Dalle smart city alla citizen science: un nuovo modo di essere cittadini

Come riappropriarsi di un sano senso civico





















Nel nostro Paese i cittadini si stanno rendendo sempre più parte attiva della cosa pubblica, realizzando, nel proprio contesto locale o su una scala anche più ampia, dei cambiamenti tangibili e creando allo stesso tempo un nuovo modo di essere cittadini e componenti di una determinata comunità.
Dalle persone che si rimboccano le maniche per risolvere un problema che affligge il proprio territorio o la propria comunità, a persone che in nome di una sensibilità sempre più accesa verso le problematiche ambientali si sono fatte promotrici di progetti di raccolta dati e monitoraggio ambientale.
In entrambi questi casi stiamo parlando di attività che, pur non arrivando sempre all’attenzione del grande pubblico, ci raccontano di cittadini partecipi alla cosa pubblica, corresponsabili del buon andamento della propria città o della cura e gestione della "casa comune", ovvero l’ambiente.


Esempi li possiamo ritrovare sia nei quartieri delle nostre città, sia nello spazio virtuale delle app e più in generale del Web. Ecco allora i movimenti Retake che sono impegnati per la diffusione del senso civico in diverse città italiane, in primis Milano Roma, e che cercano di coinvolgere i cittadini nella risoluzione comune di problemi, favorendo il recupero degli spazi e dei beni pubblici.
Fare Comunità è un blog dell’associazione “Amici di Pericle” di Piedimonte Matese nell'Alto Casertano, che vuole contribuire a diffondere nel territorio la cultura civica e democratica e favorire la partecipazione dei cittadini nella risoluzione dei problemi delle comunità.
Anche le app possono dal canto loro favorire tale senso civico, permettendo di gestire problematiche ed esigenze comuni in modo collaborativo, trovare soluzioni condivise, scambiare esperienze. Su Arpatnews ne abbiamo ad esempio parlato affrontando il tema della riduzione dei rifiuti, alimentaritessili ingombranti.
Guardando a queste esperienze e facendo riferimento a quel modello di società e di città oggi definita “smart”, potremmo qui a tutti gli effetti parlare di smart citizens, in quanto questi cittadini sono sì portatori di bisogni, ma manche soggetti capaci di proporre soluzioni e quindi attori collaborativi nell’attuazione delle loro proposte. Sono cioè cittadini "intelligenti" perché si prendono cura della cosa pubblica.
Se infatti la smart city è una città caratterizzata da un’alta qualità della vita, o perlomeno preoccupata di migliorare la qualità della vita dei propri abitanti e di proteggere l’ambiente in cui essi vivono, ed è in grado di rispondere ai bisogni sociali ed economici della società e dei singoli cittadini, questo vale anche per chi questa città la vive, come attore partecipe e consapevole.
Alcuni di questi cittadini si fanno chiamare “civic hackers”, per sottolineare il loro attivismo al di là delle intenzioni della pubblica amministrazione: anzi, là dove quest’ultima latita o ritarda, loro si inseriscono per cercare soluzioni e risposte creative ad esigenze e problemi concreti, senza allo stesso tempo contrastare chi ufficialmente e professionalmente deve gestire ed amministrare la cosa pubblica, contribuendo così a far emergere problemi altrimenti invisibili e a darne valore, prendendosene cura.


A ben vedere non sono poi tanto lontano dai movimenti Retake o simili, se non per il fatto che questi problem solvers delle smart city si affidano in modo preponderante alla tecnologia per facilitare l’individuazione e la soluzione dei problemi. Alcuni esempi sono i cittadini che attraverso la tecnologia si sono applicati con creatività per dare una risposta all’emergenza terremoto facendosi comunità (Terremoto Centro Italia) o l’esperienza di MappiNa, una piattaforma collaborativa che realizza una diversa immagine delle città attraverso il contributo, critico ed operativo, dei suoi abitanti.
Sulla stessa lunghezza d’onda possiamo collocare chi prende parte a progetti di citizen science, che è qualcosa di più che un modo di raccogliere dati, contribuendo attivamente a sensibilizzare, costruire capacità e soprattutto rafforzare le comunità.
Esempi di citizen science li abbiamo sotto i nostri occhi nelle nostre città: citiamo ad esempio il progetto Che aria tira? di autocostruzione - da parte di cittadini interessati al tema - di una rete di centraline low cost per la misurazione della qualità dell’aria nella piana fiorentina; sullo stesso tema il progetto umbro AirSelfie® che ha visto il contributo di cittadini che hanno indossato dei sensori portatili in grado di misurare in tempo reale le concentrazioni di PM2.5 nel corso della giornata.
Il campo della marine litter si presta molto bene ad esperienze di citizen science: la stessa Agenzia europea per l'ambiente (AEA) con Marine LitterWatch consente ai cittadini di monitorare, identificare e segnalare i rifiuti marini trovati sulle spiagge utilizzando l’elenco standard previsto dalla Strategia marina stessa, ottenendo quindi la comparabilità con i dati raccolti dagli Stati membri nei mari regionali europei e nell’insieme dell’UE.


