Economia circolare: al via consultazione pubblica sugli indicatori

Fino al 1° ottobre 2018 imprese, associazioni di categoria, consorzi e rappresentanti delle pubbliche amministrazioni sono invitati a inviare il proprio contributo compilando il questionario sul sito del Ministero dell’Ambiente





Al via la consultazione pubblica sul documento “Economia circolare e uso efficiente delle risorse -Indicatori per la misurazione dell’economia circolare”, realizzato dai Ministeri dell’Ambiente (MATTM) e dello Sviluppo Economico (MISE) con il supporto tecnico-scientifico dell’ENEA e il contributo di esperti del settore.

Fino al 1° ottobre 2018 imprese, associazioni di categoria, consorzi e rappresentanti delle pubbliche amministrazioni sono invitati a inviare il proprio contributo compilando il questionario al link consultazione.minambiente.it

Il documento rappresenta una prima proposta operativa di schema di monitoraggio della “circolarità” dal livello “macro” del sistema paese al “micro” della singola impresa e amministrazione. “Gli indicatori contenuti nel documento non sono da considerarsi esaustivi ma rappresentano la base di partenza per arrivare all’individuazione delle soluzioni migliori per il nostro paese in termini di massimizzazione dei benefici economici e di salvaguardia delle risorse”, sottolinea la ricercatrice ENEA Laura Cutaia del dipartimento “Sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali” che ha coordinato il contributo dell’Agenzia al documento.

fonte: www.enea.it

Roma, arriva il banchetto che raccoglie frutta e verdura invenduta al mercato per donarla ai poveri











«Ci vediamo tutti i sabati pomeriggio al mercato rionale dell’Alberone, raccogliamo dai banchisti frutta e verdura invenduta e lì costruiamo il nostro piccolo banchetto speciale». Ogni sabato pomeriggio, dalle 14 alle 16, un gruppo di volontari (italiani e stranieri) distribuisce gratuitamente la frutta e la verdura invenduta del mercato mattutino: «Sono oltre 100 kg al giorno. E sono tanti, soprattutto gli anziani, ad avvicinarsi. Così non si dice che non si aiutano gli italiani», sorridono.

LOTTA ALLO SPRECO - Si chiama Roma Salva Cibo, ed è il progetto nato nel settembre del 2017 all’interno del VII Municipio di Roma. I protagonisti sono Viola Piroli, attivista, Francesco Fanoli, antropologo e Yacouba Sangare, volontario originario della Guinea. «Volevamo semplicemente fare la nostra piccola lotta contro lo spreco e, allo stesso tempo, aiutare le tante persone che avevano bisogno. Spesso le vedevamo raccogliere la frutta caduta dal mercato. Molti di loro, così, si avvicinano finalmente senza più remore», racconta Viola. L’iniziativa s’inserisce in un progetto coordinato da ‘Eco dalle Città’, associazione già attiva nel campo della lotta allo spreco alimentare, che a Torino gestisce da oltre un anno un progetto simile al mercato di Porta Palazzo. Il progetto ha, tra gli altri, l’obiettivo di creare una rete solidale capace di stimolare legami sociali e coinvolgere migranti («superando il pregiudizio secondo cui costituirebbero esclusivamente un peso e un problema per la società»). Tra frutta, verdura e pane sono oltre 100 kg i prodotti distribuiti ogni sabato pomeriggio al mercato dell’Alberone.

UN AIUTO PER CRESCERE - «Ci siamo rivolti per un sostegno dalle istituzioni. Ma purtroppo, come sempre – aggiunge Viola – dopo le parole non sono arrivati i fatti». E così, non appagati, Viola, Francesco e i volontari hanno deciso di lanciare una campagna di raccolta fondi sul web. «Vorremmo estendere l’iniziativa aumentando sia il numero di mercati romani in cui essere attivi che la frequenza settimanale – spiegano – Abbiamo in programma di riorganizzare la raccolta e la distribuzione in maniera capillare e mobile, così da raggiungere anche chi ha difficoltà a recarsi presso i punti di distribuzione. E – conclude Viola – grazie agli accordi con tanti banchisti dei mercati vicini, ci sposteremo in altri punti della città, dando così assistenza a sempre più persone».


fonte: ilmessaggero

Vadalà: «Trasparenza e legalità per vincere la guerra alle discariche»

Il Commissario straordinario per le bonifiche spiega a Valori i segreti dei traguardi raggiunti: essenziali la cooperazione tra enti e "cittadini-sentinelle"






Indicato come esempio virtuoso dal neoministro dell’Ambiente (ed ex collega) Sergio Costa, anche il generale Giuseppe Vadalà, classe 1963, ora Commissario di Governo per la bonifica delle discariche abusive, viene dal Corpo Forestale dello Stato. È stato al Comando della Regione Toscana, fino all’assorbimento nei Carabinieri Forestali dal primo gennaio 2017. Per molti anni si è occupato di sicurezza agroalimentare e del nucleo investigativo antincendi boschivi. Militare di lunga esperienza a tutela dell’ambiente, dal 24 marzo 2017 è alla guida di una piccola task force, dieci persone in tutto, al Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari dei Carabinieri a Roma.

Generale Vadalà, qual è la funzione del Commissario in merito alla gestione delle discariche abusive sotto procedura d’infrazione UE?

«Lo scorso 24 marzo 2017 il governo ha deciso di implementare l’attività di bonifica, costituendo la figura del Commissario. L’obiettivo è ridurre il più velocemente possibile la sanzione europea che l’Italia sta pagando dal dicembre 2014 per 200 siti contaminati. Finora sono stati pagati 257 milioni in multe per le discariche abusive realizzate negli anni ‘70, ‘80 e ‘90. Bonificare ci fa risparmiare denaro pubblico e lo stiamo facendo velocemente, ma bene. Dopo anni di ritardi e rallentamenti su gare e bonifiche, è stata costituita una task force che possa intervenire a tutto tondo.

Il lavoro sta continuando nel 2018, con risultati che sono più che positivi: in un solo anno 15 siti sono stati regolarizzati, cioè bonificati o messi in sicurezza e abbiamo inviato a Bruxelles l’istruttoria per la bonifica per altri 13 siti. Stiamo lavorando per il 2 dicembre, quando dovremo consegnare la prossima relazione per un programma che comprenderà almeno 20 siti bonificati quest’anno e 20 per il prossimo anno. Sono stati risparmiati 54 milioni di euro, a fronte di 247 milioni già pagati in questi anni alle casse europee».

«Ma oltre la velocità, dobbiamo disinquinare bene, dobbiamo dare sicurezza ai cittadini che vivono intorno a questi siti e contemporaneamente, rendere tutti gli iter amministrativi più trasparenti possibili».




Trasparenza per le bonifiche: non sempre è stata possibile in Italia, sia nelle procedure ambientali che nella gestione degli appalti.

«Ora la stiamo applicando in maniera coordinata. Utilizziamoi poteri straordinari del commissario lavorando insieme alle altre strutture di controllo. Il tema bonifiche è un problema che riveste i territori, regioni e comuni; con questioni tecniche importanti. Proprio in questi giorni abbiamo stilato un protocollo con il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale, Ispra /Arpa per lavorare meglio di concerto, senza saltare passaggi.

Dove i tecnici ARPA / ISPRA ci dicono che quel sito non rientra nei parametri di legge, noi non facciamo altro che lavorare con loro per arrivare alla messa in sicurezza. Così stiamo facendo con i progettisti delle stazioni appaltanti, rispettando i tempi e i percorsi delle gare di attribuzione dei lavori di bonifica.

Dopo il 24 marzo, ci siamo trovati a lavorare con il nuovo codice degli appalti, che sicuramente è più oneroso per ciò che richiede, ma favorisce la trasparenza e la giusta concorrenza, nei giusti tempi. Così abbiamo risparmiato, diversificando la gestione dei fondi commissariali, favorendo la concorrenza tra le stazioni appaltanti.

Poi abbiamo messo mano ai tanti progetti preliminari che dovevano essere trasformati in esecutivi. Lavorando in modo coordinato, dimostrando che si possono rispettare i tempi».

Come avviene il processo di bonifica di un sito?

«La legge 152/2006 regolamenta la bonifica o la messa in sicurezza dei siti contaminati. Ci dice che i rifiuti, se pericolosi, devono essere rimossi e smaltiti in modo idoneo. Ma prima della rimozione, c’è la caratterizzazione, la fase dell’identificazione del tipo di inquinamento con indagini di tipo chimico-fisico, che in alcuni casi abbiamo dovuto rifare, perché ad esempio non combacianti con quanto da noi verificato».

Ma quali sono i parametri che l’Europa ci chiede di rispettare?

«L’Unione europea esige che il sito contaminato sia riconoscibile, quindi recintato e non possa essere più riutilizzato. Non deve più contenere rifiuti pericolosi e non deve procurare pericoli alla salute umana e alla salubrità dell’ambiente. Quindi si può procedere o attraverso la rimozione dei rifiuti, come stiamo facendo per 10 siti contaminati o attraverso il capping, (l’utilizzo di rivestimenti adeguati, come guaine geosintetiche e geotessuti, ndr) per evitare che si formi percolato, come messa in sicurezza. In alcune situazioni si può accettare un ripristino e una restituzione agli usi, se i valori ambientali lo consentono».

Come avete reso pubblico il vostro operato?

«Semestralmente, come previsto per norma, il Commissario deve relazionare al Ministero dell’Economia e Finanze e all’Ambiente e alle Commissioni Ambiente Camera e Senato.

