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Commissione UE vara il “Green Consumption Pledge”: impegno delle imprese a migliorare impatto ambientale di prodotti e servizi

Si tratta della prima iniziativa realizzata nell'ambito della nuova agenda dei consumatori. Per aderirvi le aziende devono adottare misure concrete in ambiti specifici e dimostrare i progressi compiuti con dei dati che devono essere resi pubblici



















La Commissione Europea ha varato il suo nuovo Impegno per un consumo verde (Green Consumption Pledge), la prima iniziativa realizzata nell’ambito della nuova agenda dei consumatori. L’impegno per un consumo sostenibile rientra nel patto europeo per il clima, un’iniziativa a livello UE col quale si invitano i cittadini, le comunità e le organizzazioni a partecipare all’azione per il clima e a costruire un’Europa più verde. Con la loro firma, le imprese si impegnano a intensificare il loro contributo alla transizione verde. Gli impegni sono stati messi a punto congiuntamente dalla Commissione e le imprese. Questi impegni mirano a intensificare il contributo delle aziende a una ripresa economica sostenibile e rafforzare la fiducia dei consumatori nelle loro prestazioni ambientali e nei loro prodotti. Il gruppo Colruyt, Decathlon, il gruppo LEGO, L’Oréal e Renewd sono le prime imprese pioneristiche a partecipare a questo progetto pilota. I risultati di questi impegni per un consumo verde saranno valutati tra un anno, prima dell’adozione delle misure successive.

Transizione verde

La transizione verde è una delle priorità fondamentali della nuova agenda dei consumatori, volta ad assicurare la disponibilità di prodotti sostenibili sul mercato dell’UE e di informazioni più adeguate che consentano ai consumatori di compiere scelte informate. Tenuto conto del ruolo fondamentale che l’industria e gli operatori commerciali svolgono a monte, è essenziale che le proposte legislative siano integrate da iniziative volontarie e non normative rivolte ai pionieri del settore desiderosi di sostenere la transizione verde. L’impegno verde è una delle iniziative non normative della nuova agenda dei consumatori.

L’impegno per il consumo verde è una delle iniziative intraprese dalla Commissione per consentire ai consumatori di compiere scelte più sostenibili. Un’altra iniziativa è la proposta legislativa sulle giustificazioni delle dichiarazioni ambientali che la Commissione adotterà nel corso del 2021. Questa iniziativa imporrà alle imprese di dimostrare la veridicità delle affermazioni relative all’impatto ambientale dei loro prodotti e servizi mediante l’utilizzo di metodi standard per la loro quantificazione. L’obiettivo è rendere le dichiarazioni affidabili, comparabili e verificabili in tutta l’UE, riducendo così l’ecologismo di facciata (il comportamento con cui le imprese presentano il loro impatto ambientale in modo ingannevole). Ciò dovrebbe aiutare gli acquirenti e gli investitori commerciali a prendere decisioni più sostenibili e ad aumentare la fiducia dei consumatori nei marchi di qualità ecologica e nelle informazioni sull’impatto ambientale.