Ricordiamo qui anche l'esperienza degli osservatori civici, “sentinelle per l'ambiente” che vigilano sul territorio con compiti di segnalazione per scoraggiare gli abusi, ma anche con finalità di proposta di soluzioni nei confronti delle istituzioni; tali osservatori sono particolarmente attivi in Campania.
Spostandoci in un altro campo c'è il Progetto Radon in Friuli Venzia Giulia, dove la popolazione è stata chiamata a collaborare attivamente con i ricercatori per le misure di radon nelle abitazioni.
Ad oggi purtroppo non vi è ancora sufficiente sinergia tra la citizen science e le iniziative delle smart city e neppure vi è interoperabilità e riusabilità dei dati, delle app e dei servizi sviluppati in ogni progetto. Questo rende difficile confrontare i risultati e quindi trasferirli da un contesto all'altro. Molto spesso i dati raccolti per un dato progetto scompaiono infatti dopo la fine del progetto stesso, rendendo impossibile la riproducibilità dei risultati e l'analisi delle serie temporali. Tentativi di diverso tipo sono alla base invece di iniziative come quella dell'AEA sui rifiuti marini.
Resta il fatto che costruire e mantenere attiva la comunità e la fiducia tra i suoi membri sono punti chiave di qualsiasi progetto di citizen science come di smart city e sarebbe dunque auspicabile che le istituzioni si facessoro promotori e facilitatori di tali iniziative da cui loro stesse possono trarre vantaggio. Del resto la stessa Costituzione ci dice che le amministrazioni dovrebbero favorire l'autonoma iniziativa dei cittadini, per lo svolgimento di attività di interesse generale. I patti di collaborazione fra cittadini e amministrazione sono in questo senso strumenti importanti con cui i Comuni, insieme ai cittadini attivi, possono concordare tutto ciò che è necessario fare per realizzare degli interventi di cura, rigenerazione e gestione dei beni comuni in forma condivisa.
fonte: http://www.arpat.toscana.it

Una rivoluzione ci salverà

Non è “l’inerzia” dei governi il nostro principale nemico per i cambiamenti climatici, ma il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con ciò che provoca la catastrofe. Alcuni passi per cambiare strada subito
