Nella seconda e ultima relazione presentata il 2 luglio, abbiamo dato un buon contributo alla trasparenza. Aprendo le porte ai contributi dei cittadini, si responsabilizza la Pubblica Amministrazione. Ogni processo di bonifica, nel momento che viene reso pubblico, può essere ulteriormente migliorato. Sul nostro sito abbiamo 80 schede che seguono l’avanzamento lavori di ogni sito. Ogni volta vengono aggiornate.

Altro punto operativo: le collaborazioni con enti, i controlli, le stazioni appaltanti. Continui sopralluoghi e riunioni per tenere sotto controllo i vari processi. Tutto è reso noto sul nostro sito nella pagina “accountability” . Per fare tutto ciò, finora, abbiamo speso 60mila euro».

Come entrano le ecomafie nei processi di bonifica e come possiamo prevenire le infiltrazioni?

«Come sottolineato nell’ultimo rapporto Ecomafia, la questione delle bonifiche è centrale nel ciclo dei rifiuti, non ultima. Per chi, come noi, lavora da molti anni in questo campo, sono già noti alcuni soggetti criminali, ricorrono i soliti nomi. L’altro fattore che abbiamo approfondito, non si può non andare a verificare, è la regolarità delle gare e dei lavori.

La nostra attività di controllo è culminata con 15 informative alle Procure, 9 di esse sono situazioni gravi. La bonifica può essere al centro del traffico illegale dei rifiuti. Per questo dobbiamo pensare a strumenti di prevenzione per favorire la legalità: vedi il protocollo di legalità firmato con il Ministero dell’Interno lo scorso 21 marzo, che ci dà la possibilità di mettere ampi filtri non solo al momento dell’aggiudicamento della gara, ma anche alla partenza dei lavori e dei cantieri.

Altro passaggio cruciale è quello che non ci sia nessun pericolo per la salute dei cittadini. Per questo stiamo collaborando con l’Istituto Superiore di Sanità e il progetto Sentieri. Penso al rapporto ISTISAN realizzato per la Calabria, andando a localizzare i siti contaminati e l’impatto sulla salute dei cittadini.

Il collegamento, il passaggio di informazioni con enti pubblici e civici è fondamentale. Non a caso abbiamo sottoscritto 23 protocolli sia con Istituzioni scientifiche (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Istituto di Ricerca sulle Acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche); con la Fondazione Caponnetto di Firenze. Sono in fase di sigla i Protocolli con Confindustria, con ANAC e UnionCamere. Sono stati avviati rapporti con la Direzione Nazionale Antimafia».

In Italia ci sono decine di migliaia di siti contaminati, anche se le mappature regionali sono ancora incomplete. Che cosa possiamo fare?


«La collaborazione tra gli enti è fondamentale. E lo è anche il monitoraggio civico del territorio. Questa è l’insegnamento che possiamo trarre dalla gestione della procedura di infrazione ed è ciò che sappiamo anche dall’esperienza precedente del Corpo Forestale dello Stato: nel 1986, quando nacque il Ministero dell’Ambiente in Italia, aveva già redatto il primo censimento delle cave abbandonate e delle discariche abusive. Quello strumento aveva permesso di scoprire già più di 5000 siti contaminati (censimento ripetuto poi per altre tre volte nel 1996, 2002 e 2016).

Altrettanto cruciale è la totale trasparenza delle istituzioni. Il cittadino deve sapere se quella discarica, quel deposito è legale, così come recentemente ha ricordato il Ministro dell’Ambiente e i siti contaminati,le piattaforme a rischio, devono fare parte di un piano di controllo dei territori, supervisionato anche dalle Prefetture. Ma i cittadini devono e possono essere sentinelle dei territori. A fianco di coloro che lo fanno ufficialmente».


fonte: www.valori.it

Pfas in Adriatico, alta concentrazione nelle vongole


















Alcuni ricercatori dell’Università di Milano, studiando le vongole del mercato ittico arrivate dall’Adriatico, hanno trovato concentrazioni altissime di Pfas e Pfoa. Si tratta di molluschi allevati nel delta del Po. Come scrive Luca Fiorin su L’Arena a pagina 32, i molluschi avevano 31 nanogrammi per grammo di Pfoa. Una presenza 9 volte superiore rispetto a quella rilevata nel 2013 dal Cnr. La Regione Veneto aveva escluso che le sostanze perfluoro-alchiliche fossero presenti in misure rilevanti negli alimenti.
La Regione sta inoltre effettuando uno screening di massa per verificare la relazione tra malattie e presenza di Pfas nell’organismo. Il rischio è che molti bambini di oggi diventino dei giovani o degli adulti con gravi problemi – dice il pediatra Ernesto Burgio – e per questo è necessario ridurre il livello di esposizione già a livello dei feti». «La Regione controlla solo le sostanze florurate simili ai Pfas che non vengono più prodotte. É perciò necessario estendere le verifiche» ha aggiunto Stefano Raccanelli, consulente di inchieste giudiziare sui Pfas.
fonte: www-vvox-it

Rifiuti, la Regione Toscana chiede agli Ato di fare il punto su tre obiettivi al 2020

Raccolta differenziata, termovalorizzazione, discariche: «Entro e non oltre il 15 settembre prossimo una relazione dettagliata»





Con delibera approvata ieri, la Giunta regionale chiede ai tre Ato della Toscana (Costa, Centro, Sud) di presentare “entro e non oltre il 15 settembre prossimo una relazione dettagliata descrittiva dello stato di avanzamento e del programma per la realizzazione dei tre obiettivi del Piano rifiuti e bonifiche”. Ovvero, come ricordano dalla Regione: 70% di raccolta differenziata, portare la termovalorizzazione dei rifiuti al 20% e ridurre i conferimenti in discarica al 10% (non si fa riferimento esplicito in quest’occasione agli altri due principali obiettivi presenti nel Prb per quanto riguarda i rifiuti urbani, ovvero quello relativo alla prevenzione e quello che mira a realizzare un riciclo effettivo di materia da rifiuti urbani di almeno il 60% degli stessi).

«Il settore – spiegano il presidente Enrico Rossi e l’assessore regionale all’Ambiente, Federica Fratoni – sta vivendo una fase caratterizzata da grandi novità, ed è il momento di imprimere una decisa accelerazione per giungere ad una corretta gestione dell’intero ciclo dei rifiuti. Per questo chiediamo ai tre Ato di allinearsi, nel più breve tempo possibile, agli obiettivi che ci siamo dati. E, visto che le ultime percentuali di trattamento disponibili sono quelle relative al 2016, chiediamo di conoscere lo stato attuale delle destinazioni dei rifiuti». In attesa dunque che venga elaborato il nuovo Piano regionale sui rifiuti con orizzonte 2023, come dichiarato dal presidente Rossi, al momento la Regione si muove per chiedere agli Ato di fare il punto della situazione sugli obiettivi (rivolti al 2020) presenti nell’attuale Prb.

La delibera approvata dalla Giunta chiede anche tempi e modalità di incremento della raccolta porta a porta o di quella di prossimità. L’altra richiesta riguarda le scelte impiantistiche o di destinazione dei flussi operate per la valorizzazione energetica dei rifiuti; è poi attesa una diminuzione del numero delle discariche, secondo le indicazioni del Piano rifiuti e bonifiche (quello vigente fissa a 5 il numero degli impianti nel 2020, rispetto ai 9 attivi nel 2016), mentre si chiede “una previsione dell’impiantistica necessaria a valorizzare la raccolta differenziata da incrementare”.

Una filiera che spazia ad esempio dagli impianti di selezione e avvio al riciclo agli impianti di riciclo veri e propri (ovvero vetrerie per il vetro, cartiere per la carta, acciaierie per l’acciaio, etc), ma anche agli impianti che inevitabilmente sono chiamati a gestire i nuovi scarti che tutti questi processi industriali comportano: anche la migliore economia circolare, come dovremmo sapere, non esiste a “rifiuti zero”.

Presidente ed assessore hanno poi illustrato alla Giunta i dati di un recentissimo sondaggio che la Regione ha commissionato e che Ipsos ha realizzato con 800 interviste telefoniche ai residenti in Toscana effettuate tra il 12 e il 18 luglio scorsi. Emerge che il 72% degli intervistati giudica positivo o molto positivo il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Oltre il 90% afferma di praticare sempre o spesso la raccolta differenziata di carta e cartone, plastica e vetro; leggermente sotto (88%) il dato sulle lattine e sui rifiuti organici (83%). Infine il 93% dei toscani si dice disponibile ad incrementare l’impegno nel differenziare i propri rifiuti in cambio di una riduzione della tariffa, un connubio però molto difficile da realizzare in concreto dato che – come tutti sanno – pulire casa propria costa, e lo stesso vale per la propria città: servizi di raccolta rifiuti più articolati, come ad esempio il porta a porta, non a caso sono assai più costosi di quelli tradizionali. Costi che per legge devono essere integralmente coperti dalla tariffa.

