruolo chiave in questo processo”


L’Eu punta sull’idrogeno

Secondo il documento pubblicato, la strategia prevede che tra il 2020 e il 2024 siano installati almeno 6 gigawatt di elettrolizzatori per l’idrogeno rinnovabile nell’Ue e la produzione fino a un milione di tonnellate di idrogeno. Tra il 2025 e il 2030 l’idrogeno dovrà entrare a pieno titolo del nostro sistema energetico integrato, con almeno 40 gigawatt di elettrolizzatori per l’idrogeno rinnovabile e la produzione fino a dieci milioni di tonnellate di idrogeno. Tra il 2030 e il 2050 è previsto che le tecnologie impiegate debbano raggiungere la maturità e trovare applicazione su larga scala in tutti i settori difficili da decarbonizzare, come ad esempio quelli dell’acciaio, del cemento e della carta.



Il progetto LifeAlps punta alla diffusione di nuovi impianti di rifornimento di idrogeno e colonnine elettriche in Alto Adige

C’è da notare una parola che ritorna spesso, nelle dichiarazioni, ovvero idrogeno “rinnovabile”. Cosa significa? Che la soluzione più efficiente, realizzabile e sensata, è quella di utilizzare questo elemento come vettore per immagazzinare l’energia in surplus prodotta dalle rinnovabili, rendendola disponibile nei momenti di maggiore domanda. Questo andrebbe a lavorare in sinergia con altri metodi di stoccaggio, come il pompaggio idraulico, l’impiego di batterie e dei veicoli elettrici sparsi in tutto il territorio europeo – la cosiddetta tecnologia V2G (Vehicle to grid).

Come spiega infatti la Commissione “l’idrogeno può essere usato come materia prima, combustibile, vettore o accumulatore di energia e ha svariate applicazioni nei settori dell’industria, dei trasporti, dell’energia e dell’edilizia. Ancor più importante, però, è il fatto che quando viene utilizzato non emette CO2 e non causa quasi nessun inquinamento atmosferico. Rappresenta quindi un’alternativa per decarbonizzare i processi industriali e i comparti economici nei quali la riduzione delle emissioni di carbonio è tanto urgente quanto difficile”. La Commissione ha inoltre pubblicato la sua strategia per un sistema energetico integrato, che comprende una revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia e suggerimenti per espandere il mercato del carbonio e eliminare i sussidi all’energia fossile negli Stati membri.

Dentro a questa sorta di hangar, gli autobus possono fare il pieno
Perché è importante che l’idrogeno sia “pulito”

A sottolineare l’importanza di impiegare un vettore accoppiato esclusivamente con energie rinnovabili è anche il Wwf Europe, che chiede “una chiara definizione di ‘idrogeno pulito’, che significa che non siano impiegati combustibili fossili, incluso il gas o il nucleare” e che i finanziamenti siano destinati “esclusivamente a progetti e infrastrutture a idrogeno rinnovabile”.

“L’idrogeno non è una soluzione unica per la decarbonizzazione, ma può essere un pezzo utile nel puzzle se fatto bene”, ha detto in una nota Camille Maury, responsabile della politica di decarbonizzazione industriale presso l’ufficio politico Europeo del Wwf. “Ciò significa utilizzare solo idrogeno a zero emissioni – prodotto da elettricità rinnovabile in eccesso – e utilizzarlo solo nei settori in cui si trova realmente necessario, come le industrie ad alta intensità energetica, e privilegiando sempre l’elettrificazione e il risparmio energetico”.

Un generatore a fuel cell alimentato da energia solare

Secondo il think tank tedesco Clean Energy Wire, la strategia europea potrebbe creare un milione di nuovi posti di lavoro entro metà secolo, ma sottolinea come Bruxelles sia aperta alla produzione di idrogeno da gas naturale in combinazione con la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs). Sempre dalla Germania, già molto attiva nella promozione dell’idrogeno, arrivano altri commenti riguardo le posizioni europee, come quella dell’associazione tedesca per le energie rinnovabili (Bee) che ha commentato che la strategia dell’idrogeno dovrebbe essere collegata a una più rapida espansione delle fonti rinnovabili, rinunciando fin da subito alla presunta necessità di idrogeno blu o grigio (da gas o nucleare). “Un approccio coerente deve tener conto dell’intera impronta di CO2 dei prodotti a idrogeno e per questo motivo consente solo la promozione dell’idrogeno verde”, ha detto il presidente della Bee Simone Peter.