Dettagli del Green Consumption Pledge

L’impegno per il consumo verde si basa su un insieme di cinque impegni fondamentali. Per aderirvi, le imprese si impegnano a realizzare azioni ambiziose per migliorare il loro impatto ambientale e aiutare i consumatori a effettuare acquisti più sostenibili. Devono adottare misure concrete in almeno tre dei cinque settori oggetto dell’impegno e devono dimostrare i progressi compiuti con dei dati che devono essere resi pubblici. Ogni impresa aderente collaborerà con la Commissione in piena trasparenza per assicurare che i progressi compiuti siano affidabili e verificabili. I cinque ambiti oggetto dell’impegno sono i seguenti:
calcolare l’impronta di carbonio dell’impresa, catena di approvvigionamento compresa, avvalendosi della metodologia di calcolo o del sistema di gestione ambientale messi a punto dalla Commissione, e stabilire procedure adeguate improntate al dovere di diligenza al fine di conseguire riduzioni dell’impronta in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi.
calcolare l’impronta di carbonio di determinati prodotti di punta dell’impresa, utilizzando la metodologia approvata dalla Commissione, e conseguire riduzioni dell’impronta dei prodotti selezionati, rendendo pubblici i dati dei progressi realizzati;
aumentare la quota dei prodotti o servizi sostenibili nelle vendite totali dell’impresa o del comparto aziendale selezionato;
assegnare una parte della spesa destinata alle relazioni pubbliche dell’impresa alla promozione di pratiche sostenibili in linea con l’attuazione, da parte della Commissione, delle politiche e delle azioni del Green Deal europeo;
assicurare che le informazioni sulle impronte di carbonio dell’azienda e dei prodotti fornite ai consumatori siano facilmente accessibili, precise e chiare, e mantenerle aggiornate nel caso di eventuali riduzioni o aumenti di tali impronte.

L’iniziativa Impegno per il consumo verde si incentra su prodotti non alimentari ed è complementare al codice di condotta che sarà varato domani, 26 gennaio, nell’ambito della strategia Dal produttore al consumatore. Il codice di condotta riunirà i portatori di interessi del sistema alimentare affinché assumano impegni a favore di pratiche commerciali e di marketing responsabili.

Didier Reynders, Commissario per la Giustizia, ha dichiarato: “L’autunno scorso, quando abbiamo pubblicato la nuova agenda dei consumatori, volevamo mettere i consumatori in condizione di compiere scelte ecologiche. Per operare scelte consapevoli, hanno bisogno di maggiore trasparenza in merito all’impronta di carbonio e alla sostenibilità delle imprese: è questo l’oggetto dell’iniziativa odierna. Accolgo con particolare piacere l’adesione delle cinque imprese a questa iniziativa e plaudo al loro impegno a favore di un consumo sostenibile al di là di quanto richiesto dalla legge. Attendo con interesse di collaborare con molte altre imprese per promuovere ulteriormente il consumo sostenibile nell’UE”.
Prossime tappe

Tutte le imprese dei settori non alimentari e le imprese del settore al dettaglio che vendono prodotti alimentari o di altro tipo interessate ad aderire all’impegno verde possono contattare la Commissione europea entro la fine di marzo 2021.

Questa fase pilota iniziale dell’impegno per il consumo verde sarà completata entro gennaio 2022. Prima di adottare ulteriori misure, il funzionamento di questa iniziativa sarà valutato in consultazione con le imprese partecipanti, le organizzazioni dei consumatori pertinenti e altri portatori di interessi.

fonte: www.ecodallecitta.it


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L’industria della plastica riciclata sta affogando in un mare di petrolio a basso costo

Prezzi delle materie vergini in caduta libera e stop alle produzioni causa pandemia mettono a rischio il comparto in tutta Europa: «Se non verranno prese contromisure il riciclo della plastica cesserà di essere redditizio»




