Nella ricorrenza, troppo spesso puramente formale, della Giornata della Terra, possiamo considerare un grosso passo avanti il fatto che il movimento ormai mondiale Friday for future, cresciuto intorno alle comparse mediatiche di Greta Thunberg, insieme al più recente Extinction Rebellion, hanno posto all’ordine del giorno del pubblico – in gran parte tenuto all’oscuro da media, politici e accademia della gravità e dell’urgenza del problema, soprattutto in Italia – il tema dei cambiamenti climatici, ormai prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica per la vita umana sul nostro pianeta. Una specie di “lettera scarlatta” del nostro tempo che, come quella del racconto di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché ce l’abbiamo davanti a noi.
Non c’è più tempo”: mancano pochi anni al punto di non ritorno: dodici per gli scienziati dell’IPCC, solo cinque per James Anderson che analizza l’evoluzione dei ghiacci sulla Terra. L’umanità tutta, i suoi governi, il suo establishment, i suoi membri arrivano completamente impreparati a questa scadenza, nota da decenni. Non è “l’inerzia” dei governi il nostro principale nemico, bensì il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con tutte le cose che ci stanno portando alla catastrofe. Invece dovremmo tutti considerarci in guerra: non “contro il clima”, ma contro le cose che facciamo o subiamo tutti i giorni. Ma per andare in guerra occorre riconvertire in tempi rapidi sia la produzione che il nostro stile di vita, dotandoci da subito delle armi necessarie a combatterla e vincerla. Lo avevano fatto in tempi strettissimi tutte le potenze impegnate nella Seconda guerra mondiale. Lo si può e deve fare anche adesso, con una mobilitazione generale.
In mezzo a tante cose giuste Greta fa un errore, più volte ripreso dai suoi giovani seguaci: “I politici sanno che cosa bisogna fare, ma non lo fanno”. Non è vero; i politici non sanno assolutamente che cosa fare, non ci hanno mai veramente pensato (pensano ad altro, al PIL, alla crescita, alle grandi opere e ai grandi eventi, al loro elettorato, alle tangenti) perché i problemi da affrontare sono troppo grandi per loro; per questo preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia.
Certo, gli scienziati sono ormai (quasi) tutti d’accordo sull’origine antropica e l’imminenza del disastro e le tecnologie necessarie a decarbonizzare il pianetasono ormai disponibili. Ma la transizione comporta sconvolgimenti radicali di tutti gli assetti sociali che né i politici, né il mondo delle imprese e meno che mai la generalità dei cittadini sanno come affrontare. Ma è ora di cominciare a delineare a grandi linee i passi da compiere; la loro definizione non può essere affidata solo ai tecnici, come quelli che l’economista liberista Jeffrey Sachs ha convocato a Milano il 2 e 3 aprile per discutere di come decarbonizzare il mondo. Manca in tutto questo la politica, quella vera, cioè il coinvolgimento e l’autogoverno dei cittadini in un rapporto dialettico tra alto (i Governi) e basso (le comunità locali). Manca una road map che occorre mettere in discussione senza lasciarsene spaventare. Qui si prova a indicarne almeno alcuni passi:
  1. Dichiarare, come hanno già fatto alcune città e università, lo stato di emergenza climatica. Vuol dire bloccare il più rapidamente possibile tutte le attività che producono gas climalteranti, dando la priorità a tutte quelle che concorrono alla decarbonizzazione;
  2. Garantire un reddito certo a tutti i lavoratori che perderanno il lavoro – o non lo troveranno – nelle imprese soggette a chiusura, in attesa di una loro ricollocazione in imprese e progetti impegnati nella transizione energetica;
  3. Spostare tutti gli investimenti e gli incentivi pubblici diretti dalle attività legate ai fossili a quelle legate alla transizione. Non si tratta di noccioline: significa, nell’immediato, bloccare  produzione e importazione di auto individuali e di barche da diporto, comprese le crociere, e convertire gli impianti per produrre mezzi di trasporto collettivo o condiviso (l’elettrico, di per sé, garantisce scarsi benefici climatici, anche se emette meno inquinanti) e impianti di generazione elettrica alimentati da fonti rinnovabili; bloccare tutte le centrali termoelettriche e tutti i consumi energetici superflui; trasformare nel più breve tempo possibile involucri e alimentazione energetica di tutti gli edifici; convertire agricoltura e alimentazione alle produzioni biologiche e di prossimità, riducendo il consumo di carni, ma soprattutto di acqua e lo sfruttamento senza rigenerazione dei suoli; ridurre al minimo trasporto aereo, vacanze esotiche, import-export di merci superflue, traffico transoceanico;
  4. Fissare delle sanzioni per gli Stati e le corporation che non si adeguanoa queste esigenze con piani dettagliati, sottoponendoli a un monitoraggio sovranazionale. Altro che accordi di Parigi
  5. Coinvolgere il numero maggiore possibile dei residenti di ogni comunità nella definizione, nella progettazione e nella realizzazione a livello locale di questi obiettivi, perché le misure per farvi fronte non possono essere determinate in modo centralistico dagli Stati. È a questa attività, oltre che a fare pressione sui Governi, che dovranno dedicarsi fin da subito le diverse espressioni che assumerà il movimento per la salvezza climatica. La transizione che ci attende non è un’opzione tecnica, ma una rivoluzione dei consumi, degli stili di vita, degli assetti produttivi, dei rapporti di potere i cui elementi determinanti sono il conflitto e la partecipazione; per questo sono inaccettabili dall’establishment al potere, come ha cercato di spiegarci Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà.
Oggi sembrano cose impossibili anche solo da concepire (e Greta viene trattata come una “deficiente”: da compatire o da lusingare; senza conseguenze). Tra pochi anni sembreranno ancora del tutto insufficienti.
Guido Viale
fonte: comune-info.net