Ma se la quantità e la qualità della raccolta differenziata aumenta, e trova a valle una filiera industriale dotata di tutti gli impianti necessaria a valorizzarla, questo pezzetto d’economia circolare permette di vivere in un ambiente più pulito, con più posti di lavoro e forte di un tessuto economico più competitivo, dove le materie prime sono a km zero. E in questo caso i vantaggi, anche economici, sarebbero davvero per tutti.

fonte: www.greenreport.it

Quando l’inquinamento da plastica rappresenta un rischio aziendale

In un nuovo report, ClientEarth i quattro tipi di rischio a cui le società possono andare incontro sottovalutando la questione della plastica monouso





La lotta all’inquinamento da plastica è una delle poche battaglie verdi a metter d’accordo il Pianeta. Le azioni per affrontarlo rimangono tuttavia poche e disomogenee. Eppure far fronte al problema non è solo una questione di sensibilità ambientale: in ballo per molti ci potrebbe essere anche il portafoglio. A spiegarlo è il nuovo report di ClientEarth dal titolo “Risk unwrapped: plastic pollution as a material business risk”. Il documento mette in luce i rischi aziendali a cui possono andare incontro le società legate direttamente o meno alla produzione di rifiuti polimerici.

“Attualmente i rifiuti di plastica rappresentano un’esternalità per la maggior parte delle aziende, con società e mondo naturale che ne sopportano il peso dell’inquinamento. Poco peso viene dato a cose come il packaging, una volta che il prodotto in esso contenuto è stato consumato e sono stati generati introiti per il suo produttore”, spiega Tatiana Lujan. “Tuttavia, questo sta cambiando e le aziende ad alta intensità di plastica devono essere preparate ai rischi connessi al loro coinvolgimento nella crisi dell’inquinamento plastico“.

In Europa (ma non solo) i governi stanno agendo abbastanza rapidamente sulla regolamentazione di questo tipo di rifiuti e le aziende sono generalmente impreparate. “Nell’arco di pochi mesi, abbiamo già visto il divieto assoluto per i prodotti monouso e obiettivi di riciclaggio più elevati, nonché proposte di nuove tasse e costosi schemi di tipo chi-inquina-paga”, aggiunge Lujan. “All’inizio di quest’anno il prezzo delle azioni del produttore di imballaggi europeo RPC è diminuito del 15% dopo le notizie sulla nuova normativa per la plastica”.


Nel dettaglio il report individua quattro tipologie di pericoli per le aziende:


Rischio di transizione: maggiori oneri normativi e tecnologici derivanti dalla transizione verso un’economia più circolare. Le aziende che sono utenti o produttori intensivi di materie plastiche saranno maggiormente esposte al rischio finanziario di non essere in grado di adattare la propria attività alle leggi in rapida evoluzione.


Rischio di reputazione: le aziende percepite come fonte di inquinamento plastico potrebbero subire danni alla reputazione, con una perdita di valore per il proprio marchio e di interesse da parte degli investitori.


Rischi fisici: Questo tipo di rischio aziendale interessa tutti i settori per cui l’esposizione diretta all’inquinamento plastico ha un effetto immediato, come l’industria della pesca o quella del turismo.


Rischio di responsabilità: le aziende potrebbero affrontare problemi legali da parte di soggetti che hanno subito perdite o danni legati all’inquinamento da plastica, al pari di quanto è accaduto con amianto, tabacco e le prime cause climatiche.



fonte: www.rinnovabili.it

Dieci idee per salvarci dalla plastica

Nelle reti dei pescatori italiani finiscono pesci e plastica in ugual misura. Come ridurre questo scandalo? Ecco 10 proposte. Più l’identikit di un pericoloso animale marino





LE RETI DEI PESCATORI, nei mari italiani, tirano su una bizzarra varietà di pescato. Metà del peso è pesce. L’altro 50% è plastica. Bottiglie, frammenti, fusti, tubi, cannucce, polistirolo, stoviglie. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, annunciando la ventura legge anti plastica. È di plastica, del resto, l’85% dei rifiuti nel Mediterraneo. Vi stupite? Se state sfogliando 7 in spiaggia, guardatevi attorno. Secondo la ricerca annuale Beach Litter di Legambiente, in 100 metri di litorale italiano ci sono 620 rifiuti, tra cui 26 stoviglie usa e getta, 51 tappi, 39 bottigliette. I cotton fioc buttati nel wc rappresentano un terzo della plastica sui fondali. Il sale li disgrega in pezzetti di meno di mezzo centimetro (o microplastiche) e gli animali li mangiano, spesso soffocando.


FIN QUI, TUTTO ABBASTANZA NOTO. Di lotta alla plastica si parla molto e anche l’Unione Europea approverà entro il 2019 una direttiva per vietare le plastiche monouso. La raccolta differenziata degli imballaggi in questo materiale, in Italia, è passata dal 39% dichiarato nel 1997 all’85% del 2017 (dati Istat). Insomma: non siamo (più) proprio dei barbari. E allora come è possibile che il mare in cui nuotiamo, e i pesci che mangiamo, siano sempre più pieni di plastica? Una domanda forse ingenua: non da esperta, ma da cittadina che occupa, in casa propria, più spazio per la raccolta differenziata che per le scarpe. E paga una tassa rifiuti cospicua: io 170 euro l’anno, a Milano, con casa molto piccola, e la famiglia media circa 300 euro l’anno. Il 70% dei cittadini, per l’ultima indagine Istat, lo considera un costo «elevato». E allora non si può davvero fare di più? Ho provato a chiederlo agli addetti ai lavori: ingegneri dei materiali, ambientalisti, funzionari del ministero dell’Ambiente e del Corepla, il consorzio che si occupa del recupero degli imballaggi in plastica, biologi marini. Ecco dieci proposte per le aziende, per le istituzioni, per i cittadini. Più un mostro marino da fare estinguere al più presto.


1) DISINCENTIVARE L’USA E GETTA. È la strada più battuta, ma anche quella di più sicuro impatto. I sacchetti di plastica sono spariti dalla grande distribuzione, ma le aziende che li producono, in Italia, continuano a venderli a negozi e mercati. Perché non sanzionare anche quelli? Il ministero dell’Ambiente, mi spiega una funzionaria, si sta orientando verso un aumento delle imposte a chi produce plastica monouso, e a un incentivo ai produttori di plastiche biodegradabili o materiali alternativi.


2) INTRODURRE I VUOTI A RENDERE. In Germania, se compro una bottiglietta d’acqua a Norimberga e poi la riconsegno in qualsiasi negozio di Amburgo ricevo indietro 25 cent di cauzione che ho pagato all’acquisto. Il negozio si occupa del recupero. Perché non si fa anche da noi? «Difficile», mi spiega Antonello Ciotti, presidente del Corepla. «L’investimento iniziale è molto alto (in Germania si è parlato di circa 2 miliardi di euro, ndr)». In Italia, poi, i rifiuti sono di pertinenza comunale: difficile istituzionalizzare un sistema in cui io posso far gestire a Palermo un rifiuto di Firenze, e così via.


3) INCENTIVARE IL MERCATO DEL RICICLO. L’Italia, ogni anno, crea 2 milioni e 200 mila tonnellate di imballaggi in plastica. Il consorzio delle aziende che li producono, Corepla, ha l’obbligo di smaltirli. Il 31% si ricicla: il 2017 è stato il primo anno in cui si è riciclata più plastica di quella mandata in discarica, che è il 27%. Quella che non si può riciclare finisce nei termovalorizzatori, o come combustibile nei cementifici. Ma cosa si fa con quella riciclata? In potenza, molto: pannelli per l’edilizia, indumenti in pile, giostre e panchine... Ma i materiali rigenerati non sono sempre la prima scelta dei produttori. «In Italia», spiega ancora Ciotti, «vige il cosiddetto Green procurement: le amministrazioni, nei capitolati di spesa, dovrebbero preferire l’acquisto di arredi urbani in materiali riciclati. Ma spesso non succede perché il Green procurement non è vincolante. Perché non renderlo tale?». La spesa della pubblica amministrazione per l’acquisto di beni e servizi, per inciso, è di circa 90 miliardi l’anno, il 6% del Pil. Orientarne anche solo un punto in senso ecologico potrebbe fare la differenza.


4) INVESTIRE IN NUOVI IMPIANTI. Abbiamo molti rifiuti raccolti bene. Ma pochi impianti per gestirli: appena 40 in tutta Italia, quasi tutti al Nord. La Cina è stata a lungo la valvola di sfogo della differenziata europea: la plastica di Paesi come il Regno Unito, che non hanno una rete efficace di riciclo, finiva lì. Da gennaio scorso, la Cina ha chiuso le frontiere alle nostre materie di scarto, per riciclare le proprie. E l’Europa è intasata di materiali usati. Italia compresa: non a caso i siti di stoccaggio dei rifiuti plastici, strabordanti di materiali che non gestiscono, spesso prendono fuoco. Con frequenza sospetta: negli ultimi 3 anni ci sono stati più di 200 roghi.


5) PREMIARE LA DIFFERENZIATA FATTA BENE. Molta plastica viene gettata via unta, sporca, o non separata da altri materiali: produce così rifiuti più difficili da gestire, e da vendere. D’altro canto, l’83% degli italiani ha dichiarato all’Istat che farebbe la differenziata con più scrupolo se questa pratica fosse collegata a incentivi fiscali o tariffari. Oggi sono in vigore multe per chi non la fa, ma sono efficaci, dice l’Istat, solo per il 60% dei cittadini. Meglio incentivare!


6) COINVOLGERE I PESCATORI. Che se ne fanno, vi sarete chiesti, i pescatori, del famoso 50% del pescato composto da plastica? Oggi sono costretti a ributtarlo a mare: portando a riva bottiglie e frammenti dovrebbero pagarci su una tassa, o addirittura sarebbero imputati di traffico illegale di rifiuti. Perché non incentivarli, invece, a collaborare? Una proposta di legge c’è già, l’ha presentata la deputata Rossella Moroni (Leu); la legge anti plastica a cui sta lavorando il ministero dell’Ambiente la includerà, prevedendo anche isole ecologiche mobili nei porti.


