Rifiuti marini: riciclo beach litter possibile, le novità da Ecomondo














Sono perlopiù cotton fioc, oggetti e imballaggi sanitari, frammenti plastici, tappi e cannucce tra i rifiuti marini più presenti. A denunciarlo sono i risultati delle indagini sul “Beach litter” presentate a Ecomondo 2017 e promosse dall’Istituto per la Promozione delle Plastiche da Riciclo in collaborazione con Legambiente ed ENEA. Nel documento viene inoltre evidenziato quanto in molti spesso non sanno, ovvero che tali materiali potrebbero essere avviati al riciclo con ripercussioni positive sia economiche che ambientali.
La presentazione del rapporto ha rappresentato un punto d’incontro tra istituti di ricerca, associazioni e imprese sulla “caratterizzazione del beach litter presente sulle spiagge”, così da poter poi sviluppare un piano di riciclo per questi materiali. Necessario inoltre individuare modalità efficaci di sensibilizzazione rivolte a consumatori e imprese, affinché prestino maggiore attenzione alla gestione quotidiana dei rifiuti. Fondamentale sradicare cattive abitudini come il gettare i cotton fioc nel water o richiamare a una più sostenibile gestione dei pellet di plastica per la pre-produzione industriale.
Sulla base dei campionamenti effettuati dai tecnici di Goletta Verde, iniziativa operata da Legambiente, i ricercatori hanno evidenziato come la percentuale di plastica rinvenuta nel “beach litter” sia superiore al 90% in entrambi i punti di prelievo del litorale tirrenico (la spiaggia di Coccia di Morto in Provincia di Roma e la spiaggia della Feniglia in Provincia di Grosseto).
Come riportato nello studio i campioni raccolti rispecchiano le “specificità delle due spiagge”, che hanno caratteristiche differenti per: tipologia; flusso di bagnanti; vicinanza ad insediamenti urbani/industriali; facilità di accesso. Polipropilene (PP) e Polietilene (PE) i polimeri plastici maggiormente presenti, che insieme costituiscono rispettivamente il 79% (Coccia di morto) e il 66% del totale (Feniglia). Come ha dichiarato Angelo Bonsignori, presidente IPPR e direttore generale Federazione Gomma-Plastica:
Lo studio rappresenta solo il primo passo per affrontare il problema del beach litter. Abbiamo recentemente costituito il “Tavolo permanente per il riciclo di qualità” per analizzare, anche attraverso il coinvolgimento delle aziende di riciclo, la concreta fattibilità di recupero dei materiali presenti sulle nostre spiagge.
Specialmente per quella frazione degradata o composta da diversi polimeri che non possono tornare tal quali nelle rispettive filiere. Intendiamo inoltre promuovere una prima campagna di raccolta del beach litter in alcuni Comuni costieri in accordo con le Amministrazioni e studiare la realizzazione di un impianto pilota per il riciclo di questi materiali.
A margine della presentazione è intervenuto anche Loris Pietrelli, ricercatore ENEA, che ha dichiarato:
Quelli che erano i punti di forza delle plastiche, leggerezza, durabilità e costi contenuti oggi rappresentano il limite di questi materiali che permangono nell’ambiente per decenni prima che si degradino. Comunque è importante ricordare che non si può demonizzare la plastica, perché con questo termine si identificano centinaia di materiali polimerici, con caratteristiche molto diverse, di cui non possiamo più fare a meno.
Il risultato principale di questa prima ricerca riguarda la composizione dei materiali raccolti. La netta prevalenza di materiali termoplastici quali polietilene e polipropilene, facilita il recupero ed il riutilizzo del materiale spiaggiato.
È necessario inoltre ricordare che le plastiche arrivano da terra e quindi sono il risultato di una cattiva gestione dei rifiuti solidi urbani. Ad esempio, l’enorme quantità di cotton fioc rinvenuta lungo le spiagge rappresenta un “caso” emblematico soprattutto se si pensa che nei primi anni del 2000 la commercializzazione dei bastoncelli non biodegradabili era vietata.
Un invito a prendere in sempre maggiore considerazione il problema del beach litter arriva da Stefano Ciafani, direttore generale Legambiente, che sottolinea l’importanza assoluta di una corretta sensibilizzazione al riguardo:
Questo studio rappresenta una prima importante collaborazione tra istituti di ricerca, associazioni e imprese per affrontare il problema del marine litter. Un fenomeno che sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti come ha dimostrato anche la Conferenza mondiale sugli Oceani organizzata dall’ONU a cui abbiamo partecipato, raccontando la nostra esperienza di monitoraggi scientifici considerata come una delle esperienze più avanzate al mondo della citizen science.
Purtroppo la cattiva gestione dei rifiuti e l’abbandono consapevole restano le principali cause del fenomeno. Al tempo stesso i dati evidenziano come buona parte di questi rifiuti potrebbero essere riciclati.
I risultati, sebbene preliminari, mostrano dati incoraggianti circa la qualità del blend ottenuto mescolando i rifiuti spiaggiati. Una novità assoluta che dimostra come sia fondamentale sia prevenire il problema attuando campagne di sensibilizzazione, sia lavorando sull’innovazione di processo e di prodotto e sull’avvio di una filiera virtuosa del riciclo.

fonte: www.greenstyle.it

Bolzano: tariffa rifiuti per utenze domestiche


Firmato un piano mondiale per garantire la salute pubblica. Unfccc e Oms insieme alla Cop 23 di Bonn

Oms e Unfccc hanno siglato alla Cop 23 di Bonn un Protocollo d’intesa per cooperare in materia di tutela della salute di fronte alle mutazioni del clima.















Unire le forze al fine di rispondere in modo efficace all’impatto che la crescita della temperatura media globale avrà sulla salute della popolazione mondiale. Il tutto aiutando le singole nazioni (in particolare quelle più vulnerabili) ad adottare i provvedimenti necessari. È questo l’obiettivo del Protocollo d’intesa firmato dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) nel corso della Cop 23 di Bonn.