40° Discesa Internazionale Del Tevere - 25 Aprile_1 Maggio 2019 - Le foto e i video





#Dit2019 #DiscesaInternazionaleDelTevere @Cru_rz #RifiutiZeroUmbria

La famiglia zero rifiuti ci spiega 5 regole utili per non avere più scuse















Jeremie e Benedicte, marito e moglie francesi, due figli, si consideravano una coppia attenta all’ecologia e al loro impatto sull’ambiente. Eppure nel 2014, si sono fatti una domanda: “Se siamo così attenti alla natura, facciamo il compost per il giardino, cerchiamo di comprare verdura a chilometro zero… da dove viene tutta la spazzatura che produciamo ogni settimana?”. Così è iniziata la loro avventura “Zero rifiuti (o quasi) raccontata prima nel loro blog e poi in un libro, tradotto in Italia da Edizioni Sonda lo scorso anno.
“Sacchetti, blister, coperchi, capsule, barattoli, vaschette… quando ci hanno rifilato tutta questa monnezza? E come possiamo farla uscire dalla nostra vita e dai nostri bilanci spesa? Perché una cosa è certa: l’abbiamo pagata”
Da qui parte l’avventura che la famiglia Pichon ha intrapreso per eliminare i rifiuti dalla propria vita nel modo più funzionale possibile, senza mirare alla perfezione bensì al miglioramento e all’acquisto critico, nonché all’autoproduzione.
Nel libro si trovano undici capitoli che trattano tutti i temi: dalla definizione dello zero waste, passando per la spesa, la cucina, i bambini, le feste, i cosmetici e i prodotti per pulire la casa, con molte ricette già testate. Il libro, completamente illustrato da Benedicte, non è scritto da una famiglia vegana (ma lo capiamo solamente per alcuni riferimenti al formaggio), ma il volume è corredato da una prefazione e da una postfazione a cura di Beatrice Di Cesare che declina alcuni aspetti dello zero rifiuti in chiave più marcatamente 100% vegetale.
Ecco 5 consigli che possiamo trarre dall’esperienza di Benedicte e Jeremie per poter iniziare anche noi il nostro percorso “Zero rifiuti”.
Il libro tratto dal blog della famiglia francese “Zero dechet” edito in italiano

1 – Zero rifiuti non è una moda o un “trastullo radical chic”

La prima considerazione è quella di base. Gli autori del libro ci mettono in guardia dagli “zero-scettici” ossia da chi vi dirà che “non è possibile” o che “gli piacerebbe molto ma non ha tempo”. Non è così. L’unica cosa vera è che dovrete ripensare le vostre abitudini e riorganizzarvi. In particolare:
  • Non si spende di più: l’imballaggio lo paghiamo (dal 15% al 40% a seconda dei prodotti). La spesa sfusa e tornare in cucina per evitare cibi pronti (che non solo fanno male nella maggior parte dei casi ma producono rifiuti con i loro pack) ci farà risparmiare. In particolar modo l’autoproduzione di detersivi per la casa e di alcuni cosmetici, ci permetterà di notare la differenza nelle nostre tasche.
  • Non è inutile: i rifiuti e il loro impatto arrivano anche da noi. Non possiamo delegare solo i “governi” ad agire. Soprattutto in ambito commerciale, siamo noi consumatori a decidere che cosa vogliamo e saranno le aziende ad adeguarsi. E’ sempre successo così.

2 – Zero rifiuti inizia con una prima regola aurea: rifiutare

Se vi capiterà di ascoltare un’altra guru dello zero waste, Bea Johnson, donna bellissima, mamma di due bambini e autrice del best seller “Zero rifiuti in casa“, capirete che non si tratta affatto di imparare a riciclare di più, bensì meno e su questo anche Jeremie e Benedicte sono d’accordo. Ecco perché la prima regola è imparare a dire “No, grazie” nelle occasioni in cui ci vengono offerti oggetti o soluzioni che non faranno altro che generare rifiuti inutili. Niente bigliettini da visita (ci sono tablet e cellulari apposta, oppure un taccuino con una matita…), niente gadget come penne, giochi, chiavette usb che finiranno nei cassetti in mezzo alle cianfrusaglie, niente sacchetti di plastica ma anche di carta nei negozi dopo aver comprato un oggetto o un ingrediente per cui non serve affatto un pack (portatevi la vostra borsa piuttosto), niente cannuccia nel cocktail, etc. Iniziare a dire “no” genera un effetto farfalla che eviterà di creare nuovi rifiuti e muoverà qualche pensiero in più.
Il libro, riccamente illustrato, racconta con tono leggero l’avventura della famiglia francese