7) INSTALLARE FILTRI ALLE FOCI DEI FIUMI. L’80% dei rifiuti in mare arriva da terra. L’associazione Marevivo sta lavorando a una proposta di legge per installare, alle foci, sistemi meccanici che fermino la plastica. «Si fa già in Canada e negli Stati Uniti», spiega il biologo Gianluca Poeta. Con qualche difficoltà: le barriere si intasano di rami, sassi, animali. E in Italia, osserva Poeta, si ripresenterebbe il problema della pertinenza comunale dei rifiuti: «I comuni situati alle foci dei fiumi sono in genere contrari a occuparsi di rifiuti altrui».


8) RIVEDERE L’ACCORDO ANCI-CONAI. I Comuni italiani, rappresentati dall’Anci, ricevono dal Consorzio nazionale dei produttori imballaggi (Conai) un rimborso per la differenziata: il principio è che chi produce il rifiuto (i produttori di imballaggi) si occupi di pagarne il recupero (con i produttori che si autotassano per ogni tonnellata di materiale prodotto). Il contributo è fissato ogni 5 anni: nell’ultimo lustro è stato di 1,5 miliardi. Che non bastano mai: i Comuni sono spesso in perdita nella gestione della differenziata. Perché? Intanto, spesso delegano la raccolta a società multiservizi: per la plastica succede nell’87% dei casi. Il servizio è affidato in Italia a 1.800 aziende; in maniera spesso diretta, con contratti lunghi, senza gara. Alle condizioni più convenienti? Non sempre. Tanto che nel 2016 se n’è occupato l’Antitrust, che ha decretato fra l’altro che «il finanziamento della differenziata da parte dei produttori di imballaggi», alla fine, non arrivi a superare «il 20% del totale, laddove dovrebbe essere per intero a loro carico». I contributi del Conai, infatti, sono anche tra i più bassi d’Europa. L’associazione Comuni Virtuosi stima che, per la raccolta degli imballaggi, i Comuni arrivino a spendere tre volte quello che recuperano. Alzando la tassa rifiuti, o investendo meno in una raccolta differenziata corretta. O, addirittura, uscendo dall’accordo: lo fanno molti comuni al Sud, e portano tutto in discarica. Nel 2019 l’accordo scadrà: non è il caso che l’Anci punti a rinnovarlo in modo più favorevole ai Comuni, accettando magari di vincolarli a una gestione più oculata del servizio e tutelando i cittadini?


9) INVESTIRE SULL’ECODESIGN. Per esempio: le bottigliette dell’acqua sono fatte di un tipo di plastica, mentre tappo e anello, spesso, di un altro. Le buste in cui spediamo i libri sono carta foderata da pluriball, e per differenziarli tocca separarli. Non si possono progettare diversamente? «Forse: ma a scapito della leggerezza della busta, o dell’impatto visivo della bottiglia», spiega il presidente di Corepla. Si può agire in modo indiretto: ad esempio – e Corepla lo fa – aumentando il contributo richiesto a chi produce imballaggi in plastiche non riciclabili. Peccato che poi i produttori scarichino il costo sul consumatore: oltre a pagare la tassa rifiuti ci troviamo il costo della differenziata nascosto nello scontrino del supermercato.


10) DIFFERENZIARE TUTTA LA PLASTICA. A oggi la raccolta comprende solo gli imballaggi (un terzo di tutta la plastica che buttiamo via), ed è gestita da Corepla. Perché non estenderla anche a giocattoli, indumenti, attrezzature mediche, tubature? «Se le imprese che li producono dovessero autotassarsi per gestirne il recupero, come fanno i produttori di imballaggi, ci avvicineremmo agli obiettivi Ue per il riciclo», spiega Ciotti. Cioè al 50% della plastica riciclata entro il 2020.


E PER FINIRE, lottare con lo ZZL! Cioè lo Zozzone Litoraneo: sottospecie dell’homo sapiens (o meglio insipiens?) che va in spiaggia, fa il picnic, fuma e lascia sulla sabbia una tossica eredità di mozziconi e rifiuti. O al massimo, per pulirsi la coscienza, li butta nei cestini pubblici già pieni, e pazienza se poi il vento li fa volare nell’ambiente. Non è una specie rara: la ricerca Beach litter di Legambiente mostra che il 48% dell’immondizia delle spiagge si deve proprio a lui. Se il vostro vicino d’ombrellone è uno così, chiedeteglielo: «Ma perché non te la porti a casa?»



fonte: www.corriere.it

Pneumatici, Ecopneus: raccolta oltre i target, stanziato 1 mln di euro















La raccolta pneumatici andrà oltre i target di legge per Ecopneus. Ad annunciarlo lo stesso consorzio, che a fronte di una spesa pari a circa 1 milione di euro provvederà al recupero di 3 mila tonnellate di PFU extra entro fine ottobre. L’obiettivo è quello di alleggerire le criticità attualmente gravanti sui gommisti e di convogliare le unità raccolte verso gli oltre 26 mila punti di generazione presenti sul territorio nazionale.

L’intervento di raccolta delle ulteriori tonnellate di pneumatici a fine uso (PFU) è stata resa possibile grazie alla gestione efficiente operata da Ecopneus, che ha potuto così contare sui fondi necessari. Come affermato dallo stesso consorzio il recupero si concentrerà nelle aree soggette a maggiore “sofferenza”:

"È il caso ad esempio di alcune Regioni dove la raccolta dei PFU non viene effettuata da tutti i soggetti autorizzati con regolarità e durante tutto l’anno e che quindi hanno accumulato forti ritardi nella raccolta “ordinaria”; è il caso ad esempio del Triveneto (Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia), del Lazio e della Campania. L’intervento straordinario riguarderà anche i pneumatici di grandi dimensioni (per le macchine agricole, o per il movimento terra), anch’essi normalmente non soggetti ad una raccolta periodica da parte degli altri soggetti autorizzati."

Punti fermi dell’iniziativa, oltre all’alleviamento delle criticità del sistema, anche l’azione volta a sottolineare gli obiettivi di tutela ambienta e no profit di Ecopneus. Il consorzio ricorda inoltre come molte delle criticità segnalate dagli operatori siano collegate alla vendita irregolare di pneumatici, il cui volume è stimato in circa 20/30 mila tonnellate all’anno (per un ammanco di contributi ambientali intorno ai 12 milioni di euro annui e a un’evasione IVA stimata in 80 milioni di euro).

fonte: www.greenstyle.it

Gli amici di Casa Surace hanno le idee chiare: ridurre l'uso di plastica usa-e-getta è più facile di quanto pensi!

Gli amici di Casa Surace hanno le idee chiare: ridurre l'uso di plastica usa-e-getta è più facile di quanto pensi!





Greenpeace Italia

Le comunità energetiche diventano legge in Piemonte

Un nuovo disegno di legge recentemente approvato prevede un primo stanziamento di 50mila euro sul biennio 2018-2019 epermetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta con fonti alternative.





Il Piemonte sarà la prima regione a dotarsi per legge delle comunità energetiche.

A darne notizia una nota stampa della Regione, che annuncia l’approvazione di un nuovo disegno di legge che prevede un primo stanziamento di 50mila euro sul biennio 2018-2019 che permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta con fonti alternative.

L’idea alla base – spiega la nota – è quella della cooperativa di produzione e consumo di energia, per ottenere elettricità e calore da fonti rinnovabili disponibili localmente e forme di efficentamento e riduzione dei consumi.


fonte: www.qualenergia.it

Val di Funes: la valle in Alto Adige autogestita dai cittadini e 100% rinnovabile


















Poco più di duemila abitanti su 25 km quadrati all’ombra delle imponenti Odle: la val di Funes, con le sue sei frazioni, lascia a chi la visita la sensazione certa che qui tra le Dolomiti la vita ha tutt’altro sapore. Lenta come i suoi ritmi, autonoma come l’energia che produce, sorridente come gli allevatori che vi lavorano, frizzante come la sua aria.

Villnösstal, val di Funes in tedesco, lontana dal turismo di massa delle vicine val Gardena o Alta Badia, ma poco distante da un’altra perla – Valgiovo – ha preservato il gusto antico delle sue tradizioni, riscoprendone altre che erano andate nel dimenticatoio e piazzandosi allo stesso tempo all’avanguardia nell’uso delle fonti rinnovabili e di una mobilità sostenibile.

Acqua e legno, sole, pecore e un cuore grosso così che fa degli Altoatesini della val di Funes e delle valli vicine, come quelle in cui sorge il comune di Racines, un popolo davvero unico. La vita in e per la comunità è la loro formula segreta, quella coscienza di appartenenza netta, di condivisione e di aiuto reciproco che fa dei valori ecosostenibili i capisaldi principali.

Qui tutto basta a se stesso, in una strategia di autogestione che continua a fare dell’Alto Adige la regione più green d’Italia.
Funes e le centrali idroelettriche



Funes e tutta la sua splendida valle con poche centinaia di abitanti per ognuna delle frazioni in cui è suddivisa si è messa in testa sin dagli anni ’60 di reinventarsi e non rimanere più una località isolata.

Ad oggi, tutta l’energia elettrica qui necessaria viene prodotta in loco da tre centrali idroelettriche e un impianto fotovoltaico. Nel contempo, due impianti di teleriscaldamento a biomassa riscaldano gli edifici, mentre si è proceduto anche all’elettrificazione delle malghe e al cablaggio in fibra ottica.