“La protezione della salute è un pilastro dello sviluppo sostenibile”

Oms e Unfccc puntano in questo senso a vigilare affinché “tutti gli stati che attualmente risultano dotati di strutture sanitarie insufficienti possano ricevere un sostegno adeguato per proteggere i loro abitanti e rafforzare la loro resilienza di fronte alle minacce incombenti”. Non a caso, il Protocollo riconosce che “la protezione e il miglioramento della salute pubblica costituiscono un pilastro dello sviluppo sostenibile”. “Sono particolarmente felice del fatto che la collaborazione tra i nostri due istituti possa fare un salto di qualità, spingendoci ancor di più verso l’azione. L’Accordo di Parigi richiede che si uniscano tutte le forze al fine di tutelare la salute della popolazione mondiale”, ha commentato Patricia Espinosa, segretaria esecutiva dell’Unfccc.

clima salute oms

Organizzazione mondiale della Sanità e Unfccc hanno siglato alla 
Cop 23 di Bonn un protocollo per tutelare la salute di fronte ai 
cambiamenti climatici 
©Chris Hondros/Getty Images

La dirigente ha ricordato inoltre come per molte persone i rischi sanitari siano già aumentati a causa dei cambiamenti climatici: “Dall’inquinamento alle ondate di caldo eccezionale, dalla contaminazione delle fonti di acqua potabile agli eventi meteorologici estremi: numerosi fenomeni colpiscono già in tutto il mondo”. Le due organizzazioni hanno sottolineato, in questo senso, il fatto che a causa delle mutate condizioni del clima si potrebbero registrare circa 250mila morti in più ogni anno tra il 2030 ed il 2050, rispetto ai livelli attuali. Malnutrizione, diarrea e malaria rappresenteranno alcune delle principali cause dei nuovi decessi.

Oms e Unfccc coinvolgeranno professionisti della salute, politici e società civile

Il nuovo Protocollo, hanno aggiunto Oms e Unfccc, punta ad offrire un quadro comune per una collaborazione strategica. Verrà rafforzata così la capacità di mobilitazione, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Saranno forniti consigli sui rischi sanitari e promosse iniziative di mitigazione e adattamento, coinvolgendo i decisori politici, i professionisti della salute e la società civile. Le due organizzazioni hanno infine promesso che i progressi che saranno via via realizzati in ciascuna nazione verranno monitorati e misurati, al fine di consentirne una continua valutazione.

fonte: www.lifegate.it

Arriva l’acqua in bottiglia di vetro al supermercato. Le nuove minerali premium di Carrefour Selection e Unes Il Viaggiator Goloso dicono addio alla plastica


















Dopo il ritorno del vuoto a rendere, spunta anche l’acqua minerale in bottiglia di vetro nei supermercati. A parlarne è un articolo di Retail Watch. A puntare sul vetro sono due catene, l’italiana Unes e la francese Carrefour, che hanno messo sul mercato due acque top gamma in bottiglia di vetro da 75 cc. Da Unes si potrà trovare l’acqua minerale di sorgente alpina a marchio Il Viaggiator Goloso a 0,85 euro, mentre quella di Carrefour, presentata al Salone dei fornitori Carrefour 2017, farà parte della linea top Selection.
È possibile che le due catene abbiano scelto di imbottigliare in vetro le acque vendute con i propri marchi di alta gamma semplicemente per valorizzare al meglio il prodotto. Tuttavia, in questo modo si contribuisce a togliere dal mercato parte dell’enorme quantità di bottiglie in Pet attualmente in circolazione.


 

In futuro, se i 12 mesi di sperimentazione del vuoto a rendere – inizialmente limitato a bar, ristoranti e altri luoghi di somministrazione di bevande al pubblico – saranno un successo, non si può escludere che il sistema verrà esteso anche a negozi e supermercati, dove i consumatori potranno restituire le bottiglie di vetro una volta svuotate. Questo modello è utilizzato con successo in Germania da oltre 10 anni, dove nei supermercati sono stati allestiti degli spazi appositi per la restituzione delle bottiglie – rigorosamente in vetro – vuote. In cambio il consumatore riceve un buono sconto o una promozione, come strumento per incentivare la restituzione dei vuoti.
Fonte immagini: Retail Watch

fonte: http://www.ilfattoalimentare.it

Sacchetti per frutta e verdura: Coop Svizzera lancia le Multi-Bag riutilizzabili in alternativa alle buste di plastica usa e getta


















L’arrivo dei sacchetti biodegradabili e compostabili per frutta e verdura scatterà il 1° gennaio 2018 e sono in molti a suggerire possibili alternative alle buste monouso fornite a pagamento dai supermercati. Le ipotesi sono varie e Il Fatto Alimentare ha provato a riassumere in questo articolo. Una bella iniziativa all’insegna del risparmio e della sostenibilità arriva dalla Coop Svizzera, che dal 6 novembre ha messo a disposizione buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate Multi-Bag, in alternativa ai sacchetti di plastica distribuiti gratuitamente.
Si tratta di sacchetti a retina, riutilizzabili e lavabili in lavatrice a 30°C, su cui si possono attaccare e staccare le etichette con il prezzo dei prodotti acquistati. Per evitare di pagare anche il peso del sacchetto (27 g), basta pesare frutta e verdura sulla bilancia, imbustare e incollare l’etichetta sulla retina. In una sola busta si possono mettere prodotti diversi, ad esempio mele e banane o arance e cavolfiori e aggiungere le etichette con i prezzi .



Le Multi-Bag sono buste riutilizzabili, su cui si possono attaccare e staccare  le etichette con il prezzo della frutta e della verdura

Le Multi-Bag, certificate da Oecoplan e sostenute dal WWF, sono realizzate in Lenzing-Modal®, una fibra a base di cellulosa ricavata da legno di faggio sminuzzato. Questo materiale proviene dalla gestione sostenibile di foreste dell’Europa Centrale ed è certificato FSC (Forest Stewardship Council). Coop Svizzera vende a 4,95 franchi (circa 4,55 €) un set composto da 3 sacchetti (1,52 € l’uno).
Per offrire un’alternativa ecostostenibile alle buste di plastica usate sino ad ora, La cooperativa ha scartato l’ipotesi di sostituire i vecchi sacchetti di plastica con quelli biodegradabili.“Siamo scettici sull’utilizzo dei cosiddetti sacchetti di plastica bio per diversi fattori. – spiega Coop Svizzera –  I sacchetti di plastica biologici spesso sono prodotti con amido di mais, che fa concorrenza alla produzione di generi alimentari e di mangimi per animali. Quindi non derivano da agricoltura biologica, ma piuttosto da una agricoltura industriale non sostenibile e contengono una percentuale di plastica derivante da petrolio (essenziale per la resistenza). La definizione di  “bioplastica” suggerisce al cliente qualcosa che il prodotto non contiene.”
Dai supermercati Lidl arriva un’altra possibile soluzione al problema delle etichette del prezzo che non essendo biodegradabili dovrebbero essere staccate dalle nuove buste bio prima di essere utilizzare come sacchetto per il rifiuto organico domestico. La legge italiana che introduce i sacchetti biodegradabili per ortofrutta a pagamento non obbliga gli esercenti a utilizzare etichette compostabili. Nella catena di discount la questione non si pone: frutta e verdura vengono pesate alla cassa e il prezzo riportato direttamente sullo scontrino senza bisogno di attaccare bollini sui sacchetti.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Rifiuti, proposta M5s in legge di Bilancio: “Stop sussidi alla chimica. Quelle risorse a chi ricicla la plastica meno nobile”