Sono anni che si parla di idrogeno come vettore per la transizione energetica. E ciclicamente torna alla ribalta nei piani energetici europei. Forse questo potrebbe essere il momento tanto atteso per lo sviluppo di questa tecnologia.

fonte: www.lifegate.it


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Ecco come l’Italia può diventare 100% rinnovabile (VIDEO)

Rapporto di Greenpeace: un’Italia a emissioni zero porterebbe vantaggi economici e per l’ambiente e più occupazione



In contemporanea con gli Stati generali dell’economia, organizzati dal governo per pianificare l’utilizzo dei fondi Ue destinati al rilancio del Paese, Greenpeace Italia ha lanciato il rapporto “Italia 1.5”, che presenta come «Uno scenario di rivoluzione energetica all’insegna della transizione verso le rinnovabili e della totale decarbonizzazione del Paese. Un piano che permetterebbe all’Italia di rispettare gli accordi di Parigi, diventando a emissioni zero, con vantaggi economici, occupazionali e di indipendenza energetica».

Lo studio, commissionato da Greenpeace Italia all’Institute for Sustainable Future di Sydney , utilizza per lo scenario italiano una metodologia già applicata su scala globale per lo scenario di decarbonizzazione del Pianeta promossa dalla Dicaprio Foundation e realizzata dalla stessa ISF, dall’Agenzia aerospaziale tedesca (DLR) e dall’Università di Melbourne.

Luca Iacoboni, responsabile della campagna energia e clima di Greenpeace Italia, spiega che «In questi giorni il governo Conte e le istituzioni europee dichiarano a più riprese di voler puntare anche sulla transizione energetica per ripartire dopo lo shock causato dalla pandemia di Covid-19. Il piano “Italia 1.5” di Greenpeace Italia va esattamente in questa direzione. Non è possibile pensare a un futuro migliore se non puntiamo con determinazione e rapidità su rinnovabili ed efficienza energetica, abbandonando i combustibili fossili che causano cambiamenti climatici, inquinamento e degrado ambientale».

Il rapporto degli ambientalisti sviluppa due scenari – uno con il traguardo di emissioni zero dell’Italia al 2040, uno con una decarbonizzazione totale al 2050 – confrontandoli con lo scenario contemplato dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), consegnato dal governo all’Ue a inizio 2020. Per Greenpeace il PNIEC «però non è in linea con gli Accordi di Parigi e continua a puntare sul gas fossile. Una strategia energetica dunque da rivedere, come ha peraltro dichiarato anche il ministro dell’Ambiente Sergio Costa».

Invece la rivoluzione energetica promossa da “Italia 1.5” è «In linea con l’obiettivo per l’Italia di fare la propria parte per contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5° C» e «Oltre a rispondere alle preoccupazioni della comunità scientifica, porterebbe con sé vantaggi economici e occupazionali. Entro il 2030, si avrebbe infatti la creazione di 163 mila posti di lavoro, ovvero un aumento dell’occupazione diretta nel settore energetico pari al 65%. Anche dal punto di vista economico la transizione potrebbe interamente finanziarsi con i risparmi derivanti dalla mancata importazione di combustibili fossili al 2030. Un cambio sistemico che condurrebbe a enormi vantaggi economici nei decenni a seguire».

Iacoboni conclude: «In questo nostro studio ci sono numeri chiari, che dimostrano innanzitutto che il PNIEC del governo non è nell’interesse dei cittadini italiani ma risponde piuttosto alle richieste delle lobby di gas e petrolio. Occorre subito una rivisitazione degli obiettivi su clima e rinnovabili, una rivoluzione che coniugherebbe la tutela del clima e del Pianeta, con vantaggi economici e per la competitività e la modernità del Paese. L’emergenza climatica in corso sta interessando pesantemente anche il nostro Paese, con danni a persone, ambiente ed economia, e non è più possibile rinviare la rapida transizione verso un Paese 100% rinnovabile».

Videogallery

L'Italia può diventare 100% rinnovabile




fonte: www.greenreport.it


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Edilizia sostenibile: il manifesto del Green Building Council Italia

Il documento del Green Building Council Italia analizza punto per punto strategie e strumenti da mettere in campo nel settore delle costruzioni per ridurre le emissioni di CO2 entro il 2050.