Una vera e propria rivoluzione, che ha fatto di questa valle un fiore all’occhiello nella ricerca di territori completamente sostenibili, dove il ruolo dei cittadini e le loro esigenze rimangono di vitale importanza.

È così, infatti, che con gli anni è cresciuta e ha preso forma una cooperativa energetica, i cui soci – attualmente circa 600 – sono gli stessi cittadini, che in questo modo vedono sulle loro bollette uno sconto sulle tariffe elettriche pari al 50-60% (in media il prezzo dell’energia per i soci oscilla tra gli 8 e gli 11 centesimi di euro per kWh).

La prima centrale idroelettrica moderna fu quella della frazione di Santa Maddalena nel 1966, rinnovata nel 2010 con una potenza di 225 kWp. Ad essa si sono pian piano aggiunte quella di San Pietro, con potenza di 482 kWp, e poi quella di Meles, inaugurata nel 2004 con un potenza di 2,7 MW, che ha firmato il ritorno in attivo del bilancio della cooperativa e reso la valle capace di produrre più energia elettrica 100% rinnovabile di quanta non ne consumi.

Il resto è praticamente messo in vendita alla rete nazionale e i ricavi sono reinvestiti sullo stesso territorio, traducendoli in sconti in bolletta o realizzando nuovi impianti. Ne sono un esempio le due centrali di teleriscaldamento a biomasse legnose, San Pietro e Santa Maddalena, che producono calore.

La comunità locale, dunque, ha scelto di puntare tutto sull’approvvigionamento energetico autonomo nel rispetto dell’ambiente, così come sulla mobilità dolce. E siamo certi che l’ambiente della valle rimarrà intatto anche per le generazioni future.
Mobilità dolce, le vacanze ecosostenibili tra le Alpine Pearls



Sia Val di Funes che Valgiovo, la valle che collega Vipiteno alla Val Passiria appartenente al comune di Racines, rientrano tra le Alpine Pearls, la cooperazione che propone vacanze eco in tutti i posti più belli delle Alpi.

Trasporti, seggiovie e impianti di risalita, sentieri, noleggio bici e e-bike, musei ed escursioni: è la Mobilcard Alto Adige che consente, con un unico biglietto, di spostarsi in maniera comoda ed ecocompatibile in tutto l’Alto Adige, dimenticandosi completamente dell’auto.

Insomma, muoversi qui, tra le valli e sulle cime, mette in pace col mondo, nel silenzio di questo verde meraviglioso, lontano anni luce dal caos cittadino e dove si conoscono persone come Oskar e Hannes e il loro impegno per il bene di tutti e per offrire un turismo sostenibile.
Oskar Messner e Hannes Rainer, quando la tradizione incontra il futuro

Utilizzo di prodotti locali, biologici e stagionali. Fanno brillare gli occhi il vigore, l’energia, la passione che ci mettono due giovani di queste parti, che hanno deciso di prendere in mano le redini di una tradizione mista alla visione di un futuro sostenibile.
Le pecore con gli occhiali

Passeggi e li vedi, quei pascoli ad alta quota che sgambettano beati. In val di Funes sono ormai nate a nuova vita le Villnösser Brillenschaf, ossia quelle simpatiche pecorelle con le macchie nere attorno agli occhi che sembrano occhiali. Adesso, nella stagione estiva, si trovano in alpeggio, poi scendono a valle e brucano l’erba dei prati fino all’arrivo della stagione invernale.

Nei primi anni 2000, Oskar Messner, chef in val di Funes dalla forte passione per i prodotti locali e tradizionali, ha deciso di recuperare le Brillenschaf a un passo dall’estinzione e, fondando un’associazione, ha contribuito fortemente al recupero di questa razza autoctona (oggi presidio Slow Food) lavorando a stretto contatto con i contadini della zona, quintuplicati in pochi anni. 



La lana della pecora con gli occhiali è una delle più rinomate delle razze ovine alpine, lavorata dalle donne della valle, specializzate nella produzione di pantofole e berretti. Si è stati così in grado di recuperare anche le tradizionali tecniche di lavorazione dell’uncinetto e dell’infeltrimento della lana cardata e, perché no, unendole anche alle proprietà di altri prodotti. È il caso, per esempio, dei trucioli di cirmolo che, combinati con la lana, hanno la proprietà di abbassare il battito cardiaco e regalare sonni sereni.

Qui tutta la storia di Oskar Messner.
Hannes Rainer a Racines


Più avanti poco più in là, in Valgiovo, sorge Racines, anch’essa rientrante nella cooperativa alpina Alpine Pearls. Il Passo del Giovo divide le Alpi Breonie con Cima dell’Accia, Monte Altacroce e Cima Libera dalle Alpi Sarentine a sud.

Una vallata dai colori incredibili, campanili, saliscendi tra allevamenti, coltivazioni e fattorie didattiche, il sogno per chi vuole trascorrere una vacanza in famiglia. Qui si lavora nel rispetto assoluto dell’ambiente, tanto che Hannes Rainer è stato in grado di realizzare da sé nel suo albergo dei moderni impianti di produzione di energia termo-elettrica e di recupero dell’energia di raffreddamento.

Un impianto a biomassa, una centrale termoelettrica a blocco e un sistema di recupero energia di raffreddamento: Hannes, figlio delle Alpi, è l’esempio classico di come i giovani possano far crescere e far brillare di luce propria il territorio nel quale sono nati e proteggerlo nell’ottica del recupero dei legami comunitari.



Nel garage del suo albergo è a disposizione una stazione di ricarica per auto elettriche o ibride plug-in, le stanze odorano dell’inconfondibile profumo di pino cembro e la piscina non ha cloro ma si pulisce tramite “elettrolisi salina”, che garantisce la disinfezione dell’acqua tramite il sale e impedisce la formazione di alghe.

L’Alto Adige non si smentisce, la sua gente sa come mantenerla viva e verde, rispettosa di ogni essere che calpesti la sua terra!

fonte: https://www.greenme.it

Glifosato: Monsanto accusata di dati falsi nei test di sicurezza















Non si arrestano le polemiche intorno alla questione dell’uso del glifosato. Gli studiosi si dividono fra coloro che sostengono che il famoso erbicida sia causa di molti problemi di salute e coloro che invece sono convinti che non occorra procedere a metterlo al bando.

Nel frattempo negli Stati Uniti sono emersi nuovi indizi nello scontro che vede da una parte la multinazionale Monsanto e dall’altra DeWayne Johnson. Quest’ultima è una giardiniera di 46 anni, malata di linfoma non Hodgkin, che sostiene di aver sviluppato la patologia dopo essere stata a contatto con le sostanze chimiche utilizzate per essere distribuite nei cortili delle scuole.

Secondo gli avvocati difensori di DeWayne Johnson, la donna avrebbe sviluppato la malattia proprio in seguito al contatto con il glifosato utilizzato come diserbante nell’ambito della sua attività lavorativa. Adesso i legali sostengono che Monsanto abbia reso pubblici dei dati falsi all’EPA, l’autorità statunitense che si occupa di regolarizzare la vendita di sostanze come il glifosato.

Gli avvocati fanno presente che i dati falsi potrebbero riguardare proprio il rapporto tra uso dell’erbicida e maggiore rischio di sviluppare i tumori. La vicenda si riferisce a degli episodi che sarebbero avvenuti a metà degli anni ’70.

La Monsanto si sarebbe rivolta ai laboratori di biotest industriale, per condurre delle ricerche in merito al carattere tossico del glifosato. I dati sarebbero stati richiesti proprio dall’EPA, per poter consentire la vendita proprio dell’erbicida.

Sulla base delle analisi riscontrate, il glifosato della Monsanto sarebbe stato approvato per la vendita in una prima fase a partire dal 1974. Successivamente l’EPA ha effettuato una revisione degli studi e avrebbe scoperto che i laboratori a cui si era rivolta Monsanto erano soliti falsificare i dati. Anche tre dirigenti dei laboratori di biotest industriale sarebbero stati condannati per frode.

Inoltre i legali della giardiniera fanno presente il riferimento ad altri studi condotti su animali da laboratorio tra il 1981 e il 1983, che dimostrerebbero i danni provocati dalle sostanze chimiche contenute nel diserbante.

fonte: www.greenstyle.it

Isole sostenibili: 32 realtà hanno iniziato la green revolution

Viaggio nei territori che hanno inaugurato la transizione ecologica: dalla piccola Tokelau, che oggi rischia di scomparire per l’aumento del livello del mare, alla danese Samso, completamente rinnovabile dal 2007





Per portare a termine con successo la transizione ecologica è necessario iniziare in piccolo, creare un modello funzionante e scalabile e quindi replicarlo in grande. Per questo motivo i migliori “terreni di coltura” dove fra crescere la green revolution sono le isole: sistemi unici in cui spesso la dipendenza dal continente pesa sia sul fronte energetico, che su quello idrico e dei rifiuti. In Italia abbiamo 32 isole minori abitate e non interconnesse alla rete nazionale che stanno cercando di acquisire la propria indipendenza adottando modelli sostenibili per l’approvvigionamento di energia pulita e acqua, per la gestione dei rifiuti e per una mobilità a emissioni zero. Qui esistono tutte le condizioni per valorizzare al massimo le tecnologie permetterebbero di chiudere i cicli delle risorse energetiche, idriche e dei materiali.

Tuttavia, allo stato attuale – come spiega Legambiente nel suo rapporto Isole Sostenibili (pdf) – in gran parte di questi territori sono ancora le navi a garantire che lo status quo. “Navi che portano il gasolio da bruciare nelle vecchie centrali elettriche e navi che portano acqua. Navi che ripartono portando via rifiuti di ogni tipo, in larga parte indifferenziati”.