Le quantità crescenti del così detto plasmix, la parte meno nobile della raccolta differenziata della plastica, oggi viene spesso incenerita o sepolta in discarica perché difficile o addirittura impossibile da riciclare. Gli emendamenti dei Cinque Stelle (con probabile appoggio del Pd) puntano ad aiutare aziende virtuose e Comuni che le trasformano in nuovi prodotti. Le risorse? Dall'abolizione dei sussidi dati oggi alle aziende chimiche. Ma potrebbe non bastare













I soldi per agevolare il riciclo delle plastiche difficili da rigenerare e, prima ancora, per prevenire la loro produzione, potrebbero arrivare dall’abolizione dei sussidi alla chimica per l’agricoltura. Via l’Iva agevolata di cui oggi beneficiano i fitofarmaci e gli additivi per i mangimi animali e risorse trasferite a favore delle aziende che acquistano rifiuti plasticimeno nobili per trasformarli in nuovi prodotti e di quelle che investono per arrivare a materiali più facili da gestire. L’idea è alla base di una serie di emendamenti alla legge di Bilancio presentati al Senato dal Partito democratico e dal M5s e che quindi, visto l’accordo tra le due forze politiche, potrebbero almeno alcuni ricevere il via libera delle Camere.
Soffocati dalla plastica – Tutto parte da un problema non di poco conto: le quantità crescenti del così detto plasmix, la parte meno nobile della raccolta differenziata della plastica, che oggi viene spesso incenerita o sepolta in discarica perché difficile o addirittura impossibile da riciclare. Tolte le bottiglie dell’acqua minerale (Pet) e i flaconi di shampoo e bagnoschiuma (polietilene), che rappresentano i materiali più preziosi, circa il 50% che rimane è infatti costituito da contenitori in polimeri diversi. Avviarli a seconda vita non è scontato: in provincia di Pisa, nei capannoni della Revet una parte viene rigenerata per produrre per esempio arredi urbani o, mischiata alla sansa di oliva, piani per banchi di scuola. Ma escluse alcune esperienze virtuose, il grosso di questi scarti continua a rappresentare un problema. Sono infatti le montagne di rifiuti che, come denunciato anche da Anci al ministero dell’Ambiente questa estate  e poi di nuovo dalle aziende lombarde e dall’associazione Assorecuperi poche settimane fa, stanno ingolfando i piazzali delle imprese del settore. In attesa di essere smaltiti non si sa dove, visto che per loro non è facile trovare posto nemmeno nei forni o nelle discariche. Mentre tra aumento dei prodotti monodose e la richiesta di confezioni che allunghino la vita degli alimenti, questi tipi di packaging aumentano di anno in anno.
Stefano Vignaroli (M5s)
Sconti per aziende virtuose e Comuni – A maggio scorso, il deputato dei 5 stelle Stefano Vignaroli ha presentato una proposta di legge per  sovvenzionare il riciclo di queste plastiche meno nobili. La fine della  legislatura però si avvicina e le prospettive di un via libera prima delle elezioni si riducono, nonostante ci sia sul tema l’accordo con il Pd (e la deputata dem Stella Bianchi stia a sua volta lavorando a un testo simile). Così, i due partiti si muovono per inserire i diversi provvedimenti del testo nella legge di Bilancio. Gli emendamenti che i 5 stelle presenteranno al Senato riguardano prima di tutto il credito d’imposta (nella proposta di legge è del 50%) per le imprese che acquistano plasmix da riciclare e un fondo (l’ipotesi è di almeno 200 milioni) per gli enti pubblici che acquistano arredi urbani per aree verdi e parchi prodotti con questi materiali. Misure a cui si aggiunge un altro provvedimento oggetto di un emendamento al decreto fiscale, in discussione in Parlamento dal 15 novembre: qui si introduce l’estensione delle agevolazioni sul costo dell’elettricità, già in vigore per le imprese energivore di altri settori, anche alle aziende del riciclo di plastica.
Un altro emendamento Pd a firma di Stefano Vaccari
Stefano Vaccari (Pd)
punta invece a cercare di attaccare il problema alla radice, attraverso l’istituzione di un fondo per evitare la produzione delle plastiche più critiche: “Il Fondo, con una dotazione massima di 190 milioni di euro, è operativo da subito per attività di prevenzione e riduzione dei rifiuti mediante ecodesignrecupero plastiche miste e diminuzione materiali non riciclabili”, spiega il senatore dem a ilfatto.it. Per il credito d’imposta alle imprese del riciclo, il fondo per gli enti locali e quello per la prevenzione, l’idea di 5 stelle e dem è prendere le risorse dai così detti sussidi ambientalmente dannosi che, solo nell’ambito del sostegno ai combustibili fossili, in Italia superano i 10 miliardi. E in questo gruppo rientrano anche gli aiuti ai prodotti chimici per l’agricoltura, come fitofarmaci e gli additivi per mangimi che oggi hanno l’IVA agevolata al 10%.  “L’obiettivo è spostare le risorse dai sussidi ambientalmente dannosi all’incentivazione della vera economia circolare. Oggi si continua ad agevolare, con una remunerazione maggiore a quella di mercato, l’energia prodotta dall’incenerimento dei rifiuti, considerandola rinnovabile. Il GSE, solo lo scorso anno, ha erogato agli inceneritori circa 300 milioni di euro, mentre le imprese virtuose che cercano di utilizzare quel rifiuto di scarto come materia prima non godono di alcun incentivo. Eppure la gerarchia europea antepone il riciclaggio al recupero energetico”, spiega Vignaroli a ilfattoquotidiano.it.
Ma gli incentivi non risolvono tutti i problemi –Provvedimenti su cui però, nello stesso mondo dell’industria delle plastiche non c’è assolutamente accordo. Se infatti da una parte gli incentivi potrebbero stimolare la rigenerazione di scarti oggi smaltiti rendendoli più appetibili sul mercato, dall’altra la previsione è che questi imballaggi difficili da riciclare continuino a lievitare. Il problema dunque non verrebbe risolto alla radice cercando di bloccare il proliferare di certi rifiuti, ma solo spostato. Il presidente dell’associazione italiana dei riciclatori di plastiche (Assorimap) Walter Regis spiega che “fino ad oggi le crescenti raccolte di plastiche miste hanno posto grandi interrogativi sul sistema nazionale di raccolta, riciclo e recupero e sull’effettiva valorizzazione di questi rifiuti, a fronte dei notevoli costisostenuti e purtroppo solo con parziali riscontri. Ora queste misure permetterebbero di dare concretezza all’economia circolare”. Ma molti non la pensano allo stesso modo, soprattutto considerando che la Commissione europea ha una strategia ad hoc con cui punta a promuovere il riciclo di plastiche di qualità in grado di sostituire quelle vergini e che sarebbe fondamentale cercare di prevenire il problema plasmix. “Da questo punto di vista, pensare a delle sovvenzioni in pianta stabile a supporto del riciclo della plastica non ha senso. In questa ottica, sarebbe più efficiente usare piuttosto queste risorse per incoraggiare le imprese a  creare imballaggi e prodotti più semplici da riciclare. Questo percorso virtuoso aumenterebbe la quota di materiale riciclato e, allo stesso tempo, diminuirebbe il costo unitario per chilogrammo in uscita dagli impianti di riciclo e la loro qualità”, dice a Ilfatto.it Paolo Glerean, manager dell’azienda del riciclo Aliplast e membro del direttivo dell’associazione europea dei riciclatori di plastiche.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it