3 – Altra regola importante: ridurre

Il mondo dello zero rifiuti è spesso intrecciato con l’approccio minimalista e con la scelta vegana. Si tratta di ambiti connessi poiché la maggior parte dei rifiuti la produciamo acquistando prodotti che in realtà non ci servono. Quante volte vi sarà capitato di andare a fare la spesa e comprare un pacco di pasta anche se ne avevate ancora; quanti di noi comprano vestiti, libri o tecnologia anche senza che ce ne sia effettivo bisogno? Per lavorare sul nostro impatto ambientale dobbiamo imparare a farci una domanda prima di comprare: “Mi serve davvero questa cosa?“. Evitiamo sempre gli acquisti compulsivi (soprattutto online) facendo passare magari uno o due giorni dal momento in cui vediamo un oggetto che ci sembra di desiderare, al momento in cui decideremo (forse) di comprarlo: spesso quel desiderio sarà già scomparso.

4 – Attenzione alla plastica che usiamo: si ricicla una volta sola

L’ecologia è spesso associata al tema del riciclo, ma la verità è un po’ diversa. “Dei rifiuti – scrivono i due autori nel libro – abbiamo fatto una risorsa, il riciclaggio è LA soluzione ambientale ma la verità è che ci sono dei limiti al riciclo. Attualmente solo il 20% dei nostri rifiuti viene riciclato e la plastica, in particolare, può essere riciclata solo una volta; quindi anche i prodotti creati con plastica riciclata sono destinati a bruciare o ad essere seppelliti”. Inoltre, scorrendo le pagine del volume, scopriamo che solo alcune materie plastiche sono riciclabili, per esempio le plastiche alimentari o il poliuretano non lo sono: “Alla fine ricicliamo solo alcune materie come bottiglie e flaconi: è il 20%”.

5 – Un primo passo importante è cercare di fare la spesa “sfusa”

Per il fresco (verdura e frutta) è decisamente facile: basta andare al mercato e portare con sé sacchetti in stoffa creati da noi (chiedendo la tara, prima di farci fare il prezzo), oppure quelli lavabili in materiale bio che si acquistano anche online. Anche al supermercato è possibile comprare sfuso utilizzando sacchetti biodegradabili.
Per il resto non sempre è facilissimo trovare i prodotti sfusi (almeno non tutti, pensiamo ad alimenti come tofu, tempeh, seitan o affettati vegetali) ma se dopo aver fatto una ricerca online sui negozi che praticano questo tipo di vendita, non ne trovate nella vostra zona, potete optare per acquisti tramite i GAS oppure online da rivenditori che possano fornirvi quantità importanti: più prodotto con un solo imballaggio, magari biodegradabile, (sarebbe il massimo!). Per altri prodotti la soluzione zero rifiuti è l’auto produzione e qui vi diciamo come fare seitan,tofu e mopur, ma con le ricette del nostro magazine potete cucinarvi un sacco di cose!
Anche se il libro va spesso riferimento alla realtà francese, si tratta di un volume interessante e utile per iniziare a leggere l’esperienza di chi ha già compiutamente iniziato a vivere senza rifiuti e sappiamo bene che l’esempio è la prima forma di attivismo valida.
Jérémie Pichon, Bénédicte Moret 
La famiglia zero rifiuti (o quasi)
fonte: https://www.vegolosi.it/

Nepi, il riciclo funzionale: le suore creano una serra con le bottiglie di plastica