Un futuro sostenibile e a "emissioni zero" nel settore delle costruzioni, che rispetti una serie di parametri e di temi cardine. È quanto contenuto nel manifesto GBC Italia, un documento che traccia un chiaro piano programmatico con il quale invita il governo a riconoscere il ruolo centrale del settore delle costruzioni.

Il lavoro del Green Building Council Italia pone l’attenzione non solo su attività e strumenti da mettere in campo ma anche necessità normative per allinearsi ad un piano d’azione completo, monitorando le prestazioni degli edifici attraverso piattaforme pubbliche nazionali e promuovendo l’adozione dei protocolli energetico-ambientali in coerenza con gli obiettivi europei. L’obiettivo è ridurre al minimo le emissioni di CO2 entro il 2050. L’intero settore è infatti responsabile del 36% di tutte le emissioni, del 40% dei consumi di energia, del 50% dell’estrazione di materie prime nell’Ue, del 21% del consumo di acqua.

“In ciascuno dei punti citati nel documento – interviene Giuliano Dall'Ò, presidente GBC Italia - GBC Italia porta la conoscenza che deriva da esperienze maturate negli anni, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale attraverso il World Green Building Council, la rete internazionale di cui GBC Italia è socio stabile, oppure attraverso le esperienze maturate nei progetti europei ai quali GBC Italia partecipa da sempre”. Le azioni necessarie, elencate nel documento, riguardano la decarbonizzazione, l’economia circolare, l’efficienza idrica, l’uso del suolo e biodiversità, la resilienza, il benessere e salubrità, la giustizia nella transizione.

Per GBC Italia, decarbonizzare il settore dell’edilizia significa passare della definizione di edificio a energia zero a edificio a "Zero Emissioni di CO2", rivedere il piano di riqualificazione del 3% annuo degli edifici pubblici e delle amministrazioni locali con una priorità agli edifici scolastici. Va incentivata la produzione e condivisione dell’energia rinnovabile all'interno dei distretti urbani e sviluppata una mobilità sostenibile. La deep renovation, ovvero riqualificazione profonda di edifici e condomini diventa uno strumento necessario, da gestire anche attraverso campagne di incentivi dedicati.

Di conseguenza diventa necessario il monitoraggio delle prestazioni degli edifici attraverso piattaforme pubbliche nazionali che rispondano ai protocolli energetico ambientali. Sul fronte dell’economia circolare la proposta è il reimpiego di componenti della decostruzione selettiva e la scelta di materiali ad alta percentuale di riciclato, implementando anche il riutilizzo del suolo destinato ad aree già edificate. Attraverso la tecnologia sarà poi possibile monitorare facilmente l’utilizzo e gli sprechi idrici ed evitarne i consumi eccessivi. Infine, tra le misure finanziarie proposte c’è quella di abilitare gli istituto di credito quali beneficiari della cessione del credito di imposta e la diffusione di Mutui verdi riservati alla deep renovation a nuovi edifici con una sostenibilità energetico-ambientale certificata.

Tra gli strumenti del cambiamento è analizzato il framework Level(s), sviluppato dalla Commissione europea: l'obiettivo è quello di arricchire il sistema di metriche di valutazione dell'edilizia sostenibile creando un approccio comune basato sull'integrazione degli attuali strumenti di certificazione e trasformando il settore dell’edilizia verso un approccio che consideri il ciclo di vita con riferimento all'agenda dell’UE sull'economia circolare. Level(s) utilizza indicatori affidabili basati su norme e strumenti relativi ad energia, materiali, acqua, salute e benessere, cambiamento climatico e valore del ciclo di vita. La portata totale degli impatti ambientali, sociali ed economici rende strategico il ruolo dell’edilizia all'interno del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030.



fonte: www.nonsoloambiente.it

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Il grande affare della Co2




















Ben venga la svolta green impressa dalla risoluzione approvata dal Parlamento Europeo, in accordo con la Commissione. Ma prestiamo attenzione alle parole per evitarci nuove cocenti delusioni alle prossime conferenze sul clima. Formule come “Neutralità climatica” o “Emissioni nette zero nel 2050” non dicono nulla sul come raggiungere questo ambizioso obiettivo, lasciano aperte strategie opposte e contengono un messaggio subdolo: non serve diminuire la produzione di gas climalteranti poiché troveremo un modo di neutralizzarli e bilanciarli.