DARE UNA SECONDA VITA AGLI OGGETTI: PRESENTATA LA SERR 2017


Dare una seconda vita agli oggetti. Questo il motto della diciannovesima edizione della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, presentata sul palco di Ricicla.tv nella cornice di Ecomondo 2017. Sul palco di Ricicla alcuni dei protagonisti delle migliaia di azioni anti-rifiuto che anche quest'anno verranno messe in campo da Nord a Sud della Penisola.





fonte: https://www.ricicla.tv/

TERNI - 23 Novembre 2017 - Verso la società del riciclo 2017






RifiutiZeroUmbria Cru-Rz

Il Comune gonfia la Tari? Ecco come scoprirlo e ottenere il rimborso















Continua a tenere banco la questione della quota variabile Tari, che diversi Comuni hanno applicato illegittimamente anche alle pertinenze delle utenze domestiche, sollevata dalla risposta all'interrogazione parlamentare del 18 ottobre scorso. Il problema - segnalato più volte dal Sole 24 Ore - è sorto nel 2014 con il passaggio alla Tari, che prevede l'applicazione del metodo normalizzato (Dpr 158/99) distinguendo la quota fissa dalla quota variabile. Dopo la breve parentesi del 2013 con la Tares (per i Comuni che l'hanno istituita), si è passati da una tariffa “monomia” della Tarsu a una tariffa “binomia” della Tari, composta da una quota fissa correlata alla superficie e al numero dei componenti del nucleo familiare, e da una quota variabile collegata solo al numero degli occupanti. Quindi se una famiglia di 4 persone occupa 100 o 200 mq, la quota variabile è sempre la stessa, cambia invece la quota fissa. 
 
La Tari «gonfiata»
La determinazione delle quote, fissa e variabile, dipende dai costi complessivi del servizio rifiuti, previsti dal piano finanziario Tari approvato dal Comune in base ai criteri del Dpr 158/99, distinguendo peraltro le tipologie di utenze (domestiche e non domestiche) e rispettando la copertura integrale dei costi. Si arriva così a quantificare delle tariffe: in particolare quelle relative alle utenze domestiche sono contenute in una tabella di sei righe distinte per numero di componenti del nucleo familiare (da uno a sei o più componenti). Le tariffe Tari sono però riferite all'”utenza”, comprensiva delle pertinenze (garage, cantina, eccetera), diversamente dalle aliquote Imu che invece considerano l'unità immobiliare intesa in senso catastale. Ed è qui che può sorgere l'errore di calcolo della Tari, perché diversi Comuni applicano a ogni unità immobiliare sia la quota fissa sia quella variabile, mentre quest'ultima, essendo correlata solo al numero degli occupanti, andrebbe associata all'intera utenza. Risulterebbe così gonfiata la Tari da corrispondere in caso di abitazioni con pertinenze. Lo stesso dicasi in caso di abitazioni di vecchia costruzione composte da più subalterni catastali ma che di fatto costituiscono un'unica utenza domestica. È evidente che l'applicazione della parte variabile a ogni pertinenza o unità immobiliare comporta un notevole aumento della Tari da pagare, aumento che il Mef ritiene illegittimo.
 
Che cosa deve fare il contribuente
Il contribuente, dopo aver attentamente verificato la propria posizione già nell'avviso di pagamento, dovrebbe quindi chiedere al Comune il rimborso di quanto indebitamente pagato o la compensazione sulla bolletta dell'anno prossimo. L'operazione dovrebbe comunque passare attraverso una rideterminazione complessiva delle tariffe, riguardante l'intera platea delle utenze domestiche: quelle con pertinenze, che sono state penalizzate e quelle senza pertinenze. Ci sono comunque cinque anni di tempo dal versamento per chiedere il rimborso, che il Comune dovrebbe effettuare entro 180 giorni dalla presentazione dell'istanza. Ovviamente l'eventuale riscontro negativo ovvero il silenzio-rifiuto espone l'ente ad un contenzioso che potrebbe rivelarsi controproducente, alla luce della recente interpretazione ministeriale.

Come si fa, dunque, a capire di aver versato la Tari “gonfiata”?
Sono pochi i Comuni che hanno espressamente previsto nei loro regolamenti Tari la non applicabilità della quota variabile alle pertinenze dell'utenza domestica. Si dovrebbero quindi leggere attentamente gli avvisi di pagamento che l'ente ha inviato a tutti i contribuenti (la Tari è riscossa normalmente su liquidazione d'ufficio) e verificare, in caso di pertinenze, che la quota variabile applicata risulti pari a zero euro.




In quale parte dell'avviso di pagamento è indicata la quota variabile?
In genere l'avviso di pagamento della Tari contiene il riepilogo dell'importo da pagare, le istruzioni per il versamento (scadenza rate e codice tributo) nonché il dettaglio delle somme. È in questa parte che l'ente indica le unità immobiliari (con i dati catastali: foglio, particella, sub), la superficie tassata, il numero degli occupanti e la quota fissa e variabile distinta per ogni unità immobiliare. La quota variabile deve essere presente solo per l'abitazione, non anche per le eventuali pertinenze.


Entro quale termine il contribuente può chiedere il rimborso al Comune? È obbligatorio per il Comune rispondere all'istanza?
L'articolo 1 comma 164 della legge 296/2006 (finanziaria 2007) stabilisce che il rimborso delle somme versate e non dovute deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione. La stessa norma impone inoltre all'ente di effettuare il rimborso entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell'istanza, ma non è da escludere un eventuale silenzio-rifiuto da parte dell'ente.