La plastica è il vero problema ambientale del mondo. Secondo uno studio di Greenpeace Italia, si stima che ogni anno tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica finiscano nei mari al ritmo di un camion al minuto per ogni giorno dell’anno. Numeri che, complice l’inefficacia del riciclo, sono destinati a peggiorare. E la situazione in Italia cambierà presto: il nostro Paese esporta 197mila tonnellate di plastica che non sa come smaltire. Dove? Prima in Cina, poi Pechino a fine 2018 ha detto stop. Ora non si sa. Servono idee per il riciclo. Quella delle Suore Missionarie della Consolata è geniale e funzionale. Con migliaia di bottiglie hanno creato una serra per i prodotti del loro orto.
Nepi, la serra creata dalle suore con le bottiglie di plastica
LA STRUTTURA – Suor Edite, brasiliana, è l’ideatrice del progetto: “Sono arrivata a Nepi lo scorso gennaio. La vecchia serra era tutta malandata. Da lì il pensiero di ricoprirla con delle bottiglie. Con pazienza e nel tempo libero, con un bel numero di bottiglie, ho iniziato il lavoro. Grazie ad una rete ho rinforzato la struttura. Con l’aiuto di Fortunato poi, che lavora qui, siamo riusciti in questa impresa finale. Pensavo di finire l’opera in 3-4 anni. Invece le persone di Nepi si sono adoperate per portarci tantissime bottiglie di plastica. A dicembre, dopo un anno di lavoro, ecco la nuova serra per il nostro orto”.
Così la plastica ha un nuovo modo di utilizzo. E a vedere dai sorrisi, dopo un bel po’ di impegno, l’idea ha funzionato alla grande.
fonte: https://www.ilnepesino.com/

Ato Toscana Costa punta al 71 per cento di differenziata

Rifiuti, grazie ai nuovi progetti finanziati l’Ato Toscana Costa punta al 71% di differenziata
Finanziati 13 interventi con 5 milioni di euro, che si sommano ai 12 milioni di euro del 2018














Secondo gli ultimi dati certificati disponibili (anno 2017) nei Comuni che compongono l’Ato Toscana Costa – ovvero quelli delle province di Livorno (esclusi i Comuni di Campiglia Marittima, Castagneto Carducci, Piombino, San Vincenzo, Sassetta, Suvereto), Lucca, Massa Carrara e Pisa – il dato medio della raccolta differenziata dei rifiuti è fermo al 58,64%, ancora distante rispetto al target del 65% stabilito dalla normativa nazionale per il 2012, sebbene il dato sia più alto della media toscana (53,9%); la rotta per migliorare ulteriormente è però già stata tracciata, e punta al 71,8%.


L’Ato ha infatti approvato la graduatoria dei nuovi finanziamenti erogati dalla Regione Toscana per l’incremento della raccolta differenziata: si tratta di 13 progetti per un finanziamento complessivo di circa 5 milioni di euro (pari al 47% dei costi d’investimento previsti), proposti dai Comuni di Porto Azzurro, Monteverdi Marittimo, Camaiore e Altopascio, oltre che da Rea spa, Asmiu, Ascit spa, Aamps spa e Geofor spa.


«Tali progetti – spiegano dall’Ato – riguardano in particolare l’introduzione ed il miglioramento delle raccolte differenziate porta a porta, di prossimità e con cassonetti ad accesso controllato, anche tramite tariffa puntuale, e la realizzazione di nuovi centri di raccolta o il potenziamento di quelli esistenti». Con l’attivazione di tutti i progetti approvati, sia quelli appena finanziati che quelli finanziati nel 2018 per ulteriori 12 milioni di euro, l’Autorità d’ambito prevede di raggiungere «il 71,8% di raccolta differenziata a livello di area vasta». Spetterà all’Ato – ovvero ai Comuni che lo compongono, in definitiva – il controllo e il monitoraggio per la corretta esecuzione dei progetti.


Senza dimenticare che, oltre al quantitativo di rifiuti intercettati dalla raccolta differenziata, sarà necessario incrementare anche la qualità di quanto raccolto e l’infrastruttura industriale per la conseguente gestione e valorizzazione: la differenziata è infatti un necessario passaggio intermedio, ma il fine ultimo è l’effettivo riciclo e re-immissione sul mercato dei rifiuti separati dai cittadini.

fonte: www.greenreport.it

L'agricoltura Industriale È Un Industria Estrattiva Come Quella Dei Combustibili Fossili Ed E' Un Driver Crescente Del Cambiamento Climatico

L'agricoltura industriale incoraggia pratiche che fanno degradare il suolo e aumentare le emissioni lasciando gli agricoltori più vulnerabili ai danni dovuti al pianeta che diventa più caldo. 















L'articolo inizia descrivendo una fattoria dell'Iowa di un agricoltore che
diversifica le sue coltivazioni e alleva bestiame. Controlla l'erosione e
l'inquinamento dell'acqua lasciando una parte del terreno permanentemente
coperta da erbe native. Fa pascolare il bestiame sui campi e semina colture
di copertura per mantenere il suolo fertile a suo posto durante gli inverni
duri del midwest. 