Quella parolina – “nette” – sottintende una scommessa al buio: riuscire a compensare le emissioni attraverso sistemi di “assorbimento”. Ma quali? Il modo più semplice ed efficiente (l’approccio Nature Based, aumentando di molto la fotosintesi) sarebbe senz’altro una gestione agroforestale mirata a massimizzare l’assorbimento del carbonio al suolo. Ma – oltre a impedire gli incendi e le deforestazioni in atto – sarebbe necessario fermare l’espansione dell’industria della carne (60 milioni di bovini al pascolo solo nella regione amazzonica), delle monoculture Ogm, dei biocarburanti. Non mi pare però che gli Stati stiano dimostrando la volontà di contenere le attività delle compagnie multinazionali del calibro di Cargill (fornitore di McDonald’s), JBS (Walmart), Bunge (Nestlè). Oltre a ciò, per riuscire ad assorbire i 2/3 (forse) del gas serra servirebbe riforestare una superficie grande come gli Stati Uniti (vedi Le foreste ci salveranno).

S’avanzano allora strane chimere uscite dai laboratori di geo-ingegneria. Si chiamano Carbon Capture and Storage. Tubi aerostatici, ventole, compressori, pozzi profondi capaci non solo di catturare, distillare e stoccare il biossido di carbonio, ma persino di riutilizzarlo. Nuove tecnologie che vengono presentate come “la frontiera dell’innovazione scientifica e della creatività imprenditoriale (…) Anidride carbonica catturata dall’atmosfera che può diventare combustibile pulito, fibre sintetiche per prodotti di consumo, materiali da costruzione futuristici (…) una grande opportunità per promuovere un’economia circolare” (trascriviamo qui parti del testo dell’articolo a firma Sara Moraca, Il grande affare della CO2, pubblicato sul CorriereInnovazione il 29/03/2019).

Racconta nel suo ultimo libro Naomi Klein (Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il pianeta, Feltrinelli, 2019) che una società finanziata da Bill Gates, la Stratoshield, vorrebbe sperimentare l’immissione nella stratosfera di aerosol di anidride solforosa in modo da creare una barriera che diminuisca l’insolazione sulla superficie della Terra. Un altro signore ha sparpagliato in mare limatura di ferro per aumentare la fioritura algale.

Più prudentemente le strategie di decarbonizzazione della Germania si affidano a progetti faraonici di impianti solari a concentrazione ad alto voltaggio (Desertec, TuNur, Noor Complex Solar Power Plant) da piazzare nel deserto del Sahara (in Tunisia, Marocco ed Egitto, in attesa che la Libia si stabilizzi) e a imponenti elettrodotti sottomarini che attraverserebbero il Mediterraneo. I progetti sono sponsorizzati dalla Trans-Mediterranean Renewable Energy Cooperation (TREC), un’associazione volontaria supportata dal Consiglio tedesco sui cambiamenti climatici, dal Club di Roma, da Greenpeace, dal principe di Giordania Hassan Bin Al Talal, oltre che dai partiti social-democratico e verde. Il continuo aumento dei consumi energetici rende insufficiente (nelle aree geografiche più “sviluppate” e a parità di consumi) persino la dotazione della fonte energetica primaria: il sole. Dopo aver estratto dall’Africa caffè, petrolio, minerali e schiavi, il colonialismo si ripresenta vestito di verde.

Il saccheggio procede anche con le “terre rare”. Un’approfondita inchiesta del giornalista Guillaume Pitron ci rivela su cosa si reggono le green e smart tech: una dozzina di elementi chimici che per le loro proprietà magnetiche, conduttive, ottiche, catalitiche… sono indispensabili a produrre microcircuiti, rotori per pale eoliche, accumulatori, radar, missili e quant’altro serve alla Quarta rivoluzione industriale. Sono il petrolio del XXI secolo. Vengono estratti in quantità e a un ritmo esponenziali. Peccato, appunto, che questi metalli siano rari e immischiati nelle rocce in modo tale che per estrarne una punta di spillo serva frantumare una collina. E non è un modo di dire: servono 200 tonnellate di materiale per ricavare un chilo di lutezio; 50 tonnelate per un chilogrammo di gallio; 16 tonnellate per un chilogrammo di cerio; 8 tonnelate per un chilo di vanadio. A cui vanno aggiunti fiumi di acqua mischiata con solventi chimici necessari per “purificare” i metalli. Pitron giunge alla conclusione che lo sviluppo sostenibile non esiste poiché “nuove risorse vengono a mancare ogni volta che cambiamo modello energetico e tutto ciò non ha fine” (Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss, 2019).