Qual è il termine per proporre ricorso?
Il contribuente, in caso di diniego espresso al rimborso, ha 60 giorni di tempo per proporre ricorso alla commissione tributaria provinciale territorialmente competente. Nel caso di silenzio-rifiuto - che si forma dopo 90 giorni dalla presentazione dell'istanza (articolo 21 Dlgs 546/92), ma è consigliabile attendere 180 giorni previsti dalla norma sui tributi locali (comma 164 legge 296/06) - il contribuente deve proporre ricorso entro cinque anni (termine di prescrizione del diritto secondo la giurisprudenza più recente).





È possibile sollevare la questione in caso di contenzioso pendente?
La disciplina sul processo tributario impone al contribuente di inserire nel ricorso tutti i motivi che costituiscono la materia del contendere, non essendo possibile, in seguito, integrare il ricorso con altri motivi. Pertanto se il soggetto passivo non ha sollevato subito, in sede di motivi di ricorso, la questione dell'illegittimità della duplicazione della quota variabile Tari, non potrà più farlo successivamente.


Come regolarsi se la Tari è gestita da un soggetto diverso dal Comune (ad esempio da una società in house)?
In caso di gestione esternalizzata del tributo, ad esempio da parte della società che gestisce il servizio rifiuti (che potrebbe essere una società in house), il contribuente deve presentare a questa e non al Comune l'istanza di rimborso della quota Tari indebitamente pagata. Allo stesso modo, in caso di diniego o silenzio-rifiuto, il ricorso dovrà essere proposto contro la società.


fonte: www.ansa.it

Un filtro “solare” per distruggere le microplastiche che inquinano l’acqua
















Sfruttare le radiazioni del sole per aiutare a liberare gli oceani dalla presenza delle microplastiche: questa una delle innovazioni tecnologiche create dal progetto europeo CLAIM. A realizzare il sistema è stato un gruppo di scienziati del KTH Royal Institute of Technology, in Svezia, che a partire da questo mese testerà la sua invenzione negli impianti locali di trattamento delle acque reflue.


L’inquinamento da microplastiche conosce pochi confini. Queste minuscole particelle polimeriche sono presenti in quasi tutti i corpi idrici del pianeta, al punto da essere state individuate persino in sperduti laghi della Mongolia o in sedimentati sottomarini. L’ONU stima che ogni chilometro quadrato di oceano contenga circa 63 mila frammenti plastici che, non solo contaminano l’ambiente, ma entrano anche a far parte della dieta quotidiana degli animali. “Queste materie plastiche iniziano così ad accumularsi nella catena alimentare, passando da specie a specie, con conseguenze negative dirette anche per la popolazione umana”, spiega Joydeep Dutta, ricercatore del KTH Royal Institute of Technology.

L’esposizione alla luce solare può degradare la plastica in elementi innocui ma questo processo, chiamato ossidazione fotocatalitica, estremamente lento, e anche in caso di particelle piccolissime può richiedere anni. Gli scienziati dell’ateneo svedese hanno cercato un modo per accelerare il tutto. Come? Creando una nuova membrana fotocatalitica da aggiungere ai sistemi filtranti delle acque reflue. Il sistema è costituito da nanofili rivestiti in un materiale semiconduttore che può assorbire la luce visibile e utilizzarla per “abbattere” le particelle di plastica.

L’ossidazione fotocatalitica attraverso semiconduttori come ossido di zinco o l’ossido di titanio è già da tempo impiegata per convertire inquinanti volatili o oli in elementi innocui come l’acqua e anidride carbonica. Il passaggio alle microplastiche sembra essere, dunque, il logico step successivo.
Le membrane trattengono questi minuscoli inquinanti mentre la luce del sole attiva il focatalizzatore. “Il semiconduttore è in grado di eccitare le molecole del materiale e avviare questo processo di degradazione utilizzando il 40% della radiazione solare”, spiega Dutta. E come risultato, anche in questo caso si ottiene solo acqua e anidride carbonica. L’idea è di istallare questi speciali filtri solari – i test reali inizieranno a breve – sia a livello domestico che negli impianti di trattamento industriale dei reflui. In aggiunta il progetto CLAIM  (Cleaning Litter by Developing and Applying Innovative Methods in European Sea) sta sviluppando anche barriere flottanti da collocare alle bocche dei fiumi per catturare i rifiuti di plastica più grandi e un sistema di controllo navale per misurare gli inquinanti polimerici presenti nell’Oceano.

fonte: www.rinnovabili.it

Festa dell'albero a Bastia Umbra 18.11.17

Dalle 9 alle 12 siete tutti invitati alla Festa dell'Albero che festeggeremo tutti insieme alla Scuola di Musica di Bastia Umbra! Mi raccomando portatevi i guanti, una pala e tanta voglia di festeggiare in allegria!

Rif. 
Rosignoli Marcello 334 3438075
Pampanelli Marco 347.4197289
Francesca Niglio 335 676 2953

Il disegno di legge sul plasmix: replica di Stefano Vignaroli

Dopo l'intervento di Agata Fortunato, riceviamo e pubblichiamo la replica di Stefano Vignaroli, deputato M5S e vicepresidente Commissione per il ciclo illecito dei rifiuti, primo firmatario della proposta di legge sul plasmix 


