Questo tipo di fattoria ormai è un'eccezione, infatti
nell'agricoltura statunitense da decenni c'è stata la tendenza al
consolidamento, ovvero le fattorie diversificate come quella appena
descritta sono state sostituite da fattorie sempre più grandi e meno variate
con l'industrializzazione delle coltivazioni e giganteschi allevamenti di
mucche, maiali e pollame. 




Si mira alla produzione, i sussidi sono legati
alla produzione, le politiche in agricoltura mirano alla produzione, il
consolidamento dell'agricoltura rinforzato dall'enfasi su una o due
coltivazioni principali - mais e soia - hanno portato ad un sistema dove c'è
poco incentivo a coltivare altro. Questo ha profonde implicazioni per il
clima e l'ambiente. Le mega-fattorie incoraggiano pratiche che fanno
deteriorare il suolo, sprecano fertilizzanti e usano male il letame, tutto
questo aumenta le emissioni di gas serra. In parallelo scoraggia pratiche
quali l'agricoltura senza aratura e la rotazione delle coltivazioni che
catturano il gas serra CO2 dall'aria, la immagazzinano nel suolo e
migliorano la salute del suolo. 




Il sistema ha trasformato l'agricoltura in
un business che assomiglia all'industria dei combustibili fossili in quanto
estrae valore dal terreno con efficacia implacabile e lascia inquinamento da
gas serra come conseguenza. Dal punto di vista del clima, della salute del
suolo e per la cattura del carbonio abbiamo bisogno di maggiore diversità. I
sussidi dati dal governo favoriscono poche coltivazioni (mais e soia); i
sussidi dati ai produttori più grandi sono risorse per comprare più terreno,
viene sussidiato il consolidamento. Queste due coltivazioni di mais e soia
fanno pesantemente uso di fertilizzanti azotati che impoveriscono i suoli.
Poi ci sono i mandati governativi che richiedono alle raffinerie di inserire
una percentuale di biocombustibili - compresi etanolo da mais e biodiesel da
soia - nelle miscele di combustibili. Questo ha fatto aumentare la
domanda per queste due coltivazioni, aumentando le pressioni per spostare
terreni a queste produzioni. Con l'arrivo dei mandati governativi per l'uso
di etanolo il mais e la soia geneticamente modificate per resistere
all'erbicida Roundup Ready sono diventati le coltivazioni dominanti negli
USA. Il consolidamento in agricolture si può riassumere con "semplifica e
ingigantisciti": le coltivazioni geneticamente modificate hanno semplificato
l'agricoltura, ma hanno incrementato l'uso di erbicidi e fertilizzanti,
hanno fatto sparire la diversità in agricoltura, questa specializzazione
insieme alla concentrazione aumenta la vulnerabilità del sistema del cibo in
un mondo che è soggetto al riscaldamento globale. Le fattorie che
diversificano le coltivazioni hanno più protezione contro cattivo tempo, il sistema
agricolo semplificato che per maggior efficienza coltiva pochi tipi di piante
(monoculture di mais e soia modificate geneticamente per tollerare
l'erbicida Roundup) perde quella biodiversità che tiene il sistema del cibo
sicuro dalle vicissitudini del cambiamento climatico, è
protetto da assicurazioni e sussidi del governo.


Nadia Simonini


https://insideclimatenews.org/news/25012019/climate-change-agriculture-farming-consolidation-corn-soybeans-meat-crop-subsidies

fonte: Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero



A Delhi la prima metropolitana al mondo alimentata al 100% dai pannelli solari

La metropolitana di Delhi diventa verde. L’azienda che la gestisce ha annunciato infatti che entro il 2021 l’intera rete sarà alimentata esclusivamente con energia solare.


















La Delhi Metro Rail Corporation(DMRC) punta a diventare la prima rete al mondo che si serve di energia pulita al 100%.
Di recente l’azienda ha ottenuto 27 MW di potenza dal progetto Rewa Solar Power ed è la prima volta che riceve energia da una "fonte esterna". Gradualmente la fornitura di energia aumenterà fino a 99 MW ma questo non sarà certo un problema dato che la Rewa Ultra Mega Solar, centrale solare che si trova nel distretto di Rewa del Madhya Pradesh (grande stato dell'India Centrale), ha una capacità totale di 750 MW ed è una delle più grandi centrali solari a singolo sito in India e nel mondo. 