Per questo motivo l’associazione ambientale guardare ad altre 32 realtà nel Mondo che stanno dimostrando come sia possibile cambiare e divenire modelli a livello mondiale nell’uso intelligente delle risorse locali. Trentadue isole sostenibili, dall’Atlantico al Pacifico, dal nord al sud del pianeta, che hanno scelto di puntare a un futuro al 100% rinnovabile ed ecofriendly, e in cui i risultati sono stati raggiunti valorizzando le potenzialità locali e coinvolgendo i residenti. Nella lista fanno capolino le scozzesi Orkney Islands, Eigg, Muck e Gigha, e le danesi Samso e Bornholm, accanto a Pellworm (Germania), Bonaire (Paesi Bassi), Aruba (Paesi Bassi), Tilos (Grecia), El Hierro (Spagna). Ma anche la portoghese Graciosa, Capo Verde, La Réunion (Francia), Mauritius, Mahé Island (Seychelles), Green Island nelle Filippine, Sumba (Indonesia), Cook Islands (Fiji), Lakeba, Kadavu e Rotuma (Fiji), Beqa Island (Fiji), Tokelau (Nuova Zelanda), Funafuti e Vaitupu (Tuvalu), Vava’u (Tonga), King Island (Australia), Ta’u (Samoa americane), Upolu (Samoa), Kodiak (USA), Virgin Islands (USA), Hawaii (USA), Repubblica Dominicana e Guadalupa.

Isole sostenibili, le buone pratiche da replicare

Green Island: situata tra il Mar Cinese Meridionale e il Mare di Sulu, l’isola ha solo 375 abitanti ma fino a 2 anni fa solo il 70% poteva contare su un rifornimento energetico stabile. Oggi il vecchio impianto diesel è stato rimpiazzato un sistema ibrido eolico, fotovoltaico e bioenergie (i gusci di noce di cocco) che soddisfa tutti i consumi. E le famiglie oggi pagano l’elettricità pulita, la metà di quanto pagavano prima il diesel.


Tokelau: è costituito da tre atolli madreporici situati nell’oceano Pacifico del Sud e rappresenta uno degli ecosistemi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico (il punto più alto è solo 5 metri sul livello del mare e rischia di essere sommerso dall’acqua in pochi anni). Qua olio di cocco prodotto localmente e fotovoltaico forniscono il 150% del fabbisogno elettrico, gestito sapientemente da oltre 1300 batterie. La maggior parte del lavoro di installazione dei pannelli solari è stato eseguito da manodopera locale, e la compagnia che ha fornito la tecnologia ha erogato corsi di formazione per rendere gli abitanti indipendenti anche nella manutenzione e nelle piccole riparazioni.


Aruba: il punto forte dell’isola olandese, situata nel Mar dei Caraibi, è il vasto programma di sostenibilità avviato. Con 110mila abitanti e oltre 1,5 milioni di turisti l’anno, il territorio ha adottato misure di razionalizzazione del consumo idrico, coperto quasi esclusivamente da impianti di desalinizzazione, buone pratiche sul riciclo e sul riuso per le strutture ricettive e progetti intelligenti come l’Aruba Reef Care Project, per la pulizia e la rimozione di rifiuti da spiagge e acque tramite il coinvolgimento attivo di cittadini e turisti. L’isola soddisfa buona parte del suo fabbisogno elettrico grazie a 56,4 MW eolici.


Orkney Islands: L’arcipelago delle Orcadi a nord della costa settentrionale della Gran Bretagna e comprende 70 isole, di cui solo 20 sono abitate. Oltre a due grandi impianti eolici, il territorio produce energia tramite micro turbine di comunità e pannelli solari domestici. Una rete di teleriscaldamento converte l’energia elettrica prodotta in eccesso in calore per il riscaldamento delle abitazioni e dell’acqua.


Samso: Situata nel Mar Baltico, l’isola è 100% rinnovabile sul lato dei consumi elettrici dal 2007, mentre sul fronte termico una centrale alimenta a paglia, pompe di calore e collettori solari forniscono il 75% del fabbisogno. Il sistema di trasporto locale, compresi i mezzi agricoli, è alimentato da biocarburanti prodotti localmente.


fonte: www.rinnovabili.it

Rifiuti elettronici, ecco cosa cambia. Dentro anche carte di credito e bici

Nuove regole di smaltimento dal 15 agosto. Nella lista anche prese multiple, cancelli e tende automatizzati, serrature elettriche, cavi e stufe a pellet





Del rifiuto tecnologico non si butta via nulla. Il 15 agosto entrerà in vigore la normativa che cambierà per sempre il mondo dei Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche): i prodotti che rientrano in questa definizione, infatti, diventeranno molti di più e l’elenco comprenderà tra gli altri anche carte di credito con chip, biciclette elettriche, prese multiple, cancelli e tende automatizzati, serrature elettriche, cavi e stufe a pellet. Una vera e propria rivoluzione. «La raccolta e il riciclo di Raee aumenteranno. Verranno creati – spiega Danilo Bonato, direttore generale di Remedia, società leader del settore - 15mila nuovi posti di lavoro. Verranno risparmiati 100 milioni di euro di valore economico associato alle emissioni e 1,2 miliardi di euro nell’acquisto di materie prime».

Numeri che potrebbero essere molto più alti, se la maggior parte degli italiani fosse a conoscenza del decreto ‘Uno contro zero’ del luglio 2016. Dall’estate di due anni fa, infatti, è possibile consegnare vecchi telefonini, lettori mp3, cuffiette o calcolatrici nei negozi più grandi di 400 metri quadrati senza dover comprare nulla in cambio. Per i piccoli distributori e i venditori online l’applicazione di questa norma è facoltativa. Solo i Raee che sono più piccoli di 25 centimetri e provengono da nuclei domestici possono essere rottamati a costo zero. Ma oltre 7 italiani su 10, secondo un’indagine realizzata dalla community di Friendz per Ecodom, uno dei consorzi che gestisce i Raee, non sono a conoscenza di questa possibilità. I più informati sono i residenti di Emilia Romagna, Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia: il 28,6% sa di potersi recare in un grande negozio per poter consegnare i propri gadget ormai obsoleti. E proprio nel Nord Est la percentuale di utenti che ha riconsegnato gratuitamente un vecchio apparecchio ha toccato il 36,2%.

Nel 2017, secondo l’ultimo rapporto stilato dal Centro di coordinamento Raee, sono state raccolte 385mila tonnellate di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Questo significa che ogni italiano ha mediamente riciclato 6,3 chili di questi prodotti nei 953 impiantiautorizzati (di cui 674 nel Nord Italia, 136 nel Centro e 143 nel Sud). Si tratta, in termini di volume, dell’equivalente di tre navi da crociera grandi come la Costa Concordia.

Il 78% di questi rifiuti è di origine domestica, mentre il 22 viene dal mondo delle imprese. La crescita, rispetto all’anno precedente, è stata del 6,8%. Un ottimo trend, che però non garantisce il raggiungimento dell’obiettivo fissato dalla Ue del 45%, calcolato come rapporto tra peso totale dei Raee raccolti e peso medio delle apparecchiature immesse sul mercato (in media oltre 936mila tonnellate). L’asticella dal 2019 verrà alzata al 65%. Nel 2017, l’Italia si è fermata al 41,2%.

Con l’allargamento della categoria dei Raee a partire dal 15 agosto, il traguardo europeo potrebbe allontanarsi. «Dovremo attrezzarci – conclude Bonato - per andare a raccogliere e riciclare un flusso di prodotti a fine vita molto più consistente rispetto al passato. Inoltre il decreto prevede l’obbligo di gestire anche prodotti molto diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati, come macchine industriali molto pesanti o banchi frigoriferi di grandi dimensioni». La sfida è solo all’inizio.

fonte: https://www.oftentype.info/

It’s time to detox! Dal 17 al 25 novembre la decima edizione della SERR

























Si terrà dal 17 al 25 novembre 2018 la decima edizione della Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti (SERR), che quest’anno avrà come tema centrale “I rifiuti pericolosi”. Lo annuncia il Comitato promotore nazionale della SERR, composto da CNI Unesco, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Utilitalia, Anci, Città Metropolitana di Torino, Città Metropolitana di Roma Capitale, Legambiente e AICA, con E.R.I.C.A. Soc. Coop. ed Eco dalle Città in qualità di partner tecnici. Inoltre da questa edizione si aggiunge al Comitato un nuovo membro: la Regione Sicilia.

Sarà possibile iscriversi alla SERR 2018 da sabato 1 settembre a mercoledì 31 ottobre collegandosi al sito www.ewwr.eu e registrando la propria azione. Per maggiori informazioni sulle modalità d’iscrizione verrà anche attivata una pagina dedicata sul sito www.envi.info.

Il tema prescelto per quest’anno sarà “Prevenire e gestire i rifiuti pericolosi”. Per “Rifiuto pericoloso” si intende un rifiuto che al suo interno contiene proprietà dannose per l’ambiente, come parti esplosive, infiammabili o tossiche. Tali sostanze si possono trovare (in piccole o grandi quantità ) in molti prodotti come cosmetici, batterie, vernici, pesticidi, lampadine e RAEE (Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Questi rifiuti rappresentano più di altri un rischio per l’ambiente e la salute umana. Per questo diventa importantissimo eliminare o quantomeno ridurre più possibile la quantità di sostanze pericolose presenti nei prodotti, sia quelli utilizzati dall’industria nei propri processi, sia quelli con cui entriamo in contatto come consumatori.