Con riferimento all’articolo, pubblicato lo scorso 10 novembre su Eco dalle Città, riguardante le criticità sollevate dalla Dott.ssa Agata Fortunato sulla proposta di legge sul plasmix del Movimento 5 Stelle, di cui sono il primo firmatario, mi preme sottolineare cosa mi lascia basito delle opinioni espresse dalla Dott.ssa Fortunato. 
Gli emendamenti sul plasmix, presentati in legge bilancio, tendono a stimolare il recupero materia utilizzando i materiali di scarto non pericolosi a base plastica, destinati altrimenti a essere smaltiti in discarica o bruciati negli inceneritori e nei forni industriali. L’autrice del pezzo non considera o fa finta di non considerare che un incentivo per il plasmix (e non solo) già c'è ed è pagato dai cittadini in bolletta; peccato che serva a premiare chi lo brucia. Attualmente chi brucia viene sovvenzionato dai cittadini attraverso la bolletta elettrica ed in più ha la garanzia di vendere l'energia prodotta. Noi chiediamo che si premi, invece, chi lo recupera in materia, in coerenza con le gerarchie di trattamento dei rifiuti, come indicato dall' Unione Europea. 
Unico aspetto che mi vede in scontata sintonia con la Dott.ssa Agata Fortunato è il fatto che il plasmix e soprattutto gli imballaggi inutili e dannosi vadano drasticamente ridotti. Sorvoliamo su quante pressioni ho ricevuto dai produttori di imballaggi inutili solo per aver proposto ed ottenuto la legge sul vuoto a rendere!
Per ottenere la riduzione degli imballaggi (non solo il plasmix) è fondamentale alzare il CAC (contributo pagato dai produttori di imballaggi per lo smaltimento degli stessi) e differenziarlo premiando chi produce imballaggi a basso impatto ambientale. Ma cosa c'entra la legge di bilancio? Per ottenere questa auspicabile riduzione degli imballaggi abbiamo presentato apposite proposte di legge che vanno, fra l’altro, a rivedere drasticamente il sistema del CONAI. Se e quando andremo al Governo faremo sicuramente molto in tema di riduzione rifiuti.
Gli emendamenti presentati, dunque, premiano non chi produce plasmix ma le imprese che, invece di bruciarlo o metterlo in discarica, lo riciclano e i Comuni che sceglieranno di comprare manufatti composti da materiali di scarto, anziché manufatti con materie prime vergini. Il discorso viene esteso anche al CDR da indifferenziato. Tutto ciò serve a scongiurare nuovi inceneritori; questi sì che vengono incentivati con soldi dei cittadini pur essendo ambientalmente e socialmente impattanti! Perché su questo nemmeno una parola?
Sorvolo anche sulle incertezze fatte sui finanziamenti: prima li critica poi sembra quasi sminuire o rammaricarsi che dureranno solo poco tempo, poi si domanda se ci saranno.
Sottolineo che attualmente il plasmix è una quantità abnorme, c'è spazio per ridurli ma nel breve e medio periodo ci saranno comunque, perché non tutto si può fare in vetro o PET, solo per fare un esempio. È giusto premiare chi li ricicla perché attualmente questi manufatti (panchine, bauletti, contenitori, attrezzi) si vendono ad un prezzo leggermente  superiore e con scarsa domanda, ancora. Sarebbe utopistico pensare che mettendo il pedaggio sul Grande Raccordo Anulare non circolerà più nessuna macchina. Noi invece siamo realisti e vogliamo tassare chi produce imballaggi ma premiare anche chi li recupera in materia invece che bruciarli. Stesso discorso sulla ecotassa per le discariche. La questione  rifiuti è complessa e si  rende meno problematica agendo su più fronti. In legge di bilancio abbiamo un’occasione, sfrutteremo anche le altre. Come è stato per il vuoto a rendere.
Stefano Vignaroli
Deputato Movimento 5 Stelle
Vicepresidente Commissione per il ciclo illecito dei rifiuti

fonte: www.ecodallecitta.it

Ispra presenta il Rapporto ‘Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali’

Il rapporto passata in rassegna la letteratura internazionale e analizza le connessioni più rilevanti tra lo spreco alimentare e altri temi, così da costruire una visione d’insieme socio-ecologica
















Il 16 novembre è prevista a Roma, presso l’Auditorium del Ministero dell’Ambiente (Via C. Bavastro, 180), la presentazione del Rapporto Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali realizzato da ISPRA. Lo spreco alimentare è emerso recentemente come una delle principali questioni ambientali e socio-economiche che l’umanità si trova ad affrontare. Gli studi sono agli inizi e la condivisione di metodologie di indagine necessita di essere sviluppata. In questo rapporto viene passata in rassegna la letteratura internazionale e sono analizzate le connessioni più rilevanti tra lo spreco alimentare e altri temi, così da costruire una visione d’insieme socio-ecologica: il consumo di suolo, di acqua, di energia e di altre risorse, il degrado dell’integrità biologica, i cambiamenti climatici, l’alterazione dei cicli dell’azoto e del fosforo, la sicurezza e la sovranità alimentare, la bioeconomia circolare.
Dall’esame dei quadri concettuali esistenti si giunge ad una proposta di definizione sistemica che comprende elementi fondamentali di spreco finora poco considerati. Si indagano in dettaglio le cause e i condizionamenti strutturali lungo le filiere, in particolare emergono differenti quantità di spreco associate a diversi modelli di sistema alimentare. Il rapporto poi analizza ed elabora a livello mondiale, europeo e italiano i dati disponibili, evidenziando dimensioni ed effetti critici dello spreco.
Viene individuata la necessità di spostare l’attenzione dal recupero e riciclo delle eccedenze alla indispensabile prevenzione strutturale per ridurne a monte la formazione e i conseguenti sprechi. Le proposte di prevenzione sono estesamente trattate e finalizzate ad una strategia che aumenti la resilienza ecologica e sociale trasformando strutturalmente i sistemi alimentari.

fonte: www.ecodallecitta.it

Gomma da pneumatici fuori uso: risorsa per la salute dei cavalli














Riciclo e tutela del benessere animale si incontrano grazie al recupero degli Pneumatici Fuori Uso. Lo sa bene Ecopneus, consorzio da anni impegnato nel recupero dei PFU e nella valorizzazione dei materiali ottenuti dalla loro lavorazione. Un ruolo di primaria importanza lo recita la realizzazione di coperture per le aree interne ed esterne di scuderie e maneggi, con risultati rilevanti sia per l’incremento dell’igiene e della salute dei cavalli che nella pulizia degli ambienti e nella riduzione dei costi di gestione complessivi.
Proprio la pavimentazione di scuderie e maneggi è ritenuta un fattore di primo piano nella manifestazione di problematiche respiratorie, articolari e che interessano il comfort e la salute dei cavalli. A questi si aggiungono i potenziali effetti nocivi per l’apparato respiratorio di cavalieri e amazzoni oltre che degli addetti che lavorano entro le aree interne ed esterne delle strutture.


Benefici antitrauma e igienici

Le normali pavimentazioni presenti nei box, come nei camminamenti e nelle aree interne (incluse quelle destinate al lavaggio o alla ferratura) possono risultare nocive per la stabilità e per le articolazioni dei cavalli, costretti in alcuni casi a camminare su superfici (solitamente in cemento o calcestruzzo) che li espongono al rischio scivolamento o al rischio di patologie legate ad articolazioni, legamenti o tendini.
La sostituzione di queste pavimentazioni con superfici realizzate con gomma riciclata proveniente da PFU sembra essere in grado di prevenire il verificarsi di diverse situazioni rischiose, limitando gli infortuni derivati da trauma, caduta o da una postura non corretta imposta da materiali troppo rigidi.
Tra i vantaggi evidenziati dalle nuove pavimentazioni in gomma riciclata figurano ad esempio il maggior grip di cui beneficia lo zoccolo del cavallo, favorito inoltre dall’ammortizzazione indotta dal leggero affondamento a cui è soggetta l’unghia. Sono in grado tra l’altro che di garantire, rispetto alle superfici in cemento, un efficace isolamento da freddo, caldo e umidità.
I cavalli beneficiano di maggiore comfort non soltanto in termini di riduzione del rischio di lesione a lungo termine agli arti, ma anche per quanto riguarda l’igiene e la salubrità degli ambienti nei quali si trova a soggiornare. L’utilizzo di gomma riciclata da pneumatici fuori uso consente di ridurre l’impiego di lettiera, come fieno, trucioli e cocco, con il risultato di garantire una maggiore efficacia in termini di pulizia dei box, di isolamento da fondi sporchi e liquidi di deposito, e di riduzione dei costi di gestione.
Resistenti alle intemperie, facili da installare (anche su fondi come terriccio, erba o sabbia) e ad alto coefficiente di adattamento, questi materiali garantiscono inoltre un buon isolamento acustico all’interno delle scuderie, attenuando il rumore da calpestio. Un pavimento in gomma riciclata da PFU si è rivelato inoltre utile per migliorare la stabilità dei cavalli anche durante il trasporto su van, trailer o altri mezzi utilizzati per gli spostamenti.