Fino ad ora l’energia solare generata da impianti solari installati sul tetto nei locali del DMRC veniva utilizzata per finalità accessorie come l'aria condizionata, l'illuminazione delle stazioni della metropolitana o dei depositi. Ora però si sta iniziando a sfruttare l'energia solare, proveniente appunto dal Rewa Solar Power Project, anche per i treni della metropolitana.
pannelli solari metro dehli
Attualmente l’azienda utilizza già energia solare per circa il 60% del suo fabbisogno di elettricità ma si vuole fare di più e si punta ad utilizzare esclusivamente fonti di energia pulita entro il 2021. 
Il progetto è partito dalla Violet Line (la metropolitana di Dehli è composta da una rete di linee che si differenziano con vari colori) e, per celebrare il nuovo accordo sul solare, l'Amministratore delegato di DMRC, Mangu Singh, ha partecipato già qualche giorno fa ad un viaggio su un treno alimentato esclusivamente da energia solare.
 pannelli solari metro dehli1

La metropolitana di Delhi è molto avanti in termini di creazione di infrastrutture di nuova generazione che si servono di energia solare. Infatti, oltre all’energia ricevuta da Rewa, circa 28 MW di potenza saranno generati grazie ai numerosi pannelli solari che, già da tempo, sono stati installati nelle stazioni della metropolitana, nei depositi e sui tetti degli uffici della società.
fonte: www.greenme.it

Micropolis: Una pratica sportiva virtuosa di Anna Rita Guarducci

fonte: Micropolis

RepairCafe' a Perugia - presso 110 Caffe UniPg - Martedi 7 maggio 2019 - dalle ore 17.30



#CentodieciCaffe #Greenpeace #I*ESN #RepairCafePerugia #RifiutiZeroUmbria @Cru_rz

#RepairCafe' ad #Perugia - presso #BancaDelTempo - Martedi 30 aprile 2019






#RepairCafePerugia @Cru_rz #RifiutiZeroUmbria

Materiali ecologici: produrre bioplastica diventa facile

Dalla collaborazione tra Olanda e Giappone nasce un processo in un’unica fase che consente la produzione di monomeri derivati dalle piante




















Produrre bioplastica non è mai stato così facile come con il sistema messo a punto da Kiyotaka Nakajima. Lo scienziato, ricercatore, dell’Università di Hokkaido, in Giappone, ha collaborato con Emiel Hensen della Eindhoven University of Technology, in Olanda per realizzare un nuovo processo di sintesi veloce ed efficiente sotto il profilo energetico. E i risultati, pubblicati su ACS Catalysis (documento in inglese), non sembrano deludere le aspettative.

La plastica “vegetale” sta divenendo il materiale di punta per sostituire i polimeri derivati dal petrolio (leggi anche Le alternative alla plastica: ecco i materiali che premiano l’ecologia). La produzione su larga scala incontra però diverse difficoltà. È il caso del polietilene furanoato, polimero a base biologica in grado in teoria di sostituire egregiamente uno dei giganti dell’industria plastica: il polietilentereftalato (PET). Se i due prodotti sono messi a confronto, il PEF vince sul PET per qualità meccaniche e proprietà termiche ma la produzione su larga scala è ostacolata dall’inefficienza di sintesi dei monomeri, i mattoni costitutivi.

Proprio per risolvere questo problema i ricercatori giapponesi e olandesi hanno studiato un processo veloce ed efficiente che richiedesse meno passaggi e soprattutto meno energia. Il punto di partenza è consistito nello sviluppare un composto stabile chiamato HMF-acetale a partire dalla biomassa vegetale che può essere a sua volta convertito con un’efficienza del 95% nei due monomeri del PEF, ossia l’acido 2,5-furandicarbossilico (FDCA) e il glicole etilenico. Il risultato rappresenta un progresso significativo rispetto allo stato attuale della tecnica, superando una limitazione intrinseca dell’ossidazione dell’HMF per produrre bioplastica. I ricercatori osservano che questo metodo ha “meno passaggi di reazione e l’uso di soluzioni altamente concentrate richiederà meno energia rispetto ai processi convenzionali”. Il team è convinto che la nuova tecnica non solo migliorerà la fattibilità della produzione di PEF commerciale nell’industria chimica, ma aiuterà anche a promuovere un uso diffuso delle bioplastiche, oltre a fornire indicazioni per lo sviluppo di altre applicazioni chimiche a base biologica.

fonte: www.rinnovabili.it