Secondo i dati della EEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) ciascuno cittadino europeo genera 200 kg di rifiuti pericolosi all’anno: parliamo di 100 milioni di tonnellate, e un quinto di questi sono prodotti in casa.

Maggiori informazioni su com’è strutturata la SERR e sulle modalità d’adesione saranno fornite sulla pagina Facebook ufficiale dedicata all’evento o scrivendo a serr@envi.info, insieme ad esempi pratici di possibili azioni da implementare. Gli hashtag creati per la campagna sono #EWWR18 #SERR18 e #TimeToDetox

La “Settimana Europea per la Riduzione dei Rifiuti” è nata all’interno del Programma LIFE+ della Commissione Europea con l’obiettivo primario di sensibilizzare le istituzioni, gli stakeholder e i consumatori circa le strategie e le politiche di prevenzione dei rifiuti delineate dall’Unione Europea e che gli Stati membri sono chiamati ad attuare.



Il crescente successo dell’iniziativa, riconosciuta a livello istituzionale dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ha portato l’Italia nel 2017 a registrare 4.422 azioni, riconfermandosi così tra le nazioni top in Europa.

Anche per il 2018 l’obiettivo sarà coinvolgere il più possibile Pubbliche Amministrazioni, Associazioni e Organizzazioni no profit, Scuole, Università, imprese, Associazioni di categoria e singoli cittadini a proporre azioni volte a prevenire, ridurre o riciclare correttamente i rifiuti a livello nazionale e locale.

Ulteriori dettagli sulle precedenti edizioni sono disponibili sul sito internet ufficiale italiano www.menorifiuti.org.

fonte: http://www.envi.info

Mike Reynolds: l' "Architetto dei rifiuti"

Chi è l'uomo che ha dedicato la sua vita all’audace progetto della Earthship Biotecture





Cosa hanno in comune lattine di birra, pneumatici per auto e bottiglie d'acqua?
Non molto, a meno che tu non sia l'architetto Michael Reynolds. In quel caso sono materia prima per realizzare delle soluzioni abitative che, benchè siano costruite interamente con materiali di scarto, mostrano un'estetica appariscente, dalle colorazioni vivaci e cangianti, alla stregua dei padiglioni del Park Güell di Gaudì a Barcellona.

Noto anche come "Architetto dei Rifiuti", ambientalista e appassionato di edilizia ecosostenibile, l’architetto (o auto-proclamato 'biotect') americano Michael Reynolds, è infatti ben conosciuto per aver inventato le sue "Earthships" (conosciute anche come “Navicelle della terra” o “Navi del Deserto” ), un progetto ambizioso e innovativo diventato il suo credo, una vera filosofia di vita che elevò Reynolds, alla stregua di star dell'architettura sostenibile globale.

Lo studio del progetto iniziò già nel 1969, e nel 1972, Michael Reynolds realizzò la prima casa ecosostenibile, la Thumb House, simile come concetto alla tipologia di casa prefabbricata ecosostenibile. La Thumb house assemblava terra cruda con diverse tipologie di materiali di riciclo – dalle lattine di birra alle bottiglie di plastica, dall'alluminio agli pneumatici usati delle auto – avviando una costruzione abitativa completamente a costo zero grazie all’impiego di materiali che altrimenti andrebbero dispersi in natura.



Durante i primi anni che seguirono la costruzione della prima Earthship, la filosofia di Reynolds ebbe un enorme successo sul mercato delle abitazioni ecosostenibili. Ben presto però, cominciarono a svilupparsi numerose problematiche su difetti di fabbricazione, portando avanti delle cause che indussero il Consiglio di Stato degli Architetti del New Mexico a togliere a Michael Reynolds il titolo di architetto e le licenze di costruzione. Le costruzioni di Reynolds furono improvvisamente giudicate illegali e mancanti dei requisiti di sicurezza, resistenza e durevolezza.

Solo 17 anni dopo, Reynolds riuscì a riavere titolo e licenze, potendo ricominciare a costruire il progetto di una vita: la realizzazione della Phoenix, un'abitazione completamente ecosostenibile, realizzata dopo lo tsunami del 2004 in Indonesia.
L'innovativa abitazione permetteva di azzerare completamente i costi energetici di acqua, luce e gas, oltre alla possibilità di produrre prodotti vegetali per soddisfare il fabbisogno primario del mangiare – soprattutto in situazioni di difficoltà – grazie a un orto integrato all'abitazione.

Un concetto di casa rivoluzionario, come rivoluzionaria è stata la vita di Reynolds e la sua audace battaglia nel portare avanti le sue idee contro il sistema e la legge.
Costruzioni radicali ma possibili, e soprattutto auspicabili per fronteggiare la scarsità delle risorse energetiche, ripensando il mondo di abitare, in linea con i diversi eventi naturali.



















fonte: https://www.archiportale.com

PAPERINO E L'ECOLOGIA (Lo Sporcaccione)

Il classico cortometraggio Disney nella stupenda versione italiana di Roberto De Leonardis con la voce narrante di Pino Locchi. Quasi 50 anni fa Walt Disney aveva già capito il problema dei rifiuti.

rifiuti






nunval

Al via la campagna estiva contro l’abbandono dei rifiuti



Dal 10 luglio al 10 settembre FISE Assoambiente promuove la seconda edizione della campagna #NoLittering, Non abbandonarmi!, contro l’abbandono dei rifiuti. Quest’anno l’iniziativa, patrocinata dal Ministero dell’Ambiente, coinvolgerà i cittadini sui social

Estate, tempo di vacanze e di rifiuti! Ma tutti possono contribuire a un cambio di passo. Per questo, il 10 luglio, parte #NoLittering, Non abbandonarmi!, una campagna attiva sul territorio e presente sui social contro l’abbandono dei rifiuti, promossa da FISE Assoambiente, l’Associazione delle imprese che operano nei servizi di igiene ambientale, recupero e smaltimento dei rifiuti e delle bonifiche, con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente.

È l’abbandono in aree pubbliche di piccoli rifiuti come cartacce, bottiglie, gomme da masticare e mozziconi di sigarette il focus di #NoLittering. Lo scorso anno l’iniziativa lanciata sui social network ha raggiunto quasi 180.000 persone, motivo per il quale quest’anno, per rendere davvero social la propria iniziativa, cioè in grado di coinvolgere e promuovere nuovi comportamenti virtuosi, l’Associazione ha deciso di integrare gli strumenti digitali con iniziative concrete sul territorio.

Quindi, oltre alla campagna sui social network attraverso immagini e brevi video didascalici, il progetto coinvolgerà gli utenti invitandoli a immortalare concrete azioni di pulizia e di rimozione di rifiuti propri o di altri attraverso la pubblicazione di foto, taggando l’Associazione e indicando gli hashtag #pulisci&scatta #NoLittering.

FISE Assoambiente, inoltre, individuerà e adotterà tre luoghi di interesse turistico nel nord, nel centro e nel sud della Penisola, in cui promuoverà fisicamente la campagna mettendo a disposizione buste per le azioni di pulizia.

«Il fenomeno del littering, l’abbandono di piccoli rifiuti senza far uso degli appositi contenitori – osserva il Direttore FISE Assoambiente Elisabetta Perrotta – è un atteggiamento particolarmente evidente nel periodo estivo, soprattutto nelle zone ricreative e nei luoghi di transito; atteggiamento che costringe molti comuni in Italia a investire cifre consistenti per gestire i rifiuti e mantenere puliti gli spazi pubblici».

È per questo, spiega Perrotta, che FISE Assoambiente ha deciso di ampliare la campagna, rinnovandola e puntando sui social per dare più visibilità all’impegno concreto dei cittadini sul territorio: «Siamo convinti che per proteggere l’ambiente sia fondamentale il contributo dei cittadini, attraverso comportamenti più ecosostenibili tesi a inserire i rifiuti nella filiera dell’economia circolare».

La campagna durerà due mesi, fino al 10 settembre, e sarà visibile sui canali social Assoambiente, oltre che sul sito www.assoambiente.org , dove sarà disponibile per tutti gli utenti un approfondimento dedicato al tema #nolittering.

fonte: La Stampa

Impianti di trattamento rifiuti e rischi di incidenti rilevanti

È necessario che gli impianti di trattamento rifiuti verifichino l’assoggettabilità alla normativa Seveso