La delocalizzazione delle industrie sporche fa il paio con i meccanismi di mercato inventati con il Protocollo di Kioto nel lontano 1997 e rilanciati con l’Accordo di Parigi cinque anni fa: le quote di emissione consentite (permessi di inquinamento) sono fissate per ogni Singolo stato e si applicano agli impianti di produzione. Ma sappiamo bene che gran parte delle merci vengono poi comprate e consumate in paesi diversi da quelli in cui vengono prodotte. Non sarebbe più equo attribuire il peso dello zaino ecologico sulle spalle dei beneficiari effettivi? Non contenti, gli europei si sono concessi anche la libertà di commerciare i permessi di inquinamento auto-attribuiti (Emissions Trading System e Clean Development Mechanism) come se fossero un titolo finanziario qualsiasi, intermediato da istituti finanziari e quotato in borsa (nel 2018 un permesso di emissione di una tonnellata di CO2 valeva 23,5 Euro).

Non si sa di chi avere più paura, se dei negazionisti della Coalizione fossile guidata da Tramp e dagli emiri arabi, o dei cervelloni delle imprese biotech che vedono nella emergenza climatica una occasione per “giocare a fare dio” e, molto più prosaicamente, una opportunità per far fare nuovi profitti alle loro compagnie. Al dilemma non si scappa: salvare l’economia o il pianeta. La green economy rivitalizzava il mercato, non l’ambiente (leggi anche Il business climatico di Silvia Ribeiro).

fonte: https://comune-info.net

“Ormai è tardi: sfida poveri-ricchi per le regioni con un clima sano”

Il summit Cop25 - Dati dell’Onu sempre più allarmanti. Il climatologo Mercalli: “Anche arrivando a emissioni zero avremo conseguenze gravi”





Quasi mezzo milione di vittime e danni per 3,5 miliardi di dollari. È il bilancio degli oltre 12mila eventi meteorologici estremi (cicloni, siccità, ondate di calore) che hanno colpito il pianeta tra il 1999 e il 2018, secondo i numeri del Climate Risk Index presentato alla Cop25 di Madrid dalla ong tedesca Germanwatch. E le catastrofi ambientali non sono più un’esclusiva del Sud del mondo: in cima alla lista dei Paesi più colpiti nel 2018, dice il rapporto, ci sono Giappone e Germania. L’Italia, invece, è al sesto posto per numero di morti nell’ultimo decennio. “Il cambiamento climatico presto sarà un’ emergenza sociale visibile a chiunque”, dice al Fatto Luca Mercalli, climatologo e docente, il più noto divulgatore italiano su questo tema.

Dottor Mercalli, siamo ancora in tempo?

Il processo ormai è irreversibile. Se arriviamo allo zero netto di emissioni entro il 2050, come ha chiesto la Commissione Ue, possiamo evitare la catastrofe. Ma anche riuscissimo a mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi, vedremo comunque effetti molto pesanti nei prossimi decenni.

Per esempio?
Le migrazioni. Avremo una fuga di massa dai Paesi caldi dove vivere sarà diventato impossibile. Al contrario ci saranno isole per ricchi, zone con temperature ancora accettabile dove si farà a gara per stabilirsi. In Italia, ad esempio, immagino una fuga dalle grandi città verso i borghi dell’Appennino. E poi nuove forme di sfruttamento: i privilegiati che lavorano in ufficio se la caveranno con i condizionatori. Ma chi accetterà di lavorare all’aria aperta? I disperati, chi non può permettersi altro. Saranno gli schiavi del prossimo futuro.

Come valuta i primi giorni della Conferenza Onu sul clima a Madrid?

Le prime giornate sono sempre uguali: appelli ogni volta più allarmati, che condivido al 100%. Ma di appelli ne ascoltiamo da trent’anni e restiamo sempre in questo stato d’inerzia estenuante.

Ci sono Stati più responsabili di altri?


Gli Usa di Trump, che ha scelto di uscire dagli accordi di Parigi comunicando un pericoloso messaggio di negazione. E poi Cina, India e gli Stati del sud-est asiatico, tra i più restii a limitare le emissioni.

Non è comprensibile, visto che i Paesi occidentali hanno inquinato per anni senza limitazioni?