Benefici contro le malattie respiratorie

A preoccupare dal punto di vista delle malattie respiratorie dei cavalli sono soprattutto quelle patologie legate alla silicosi. Si tratta di una problematica connessa con la dispersione nell’aria di polveri fini che si sollevano dal terreno esterno, solitamente realizzato con sabbia, andando poi a depositarsi negli alveoli polmonari. A provocare tale diffusione il calpestio degli animali e l’usura nel tempo.
Ecco quindi che la sostituzione di tale materiale con la gomma riciclata da pneumatici a fine uso (o con miscele di sabbia e gomma) può contribuire a migliorare le cose, garantendo al contempo una superficie ideale per le attività. Un esempio recentissimo è rappresentato dal centro ippico Happy Horse di Orvieto, che a giugno 2017 ha sostituito la sabbia del campo di lavoro esterno con oltre 30.000 kg di granulo di gomma riciclata “nobilitato”, ossia rivestito di un pigmento acrilico colorato (in questo caso color marrone). Al di sotto di tale superficie sono state posate 2.500 piastre prefabbricate ottenute con oltre 50 mila kg di gomma riciclata da PFU. Una tecnica già testata presso un centro ippico nei pressi di Nantes, in Francia, poi adattata al contesto italiano.
Proprio il centro ippico Happy Horse di Orvieto sarà oggetto di studio da parte dei ricercatori del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Perugia, che cercheranno eventuali conferme ai risultati ottenuti analizzando l’esperienza francese.
Il progetto di ricerca nasce all’interno della partnership tra Ecopneus e UISP – Unione Italiana Sport Per tutti, con l’obiettivo di promuovere il massimo utilizzo della gomma da riciclo nell’impiantistica sportiva. Come ha dichiarato il prof. Francesco Porciello, docente ordinario del Dipartimento di Medicina Veterinaria e direttore dell’Ospedale Veterinario dell’Università di Perugia:
La nostra equipe di ricercatori ha completato il primo protocollo sulla metodologia di studio per quanto riguarda l’apparato respiratorio del cavallo. Successivamente verrà preparato il protocollo di studio per testare i benefici dei pavimenti in gomma riciclata sugli arti del cavallo, che punterà a dimostrare la riduzione delle lesioni ad articolazioni, tendini e piedi grazie all’uso di queste superfici ad elevato confort.
Con queste pavimentazioni si riduce il rischio di pericolosi scivolamenti, il materiale da lettiera viene quasi totalmente eliminato, facilitando decisamente le operazioni di pulizia dei box e aumentando l’igiene e la salubrità degli ambienti, un aspetto di primaria importanza in ogni circostanza e in particolar modo in questo contesto.
I primissimi risultati ottenuti dall’Università di Perugia sono stati presentati da Econpneus durante FieraCavalli 2017, svoltasi nei giorni scorsi a Verona. Lo studio ha visto 9 cavalli da maneggio impegnati in alcune sessioni di lavoro, con analisi cliniche e valutazioni legate alla salute delle vie respiratorie. Tre animali si sono esercitati sul classico terreno di sabbia, altrettanti su superficie mista e l’ultimo terzetto su gomma riciclata da PFU. Come hanno sottolineato i ricercatori perugini:
Oltre agli esami preliminari, i cavalli sono stati osservati durante il lavoro per registrare il numero di animali che presentava colpi di tosse. Pur non essendo segno di una patologia, la tosse è comunque indicazione di uno stato irritativo delle prime vie aeree, che seppur transitorio, riduce il benessere sia del cavallo che del cavaliere durante il lavoro.
È proprio questo indicatore a evidenziare che il campo in PFU può migliorare il benessere di animali e operatori che lavorano in maneggio: durante il lavoro due animali su tre hanno mostrato tosse lavorando sul campo in sabbia, uno su tre sul campo misto, ma nessun cavallo ha tossito su quello in PFU.
In Italia è stato inoltre presentato a settembre 2015 il Centro Tashunka di Todi, in Provincia di Perugia, primo centro equestre nazionale “completamente riqualificato con la gomma da riciclo”. Una procedura che è stata la salvezza per la cavalla Juanita, la cui storia viene raccontata nel video in coda, insolitamente affetta da allergia al fieno.


fonte: www.greenstyle.it

Campagna nazionale CAMBIAMO L'ARIA: Comunicato stampa FIRMA DAY 18-19 Novembre


Legge Rifiuti Zero

Usi “creativi” delle batterie per le auto elettriche

Un confronto tra le emissioni sul ciclo di vita delle auto diesel ed elettriche è a tutto vantaggio delle seconde. Ma c'è di più: due esempi di usi “creativi” delle batterie per l’auto elettriche mostrano come sia molto complicato calcolare le reali emissioni di questa tecnologia, proprio per la sua notevole flessibilità.





 
 
 










Le recenti dichiarazioni di Sergio Marchionne secondo cui le auto elettriche emetterebbero più CO2 di quelle diesel, considerando le emissioni delle centrali che le alimentano e del loro ciclo di vita, hanno suscitato molte polemiche e discussioni.
Ad esse, non si sa quanto direttamente, ha risposto uno studio diretto da Maarten Messagie della Vrije Universiteit di Bruxelles, commissionato dall’associazione Transport & Environment, che ha preso in considerazione le emissioni prodotte dall’intero ciclo di vita delle auto elettriche, dalla costruzione del mezzo e delle batterie, all’uso dell’auto, fino alla sua demolizione, mettendolo a confronto con quelle prodotte dall’analogo ciclo di vita di un’auto diesel.
Il confronto è stato fatto in base alle emissioni medie di CO2 della produzione elettrica dell’Unione Europea e poi negli otto maggiori paesi dell’Unione.
I risultati sono schiaccianti: con una percorrenza dell’auto di 200mila chilometri il diesel emette 210 grammi di CO2/km, mentre l’auto elettrica nella media Ue ne emette appena 90 g/km
Le emissioni del diesel sono dovute soprattutto alla marcia, seguite da quelle dovute alla produzione del carburante, mentre quelle dell’auto elettrica dipendono soprattutto dal mix di fonti usate dalle centrali, seguite a pari merito dalla costruzione e demolizione dell’auto e delle batterie.