I numerosi incidenti che si sono verificati all’interno di aziende di gestione rifiuti, sia in Toscana che sul territorio nazionale, e la nuova normativa in materia di classificazione di sostanze pericolose (D.Lgs 105/2015), rendono cruciale la questione di verificare l’assoggettabilità o meno di tali attività alla normativa Seveso.
La definizione di Incidente Rilevante fornita dalla norma (art. 3, comma 1, lett. “o” D.Lgs 105) evidenzia inoltre la necessità per alcune tipologie di impianti di trattamento rifiuti, indipendentemente all'assoggettabilità alla normativa Seveso, di adottare misure di prevenzione e di valutare gli effetti di possibili incidenti – che hanno caratteristiche di rilevanza, come sopra indicato – con le metodologie impiegate per gli stabilimenti “Seveso”.
Negli ultimi anni la normativa europea in materia di sostanze pericolose è stata completamente aggiornata con l’entrata in vigore dei Regolamenti CE/1907/2006 (REACH) e CE/1272/2008 (CLP), disposizioni trasversali che interessano aziende di tutti i settori e dimensioni. I due regolamenti sono complementari:
  • il REACH richiede che le sostanze non possano essere fabbricate, immesse sul mercato o utilizzate nell’UE se il soggetto responsabile non ne ha precedentemente valutato la pericolosità, i rischi per l’uomo e l’ambiente e se non ha individuato opportune misure per la gestione del rischio e definito le relative procedure;
  • il CLP definisce criteri e procedure per la classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio di sostanze e miscele pericolose.
Una sostanza o una miscela, quindi, sono “pericolose” se è possibile attribuire loro un’indicazione di pericolo H, secondo i criteri definiti dal Regolamento CLP.
Rifiutirifiuti sono esplicitamente esclusi dalla normativa relativa alle sostanze pericolose; tuttavia essi sono costituiti da sostanze o, più frequentemente, da miscele di sostanze, alcune delle quali possono essere pericolose e pertanto presentare per le loro proprietà intrinseche un rischio “rilevante” per la salute delle persone e per l’ambiente.
Di recente a livello europeo con il Regolamento 2014/1357/UE, e successive modifiche e integrazioni (Regolamento (UE) 2017/997 del Consiglio e Comunicazione 2018/1447 sopra citata) sono stati introdotti nuovi criteri di classificazione dei rifiuti, che vanno nella direzione dell’allineamento con quanto previsto per le sostanze e le miscele “non rifiuti”. In particolare ai rifiuti sono assegnate delle proprietà di pericolo (da HP1 a HP15), in base alle caratteristiche di pericolo possedute e riconducibili, in ultima analisi, alla natura ed alla concentrazione delle sostanze in essi contenute.
A titolo di esempio, il Regolamento definisce, per attribuire la HP6 “Tossicità acuta”, un limite di concentrazione per l’assegnazione della proprietà pericolosa ed una concentrazione soglia, al di sotto della quale una sostanza non viene presa in considerazione ai fini della raggiungimento del limite di concentrazione per l’assegnazione sopra indicato.
Di seguito si riportano le nuove Classi di pericolosità dei rifiuti, vigenti dal 1 giugno 2015 (vedi il Regolamento 2014/1357/UE sopra citato):
  • HP 1 "Esplosivo": rifiuto che può, per reazione chimica, sviluppare gas a una temperatura, una pressione e una velocità tali da causare danni nell’area circostante. Sono inclusi i rifiuti pirotecnici, i rifiuti di perossidi organici esplosivi e i rifiuti autoreattivi esplosivi;
  • HP 2 "Comburente": rifiuto capace, in genere per apporto di ossigeno, di provocare o favorire la combustione di altre materie;
  • HP 3 " Infiammabile":
    • rifiuto liquido infiammabile: rifiuto liquido il cui punto di infiammabilità è inferiore a 60°C oppure rifiuto di gasolio, carburanti diesel e oli da riscaldamento leggeri il cui punto di infiammabilità è superiore a 55 °C e inferiore o pari a 75 °C;
    • rifiuto solido e liquido piroforico infiammabile:rifiuto solido o liquido che, anche in piccole quantità, può infiammarsi in meno di cinque minuti quando entra in contatto con l’aria;
    • rifiuto solido infiammabile: rifiuto solido facilmente infiammabile o che può provocare o favorire un incendio per sfregamento;
    • rifiuto gassoso infiammabile: rifiuto gassoso che si infiamma a contatto con l’aria a 20 °C e a pressione normale di 101,3 kPa;
    • rifiuto idroreattivo: rifiuto che, a contatto con l’acqua, sviluppa gas infiammabili in quantità pericolose;
    • altri rifiuti infiammabili: aerosol infiammabili, rifiuti autoriscaldanti infiammabili, perossidi organici infiammabili e rifiuti autoreattivi infiammabili.
  • HP 4 "Irritante": rifiuto la cui applicazione può provocare irritazione cutanea o lesioni oculari;
  • HP 5 "Nocivo": rifiuto che può causare tossicità specifica per organi bersaglio con un’esposizione singola o ripetuta, oppure può provocare effetti tossici acuti in seguito all’aspirazione;
  • HP 6 "Tossico": rifiuto che può provocare effetti tossici acuti in seguito alla somministrazione per via orale o cutanea, o in seguito all’esposizione per inalazione;
  • HP 7 "Cancerogeno": rifiuto che causa il cancro o ne aumenta l’incidenza;
  • HP 8 "Corrosivo": rifiuto la cui applicazione può provocare corrosione cutanea;
  • HP 9 "Infettivo": rifiuto contenente microrganismi vitali o loro tossine che sono cause note, o a ragion veduta ritenuti tali, di malattie nell’uomo o in altri organismi viventi;
  • HP 10 "Teratogeno": rifiuto che ha effetti nocivi sulla funzione sessuale e sulla fertilità degli uomini e delle donne adulti, nonché sullo sviluppo della progenie;
  • HP 11 "Mutageno": rifiuto che può causare una mutazione, ossia una variazione permanente della quantità o della struttura del materiale genetico di una cellula;
  • HP 12 "Liberazione di gas a tossicità acuta": rifiuto che libera gas a tossicità acuta (Acute Tox. 1, 2 o 3) a contatto con l’acqua o con un acido;
  • HP 13 "Sensibilizzante": rifiuto che contiene una o più sostanze note per essere all’origine di effetti di sensibilizzazione per la pelle o gli organi respiratori;
  • HP 14 "Ecotossico": rifiuto che presenta o può presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali;
  • HP 15 "Rifiuto che non possiede direttamente una delle caratteristiche di pericolo summenzionate ma può manifestarla successivamente": rifiuto che presenta o può presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali.
Una sintesi delle fonti di dati e informazioni sulle sostanze pericolose, con particolare riferimento alla classificazione dei rifiuti, è riportata in allegato 2 alla Comunicazione della Commissione UE — Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti – C/2018/1447.
La normativa Seveso III, in modo più esplicito rispetto al passato, inserisce anche i Rifiuti tra le sostanze/miscele che concorrono al raggiungimento delle soglie che determinano l’assoggettabilità al campo di applicazione della suddetta normativa. In particolare la Nota 5 all'Allegato 1 del D.Lgs 105/2015 riporta che “Le sostanze pericolose che non sono comprese nel regolamento CLP (CE) n. 1272/2008, compresi i rifiuti, ma che si trovano o possono trovarsi in uno stabilimento e che presentano o possono presentare, nelle condizioni esistenti in detto stabilimento, proprietà analoghe per quanto riguarda la possibilità di incidenti rilevanti, sono provvisoriamente assimilate alla categoria o alla sostanza pericolosa specificata più simile, che ricade nell’ambito di applicazione del presente decreto”.
Estratto dal documento Questions & Answers Seveso-III-Directive 2018 v1 Ares(2018)1656198 - 26/03/2018
Nell'immagine sopra si riporta un estratto dal documento Questions & Answers Seveso-III-Directive 2018 v1 Ares(2018)1656198 - 26/03/2018
I rifiuti devono essere trattati sulle base delle loro proprietà come una miscela. Se la classificazione non può essere effettuata attraverso le procedure definite dal Regolamento CLP, possono essere utilizzate altre fonti, quali ad esempio: informazioni relative all'origine del rifiuto, esperienza pratica, metodi di prova, classificazione ai fini del trasporto (es. ADR, in particolare per l’assegnazione dei pericoli fisici), o classificazione secondo la normativa europea sui rifiuti (Directive 2012/18/EC – Seveso III, Questions & Answers - Ref. Ares(2018)1656198 - 26/03/2018).
Al fine di valutare la propria posizione rispetto alla normativa per la prevenzione degli incidenti rilevanti, i gestori degli stabilimenti in questione hanno l’obbligo di valutare l’assoggettabilità alla normativa “Seveso” attribuendo, alle sostanze pericolose potenzialmente presenti, la categoria più simile contemplata nella citata normativa.
Tale approccio è confermato anche dalla Comunicazione della Commissione — Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01).
A margine di ricorda che l’omessa presentazione della notifica di cui all'articolo 13, comma 1, o il Rapporto di Sicurezza di cui all'articolo 15 o di redigere il documento di cui all'articolo 14, è punita con l'arresto fino ad un anno o con l’ammenda da euro quindicimila a euro novantamila.
Un esempio applicativo riguarda le scorie pesanti prodotte nei termovalorizzatori di RSU, che presentano una potenziale ecotossicità (HP14), recentemente classificata con test di laboratorio come H412 (Aquatic chronic 3), classe di pericolo non rientrante nella Seveso. La conseguenza di ciò è stata l'esclusione dei suddetti termovalorizzatori dalla Seveso.
Tenendo di conto di quanto previsto dal D.Lgs 105/2015, assume rilevanza centrale per gli impianti di trattamento rifiuti la necessità di verificare l’assoggettabilità alla normativa Seveso. Sebbene tali verifiche possano condurre, nella maggioranza dei casi, all’esclusione di tali stabilimenti dall’applicazione della normativa Seveso, si ribadisce la necessità, da parte dei gestori, di individuare ed adottare adeguate misure tecniche impiantistiche e gestionali analoghe a quelle già attuate negli stabilimenti ad alto rischio, nell’ottica di prevenire il verificarsi di incidenti che, pur non riguardando impianti ricadenti in Seveso, possono essere considerati incidenti rilevanti ed hanno probabilità di accadimento estremamente elevate (mediamente 10-1)
Per approfondire si vedano precedenti Arpatnews sul tema:
Riferimenti:

fonte: http://www.arpat.toscana.it