Se siamo tutti su un aereo che precipita è inutile stare a litigare. I governi dei Paesi in via di sviluppo sanno bene che gli effetti del riscaldamento globale sarebbero devastanti anche per loro. Cercano di negoziare in modo da non uscirne “cornuti e mazziati”, e d’altra parte è a questo che servono le Cop.

Il Global Risk Index propone uno strumento finanziario specifico dell’Onu per i danni climatici, una specie di assicurazione.

Può certamente aiutare, ma solo fino a un certo punto. Con la frequenza che hanno assunto gli eventi estremi negli ultimi anni, alcuni Paesi rischiano di non risollevarsi più. Si creano effetti a lungo termine sull’economia e anche sulla psicologia delle persone. Prenda Venezia: un’acqua alta al mese è accettabile, due o tre lo sono meno, quando diventano quattro o cinque allora te ne vai. Nel resto del mondo è lo stesso.


fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Non solo l'economia circolare, l'Incenerimento dei rifiuti ostacola anche le politiche climatiche dell'Ue

Lo sottolinea un recente articolo di Janek Vahk, energy officer di Zero Waste Europe: ogni tonnellata di rifiuti inceneriti aumenta le emissioni di carbonio e rischia seriamente di compromettere l'obiettivo comunitario di emissioni zero entro il 2050
















L’incenerimento dei rifiuti non è una pratica che contraddice gli obiettivi dell’Unione Europea unicamente per ciò che concerne l’economia circolare, ma anche per quanto riguarda le politiche comunitarie per il clima. Lo sottolinea un recente articolo di Janek Vahk, energy officer di Zero Waste Europe, su Euractiv.
Tra il 1995 e il 2017 in Europa l'incenerimento è aumentato di 38 milioni di tonnellate (+ 118%). Una crescita vertiginosa dovuta, da una parte, al tentativo di alcuni paesi di raggiungere l'obiettivo comunitario del 10% massimo di rifiuti in discarica entro il 2035, aumentando la propria capacità di incenerimento degli stessi. Dall’altra all’idea che bruciare i rifiuti per produrre energia fosse ambientalmente più sostenibile che farlo utilizzando le fonti fossili.
Una considerazione che poteva forse avere senso quando l'alternativa era l'elettricità ottenuta solamente da carbone e petrolio, ma che oggi perde sensibilmente di valore visto che nel sistema energetico Ue la cosiddetta “termovalorizzazione” deve competere con l'eolico, il solare e l'idroelettrico.
Ogni tonnellata di rifiuti inceneriti aumenta l'impatto delle emissioni di carbonio e rischia seriamente  di compromettere l'obiettivo comunitario recentemente annunciato di emissioni zero entro il 2050. Alcuni paesi questo l’hanno già capito. Ad esempio il Portogallo, paese che attualmente incenerisce il 20% dei suoi rifiuti, ha recentemente annunciato che avrebbe fermato tutti gli investimenti futuri in questo senso, menzionando il rischio di non raggiungere i propri obiettivi di riciclo e gli obiettivi Ue di riduzione delle emissioni di gas serra. Nel frattempo in Belgio, precisamente in Vallonia, il governo regionale ha recentemente presentato un piano per dimezzare l'incenerimento dei rifiuti nella regione entro il 2027.
Inoltre piani di dismissione analoghi sono in discussione in tutta la Scandinavia, che in precedenza era il modello per l'incenerimento dei rifiuti in Europa, ma che ora rischia di non raggiungere gli obiettivi di riciclo a causa della sua eccessiva dipendenza dagli inceneritori. E' molto significativo poi che anche le autorità di prestito europee, come la Banca europea per gli investimenti, abbiano iniziato a disinvestire in impianti per bruciare rifiuti.

