Rifiutare il dominio del
consumismo nella vita di ogni giorno, scegliere di non essere schiavi
del lavoro, riscoprire l’agricoltura contadina coltivando un orto,
creare relazioni solidali per lasciare spazio ad autoproduzioni e
scambi. Sono numerose le esperienze con cui, tra informalità e scarsa
visibilità, sempre più persone ripensano i modi non solo di lavorare,
mettendo al centro un forte desiderio di autonomia, ma soprattutto di
vivere. Raccontare e indagare il lavoro vernacolare è l’obiettivo di “Lavoro ecoautonomo” di Lucia Bertell, edito da elèuthera: qui il paragrafo dal titolo “L’orticoltore: «Sicuramente si vive con meno di quanto si pensi»”
Nella campagna di Nuoro incontro
Mauro Cassini, produttore del Gruppo di acquisto solidale Pira Camusina e della rete Biosardinia.
Fa il contadino da alcuni anni, dopo lavori di tipo dipendente.
Ha attraversato il mare per questioni di cuore, come si dice, passando
dalla Confederazione Agricoltori ligure a quella sarda. L’investimento
sugli affetti è andato bene, ma alla cia hanno licenziato, così lui,
ultimo arrivato, si è trovato ad affrontare, non giovanissimo, nuove
scelte lavorative. «Non sapevo come barcamenarmi, ero in Sardegna da sei
mesi e non conoscevo quasi nessuno. Poi a forza di girare ho contattato
il presidente di Biosardinia e lui mi ha invitato a una riunione. Così
ho conosciuto Andrea, ho conosciuto Luciano e Rosalba, e gli altri. Con
Andrea e con i gasisti con cui lui era in contatto ho cominciato a
collaborare e, poco alla volta, sono entrato in questo meccanismo.
Fondamentalmente è stato naturale, quando Andrea ha lasciato sono
subentrato io, senza problemi, dopo un anno e mezzo».
Mauro mi mostra
il suo grande orto dietro la casa,
file ordinate e rigogliose di verdure. Il suo racconto lo raccolgo
seguendolo. Vuole mostrarmi il suo lavoro. «Quando mi sono reso conto
che dovevo re-iniziare mi sono messo alla ricerca di un orto che
soddisfacesse le mie esigenze. Avevo già un’idea di come farlo
perché Andrea era molto in gamba e avevo capito quello che ci voleva.
Ci ho messo dei mesi, ne ho visto parecchi, poi l’avevo
praticamente sotto casa: la persona che me l’ha proposto era un mezzo
parente e quando l’ho visto mi è piaciuto, mi sono reso conto che era
il posto ideale, soprattutto perché c’era acqua a volontà. Certo
era incolto, da rimettere in piedi, però c’era già stato l’orto,
l’avevano abbandonato da tre-quattro anni, e quindi l’ho ripreso in mano
io e ho iniziato da lì. Poi mi sono a mia volta allargato. È un
lavoro che mi soddisfa perché è una cosa che ho sempre avuto idea
di fare,
vengo da una famiglia di
contadini, conosco da sempre gli ortaggi, ho studiato biologia, ho
sempre lavorato in agricoltura e non ci ho messo tanto per calarmi nella
dimensione contadina. Quando mi sono trasferito qui
l’avevo già mezzo pensato: se per caso mi va male, posso buttarmi
sull’orto biologico, ed è andata proprio così».

Gli
chiedo, con delicatezza, come l’aveva presa sua moglie, che aveva
sposato un uomo con un lavoro dipendente e nel giro di poco se lo
ritrova contadino. «Vivo con una persona che non è che mi stressi più di
tanto, e poi lei ha un lavoro fisso, è insegnante, per cui non c’era
un’impellenza. Viviamo in una casa di sua proprietà, abbiamo anche un
figlio piccolo, però ci aggiustiamo, non è che siamo con l’acqua alla
gola. Basta essere, come dicono adesso con una parola che va di moda,
abbastanza sobri; anzi,
basta non essere consumisti.
Io
riesco a produrre quasi il 70 per cento del cibo che serve per me e la
ma famiglia, che non è poco. Mangiamo parecchia verdura e alla fine nel
bilancio familiare non entra un reddito però ci sono dei risparmi.
Quando ho preso questo orto il mio obiettivo era almeno di non andare
in perdita, e infatti ci sono riuscito. Adesso non guadagno più di
settemila euro all’anno, ma il discorso che mi preme di più è che alla
fine riesco a vivere lo stesso.
In
famiglia scambiamo molte cose, dolci, pane, e i vicini con mia suocera
fanno altri scambi, per cui arrivano anche cose da fuori. Non è che siamo mantenuti, è un altro aiuto».
Mauro procede nel suo ragionamento e fa una comparazione tra sé e un
agricoltore che spinge sulla produzione. «Mi rendo conto che c’è gente,
anche qui in Sardegna, che sviluppa una mole di lavoro e produce
svariate volte più di quello che faccio io, però alla fine deve
barcamenarsi per non perderci. A quel punto
che senso
ha fare cinque ettari di pomodori quando alla fine dell’anno arrivi a
pareggiare i costi coi ricavi, con tutto quello che comporta fare la
monocoltura? Lo stress per il territorio, per le piante, per chi lavora…
Con l’agricoltura biologica io faccio la rotazione spinta,
come vedi ci sono sempre dieci tipi di verdure diverse, il terreno lo
uso quasi tutto l’anno, nei cambi di stagione lavoro di più, però dopo,
in estate e in inverno, me la cavo anche con mezza giornata».
.
Passare, alla soglia dei cinquant’anni, da un lavoro d’ufficio a uno che ti mette completamente in gioco non è così facile
e Mauro spiega meglio la sua scelta. «Deve piacerti il lavoro, non è
che lo devi fare per forza, perché se no diventa una schiavitù. Non mi
sono mai tirato indietro quando c’era da lavorare, anche alla cia
lavoravo dieci ore al giorno e poi facevo incontri serali. Ma so anche
che non voglio essere schiavizzato dal lavoro, se no fai una vita grama.
Poi
è bello quando vedo crescere quello che coltivo.
Lavorare in banca a me non dice niente perché è un ufficio
burocratizzato; se però produci, fai un libro o fai artigianato, o anche
insegni (e produci cultura), è qualcosa di tangibile».
Si ferma un attimo, guarda verso il campo e poi riprende a parlare. «
Il lavoro, se non viene gestito in prima persona, se uno non ha un po’ di potere sul lavoro che fa, è quasi sempre una schiavitù.
Io lo so, anche un semplice lavoro dipendente, se è una cosa meccanica,
se ti interessa solo perché alla fine del mese c’è lo stipendio, se non
è una schiavitù è un’alienazione. Mi importa assai se puoi comprarti il
telefono nuovo, la macchina nuova: sono tutti palliativi».
Per finire gli chiedo se qualcosa lo preoccupa. «Certo, penso
al fisico e spero che mi regga perché questo lavoro comporta essere sani
e robusti, ci vuole un po’ di forza fisica perché altrimenti diventa
difficile. Poi, farlo come lo faccio io… il terreno è poco ma il lavoro è
molto manuale. Il trattore l’ho usato quando ho iniziato, ora ho la
motozappa, ho la vanga, ho il decespugliatore. Fra dieci anni spero di
avere ancora un po’ di forza. Ecco, queste sono preoccupazioni».
Lucia Bertell
fonte: comune-info.net