Andando nel dettaglio paese per paese, si vede che le emissioni nel corso della vita dell’auto elettrica variano dai 30 grammi CO2/km nella nucleare Francia, fino ai 160 grammi CO2/km della “tutto carbone” Polonia, comunque anche qui un dato inferiore a quello dell’auto diesel.
L’uso dell’auto elettrica in Italia produrrebbe emissioni vicine alla media europea, mentre in  Germania sarebbero a 110 gr CO2/km. 
Caso chiuso? No, naturalmente. Molti, commentando questi risultati hanno indicato come i ricercatori belgi abbiano usato dati molto favorevoli alle auto elettriche, come i valori più bassi di uso dell’energia nella produzione delle batterie, o percorrenze esagerate rispetto a quelle che riescono veramente a fare le attuali auto elettriche con la loro scarsa autonomia.
D’altra parte bisogna anche dire che lo studio belga non ha tenuto conto di altri fattori favorevoli all’auto elettrica, come il fatto che con ogni probabilità la crescente produzione di batterie in “giga factory” produrrà un effetto simile a quello già visto per i pannelli solari: un crollo sia del loro costo che dell’energia media, e quindi delle emissioni, usata per realizzarle.
Tanto più se, come nel caso della gigafactory Tesla del Nevada, buona parte dell’elettricità impiegata arriverà da fonte solare ed eolica. 
Lo stesso si può dire per la CO2 connessa alla produzione di elettricità: il futuro porterà a quote sempre maggiori di rinnovabili e quindi minori emissioni legate all’uso del mezzo elettrico.
Ciò significa che i dati sulle emissioni delle auto elettriche saranno destinati a migliorare, quelli dei diesel, no: un’ottima ragione per iniziare da subito il cambiamento.
Altri usi delle batterie
Ma c’è anche dell’altro: le batterie delle auto elettriche, quando vengono scartate dai mezzi che le hanno usate, sono tutt’altro che finite. Possono infatti servire ancora per molti anni ancora; ad esempio ad immagazzinare energia per la rete o per la ricarica delle auto da fonti rinnovabili. Un modo per aumentare la penetrazione delle rinnovabili nel sistema elettrico, evitando anche le emissioni per l’acquisto di nuovi sistemi di accumulo. 
C’è anche chi ha ideato sistemi creativi per far sì che le batterie delle auto elettriche possano cominciare a fornire questo tipo di servizio già durante la vita dell’auto, se non addirittura prima che questa cominci a girare per strada.
In Gran Bretagna il distributore di elettricità Ovo ha proposto ai proprietari di auto elettriche un accordo allettante: fateci usare le vostre batterie quando l’auto è ferma, e noi vi regaliamo l’elettricità.
In pratica Ovo installerà a casa di chi accetta l’accordo uno speciale caricabatteria collegato ai suoi computer centrali; in cambio l’utente potrà ricaricare l’auto gratuitamente, risparmiando, stimano, sulle 400 sterline l’anno.
Per evitare di trovare l’auto scarica di mattina, il proprietario indicherà quanto è la carica minima che vuole trovare nell’auto il giorno dopo, per percorrere i chilometri a lui necessari.
Fra quella soglia e la carica massima, Ovo userà la batteria dell’auto come un sistema di storage per le sue esigenze, caricandola nei momenti di basso prezzo del kWh sulla Borsa elettrica, e scaricando in rete quanto accumulato quando il prezzo sale.
In media in Gran Bretagna questo “giochino” può far accumulare elettricità a 4 centesimi di sterlina al kWh, per poi rivenderla a 16 centesimi, ma visto che i prezzi più bassi si hanno proprio quando le rinnovabili sono al massimo della produzione, il guadagno economico diventa anche ambientale, portando ad un uso più efficiente di solare ed eolico.
Si potrebbe pensare che le quantità accumulate così siano in fondo briciole, ma in realtà se ogni auto elettrica nel Regno Unito aderisse allo schema, mettendo a disposizione anche solo 10 kWh della propria carica, Ovo potrebbe già accumulare e rilasciare 1 GWh di elettricità ogni giorno, per un guadagno quotidiano di circa 100mila sterline.
L’idea di usare un sistema di accumulo distribuito per la compravendita di energia al miglior prezzo ha convinto così tanto la società britannica da realizzare con Nissan un sistema di accumulo domestico da 4.800 sterline per i proprietari di fotovoltaico. I proprietari dell’impianto potrebbero ricevere 350 sterline l’anno per farlo usare in remoto dalla società Ovo per le sue esigenze di accumulo, così come con le batterie delle auto elettriche.
Questa idea di usare gli accumulatori delle auto elettriche come sistema diffuso di accumulo dell’energia per la rete non è nuova. Ovo è solo la prima azienda a metterla in pratica.
Del tutto originale è invece l’idea che è venuta alla casa automobilistica tedesca Daimler-Benz, che si trova ormai con magazzini pieni di batterie al litio per i suoi modelli elettrici.
Collaborando con la società Stadtwerke Hannover AG, Daimler ha collegato insieme 1800 dei 3200 accumulatori elettrici per le Smart che ha in un magazzino di Herrenhausen, così che la Stadwerke li usi per le sue offerte di bilanciamento e regolazione della frequenza sulla rete, condividendo poi con lei i profitti che ne derivano.
Il primo lotto di batterie collegate offre una potenza da 5 MW, ma quando il lavoro sarà completato, nel 2018, la Stadtwerke avrà a disposizione 17 MW di potenza di accumulo, senza spendere un soldo della notevole somma di denaro che gli sarebbe costato per la costruzione di un accumulatore di quella potenza.
Le batterie usate nel compito di accumulo statico verranno via via montate sui modelli Smart elettrici e sostituite da nuove batterie. Il proprietario dell’auto che la installerà non ne avrà alcun svantaggio: ogni singolo accumulatore usa nell’impiego statico solo una frazione della sua capacità totale e solo per un tempo limitato, così che non subisca un’usura tale da ridurne la vita utile.
Questi due esempi di usi “creativi” delle batterie per l’auto elettrica, mostrano come sia molto complicato oggi calcolare le reali emissioni di questa tecnologia così innovativa e flessibile, che certo ci riserverà molte sorprese, speriamo sempre positive, nel prossimo futuro.

fonte: www.qualenergia.it