Bus elettrici alla riscossa: il futuro da Siracusa a Helsinki

L’elettrificazione dei trasporti pubblici può contribuire a diminuire il numero delle automobili circolanti su strada, ridurre il traffico e migliorare la mobilità pubblica. Il primo bus navetta elettrico al mondo in grado di procedere senza conducente in tutte le condizioni meteorologiche si chiama Gacha
Per un futuro più pulito e sostenibile per l’umanità l’energia elettrica da fonti rinnovabili rappresenta un asso nella manica: non solo le auto elettriche si stanno facendo largo per porre fine all’inquinamento dell’aria dovuto ai combustibili fossili, ma pian piano anche moto, scooter, camion e soprattutto bus elettrici iniziano a popolare le città di gran parte del pianeta. L’elettrificazione dei trasporti pubblici, fenomeno soprattutto cinese ma sempre più globale, può contribuire a diminuire significativamente il numero delle automobili circolanti su strada, ridurre il traffico e migliorare la mobilità pubblica.
Non si tratta solo di autobus elettrificati, ma anche di mini-bus a guida autonoma. Il primo bus navetta elettrico al mondo in grado di procedere senza conducente ad una velocità massima di 40 km/h e guidare con tutte le condizioni meteorologiche si chiama GACHA. Prodotto dalla giapponese MUJI, in collaborazione con Sensible 4, società finlandese specializzata nella produzione di autoveicoli autonomi a tecnologia all’avanguardia, è stato testato per la prima volta con successo ad Helsinki.
Sensible 4 ha fornito la tecnologia di autoguida avanzata, come il sistema di navigazione dotato di GPS ad alta precisione, che funziona tracciando una mappa digitale, come su una ferrovia invisibile ma con la possibilità di cambiare percorso, a seconda delle richieste degli utenti. Anche il perfetto rilevamento ostacoli, grazie ad una pila completa di sensori lidars, radar e visione a 360 gradi, consente una guida autonoma tutto l'anno, persino con le condizioni meteorologiche più avverse. Ed è forse questa la vera conquista, dato che finora le cattive condizioni climatiche avevano sempre dato problemi.
MUJI si è dedicata al design del veicolo, rendendolo funzionale e confortevole per l’utente, che si caratterizza per la mancanza della parte anteriore o posteriore, ispirandosi ad una capsula giocattolo. I sedili interni seguono infatti la forma morbida arrotondata dell'autobus, creando più spazio per i passeggeri, che dispongono di 10 posti a sedere, 6 in piedi ed un agile accesso per le persone a mobilità ridotta. La cintura luminosa a LED funge invece sia da faro di illuminazione che da espositore per le sue comunicazioni di intenzione.
Un'altra immagine del Gacha
Sarà dunque un nuovo tipo di trasporto pubblico, futuristico ma soprattutto più sicuro, non impattante sull’ambiente, con la possibilità di ricarica veloce senza fili e accessibile a tutti, raggiungendo anche le zone extraurbane più isolate, collegandosi perfettamente con gli altri servizi di trasporto esistenti. Dopo il primo test drive a Helsinki, GACHA ha iniziato a girare nella città finlandese di Espoo, fino ad essere completamente operativo anche a Hämeenlinna, Vantaa e appunto Helsinki. Con lo sviluppo della prima flotta GACHA entro la fine del 2019, l’obbiettivo è quello di integrare le navette auto-guidate nei sistemi di trasporto pubblico entro il 2021, e stabilire partnership con città pionieristiche in Europa e nel resto del mondo.
"Lo sviluppo di GACHA è iniziato quando il team di Sensible 4, che all'epoca lavorava con la prima generazione di autobus robotizzati, ha notato che non funzionavano affatto in caso di leggera pioggia, per non parlare delle tipiche nevose condizioni invernali in Finlandia", spiega Harri Santamala, CEO di Sensible 4: "La tecnologia di guida completamente autonoma non era ancora arrivata. La maggior parte delle auto con guida autonoma può funzionare solo in condizioni climatiche ideali e su strade ben segnalate. Questo è ciò che Sensible 4 è riuscita a cambiare attraverso test ripetuti nelle impervie condizioni invernali della Lapponia finlandese".
Ma per mezzi avveniristici e mezzi pubblici elettrici a guida autonoma non occorre andare troppo lontani. All’estremo opposto del vecchio continente, nella nostra Siracusa, è nato infatti Eco-34, un bus elettrico creato dalle mani di geniali artigiani di provincia: Giuseppe Ferrazzano e suo padre Giacomo, della Genius automobile Italia, azienda familiare specializzata nei trenini elettrici che ora si dedica anche ai piccoli bus. “È pronto per la presentazione. Abbiamo investito oltre 2 anni di lavoro e costruito da noi tutto quello che era possibile”, spiega orgoglioso Giuseppe: “Si è poi collaborato con fornitori italiani. È in fase di omologazione, ma siamo sulla linea del traguardo”.
La famiglia Ferrazzano lavora da tempo nel settore a Siracusa con la Tecnicar, costruendo trenini elettrici (che circolano non solo in Sicilia, ma anche in Europa), delle golf car e in passato hanno anche realizzato una city car, esposta nel 2012 al Motor Show di Bologna: “Purtroppo un progetto che abbiamo dovuto accantonare per problemi di omologazione e soprattutto di capitali necessari per portare avanti l’investimento”.
Il bus elettrico siciliano Eco 34
Ma con tenacia ora si scommette sui bus elettrici: “Eco-34 ha un motore di 30 kW, con batterie al piombo, ma si possono installare quelle al litio. La velocità massima è sui 50 km/h, porta 34 passeggeri di cui 9 seduti ed è presente la pedana per le persone diversamente abili”. Il costo? “Siamo sui 200mila euro. Può essere acquistato da tutti, poi è chiaro che si tratta di un veicolo che si può integrare all’interno della flotta della mobilità pubblica. Si può impiegare negli itinerari di parchi e siti turistici”.
Nel nostro Paese, Siracusa è stata una delle prime città italiane a investire sui bus elettrici per la mobilità urbana, con una flotta di sei veicoli. Piccoli grandi passi che danno davvero un segnale di cambiamento, dalla Sicilia alla Finlandia.
Andrea Bertaglio
fonte: www.lastampa.it

La Svizzera annuncia l’obiettivo zero emissioni per il 2050

L’annuncio pubblicato dal Consiglio federale della Confederazione svizzera: sfruttando tecnologie già disponibili e risorse rinnovabili possibile tagliare del 95% le emissioni in alcuni settori chiave

















Il Consiglio federale della Confederazione svizzera ha annunciato l’approvazione di un programma per raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050: il Paese elvetico diventa così il quarto Stato europeo dopo Francia, Regno Unito e Svezia, a fissare l’obiettivo di neutralità climatica entro metà secolo.

Secondo quanto riportato nel comunicato stampa del Consiglio federale svizzero, la stesura del programma sarebbe stata avviata in risposta al report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change dello scorso ottobre secondo cui erano necessarie azioni più incisive per limitare il riscaldamento globale entro gli 1,5°C, così come fissato dall’Accordo di Parigi.

“Dobbiamo tagliare le nostre emissioni di gas serra in maniera più rapida e incisiva– ha commentato il Ministro dell’Ambiente svizzero, Simonetta Sommaruga – In quanto nazione innovativa, la Svizzera è nelle migliori condizioni per raggiungere questo obiettivo”.

Nel 2016, la Confederazione elvetica aveva fissato l’obiettivo di ridurre del 70-85% rispetto ai valori registrati nel 1990, le proprie emissioni di carbonio entro il 2050. Gli allarmanti report dell’IPCC hanno però indotto il Governo svizzero ad alzare l’asticella e puntare alla neutralità di carbonio per la stessa data.
Una scelta che lo stesso Consiglio federale collega anche all’imminente summit sul clima delle Nazioni Unite che si terrà a New York il prossimo 23 settembre: un’occasione in cui, come sottolineato dal Segretario ONU, Antonio Guterres, solo i rappresentati di nazioni che abbiano manifestato l’intenzione a mettere in atto programmi ambiziosi di contrasto al cambiamento climatico saranno invitati a intervenire davanti all’assemblea plenaria.

D’altra parte, la Svizzera è uno degli Stati europei in cui la crisi climatica sta agendo con maggiore evidenza: nel documento presentato dal Consiglio federale si legge che le temperature stanno aumentando a un ritmo doppio in Svizzera rispetto alla media globale.

Il programma elvetico prevede di tagliare il 95% delle emissioni in settori come trasporti, edilizia e industria sfruttando tecnologie già attualmente disponibili e utilizzando risorse rinnovabili: “C’è anche il potenziale di ridurre i gas serra, in particolare metano e protossido di azoto prodotti dall’agricoltura – si legge nel comunicato della Confederazione svizzera –  Inoltre, la riduzione delle emissioni prodotte in altri Paesi farà parte della strategia”.
Un ruolo importante è affidato anche ai pozzi naturali di CO2, come foreste e terreni umidi, che dovranno essere tutelati ed estesi il più possibile secondo quanto annunciato dal Consiglio federale svizzero. Allo stesso tempo, il programma guarda con fiducia alle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2, un settore in cui la Svizzera sta portando avanti progetti all’avanguardia: solo pochi mesi fa, ad esempio, è stato avviato il primo esperimento mondiale di stoccaggio di CO2 in un sito sotterraneo nei pressi di un centro abitato.

fonte: www.rinnovabili.it