«Se la situazione dovesse persistere e non verranno prese misure per porre rimedio, il riciclo della plastica cesserà di essere redditizio, ostacolando il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Ue e mettendo a rischio la transizione verso l’economia circolare». L’allarme arriva direttamente da Ton Emans, presidente di Plastics recyclers Europe: l’associazione che riunisce le industrie che riciclano plastica in Europa spiega che i propri affiliati stanno fermando gli impianti a causa degli sviluppi di mercato segnati dalla pandemia Covid-19.
I problemi più gravi per il comparto sono la carenza di domanda, dovuta al lockdown, e ai bassi prezzi delle materie plastiche vergini – legati a doppio filo con quelli del petrolio, da cui derivano – che sono crollati seguendo il trend generale delle commodity. Tutto questo mette a rischio decine di migliaia di posti di lavoro – solo nel nostro Paese il settore della trasformazione della plastica vale oltre 30 miliardi di euro e occupa 110mila persone – ma espone anche a importanti passi indietro nell’economia circolare, indirizzando maggiori flussi verso inceneritori e discariche (sebbene in Italia scarseggino pure questi impianti, con tutto ciò che comporta in termini di spazi per l’illegalità). Al proposito, è opportuno ricordare che nel mentre crescono le preoccupazioni per l’impiego di plastica monouso, pervasiva nei dispositivi di protezione individuale imposti dalla pandemia, che cittadini incivili continuano ad abbandonare ovunque.
Visto il contesto Plastics recyclers Europe chiede sostegno all’Ue e agli Stati membri, in questa fase in cui si gettano le basi per l’auspicata ripresa economica; a rischio del resto ci sono gli stessi obiettivi Ue in merito alla riduzione della plastica monouso e alla promozione di quella riciclata, insieme agli obiettivi minimi di riciclo imposti dall’ultimo pacchetto di direttive sull’economia circolare. Per risolvere la situazione non basteranno però dei semplici sussidi.
Già quattro anni fa un crollo nei prezzi delle materie prime, trainate dal petrolio, portò sull’orlo della crisi il comparto. Il problema di fondo sta proprio nelle dinamiche di mercato petrolifere, dominate dalla finanziarizzazione che alimenta un’intrinseca volatilitàè stato l’Economist, poche settimane fa, a notare come i prezzi dell’oro nero siano tornati ai livelli del 1860 e sfida chiunque a trovare un orientamento nel mercato a lungo termine.
Allo stesso tempo, a drogare il mercato del petrolio e degli altri combustibili fossili tenendo bassi i prezzi concorre una montagna di sussidi pubblici – stimati nell’ordine dei 400 miliardi di dollari l’annocirca 16 miliardi di euro in Italia – e la totale assenza di un giusto prezzo, che non consideri solo i costi di produzione ma anche gli impatti ambientali del prodotto.
Di fronte a questa concorrenza sleale sarebbe dunque opportuno agire su più fronti. In primis tagliando i sussidi ai combustibili fossili (nel nostro Paese l’economia nel suo complesso ne beneficerebbe, spiegano dal ministero dell’Ambiente) e/o introducendo una carbon tax (idem). Rimane in ogni caso indispensabile garantire un mercato di sbocco per le plastiche riciclate, attraverso strumenti come crediti d’imposta ad hoc (chiesti dal comparto industriale nazionale ma mai decollati) e ancor prima tramite gli acquisti della pubblica amministrazione: sotto questo profilo il Green public procurement esiste già, ma ancora non riesce a incidere.
fonte: www.greenreport.it


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Economia circolare: ridurre i rifiuti in discarica, più impianti e un mercato delle materie prime seconde

Ridurre drasticamente la quantità di rifiuti da smaltire in discarica o all'inceneritore richiede la realizzazione di molti impianti di riciclo e riuso dei rifiuti e un solido mercato delle materie prime seconde





















Ancora troppi rifiuti urbani vengono smaltiti in discariche collocate sul territorio nazionale, si tratta di valori alti, nonostante negli ultimi anni i rifiuti urbani destinati alla discarica siano stati dimezzati, seppure con diversità da territorio a territorio del Paese. La situazione andrà migliorando con il recepimento del pacchetto europeo sull'economia circolare che prevede la riduzione dello smaltimento in discarica, che dovrà scendere al 10% entro il 2035.
Al tempo stesso, la normativa sopra richiamata pone altri importanti obiettivi, quali:
  • il riciclaggio entro il 2025 per almeno il 55% dei rifiuti urbani (60% entro il 2030 e 65% entro il 2035)
  • il riciclaggio del 65% degli imballaggi entro il 2025 e il 70% entro il 2030
  • la raccolta separata dei rifiuti domestici pericolosi (entro il 2022), dei rifiuti organici (entro il 2023) e dei rifiuti tessili (entro il 2025).
Oggi, quindi, serve
  • aumentare la qualità della raccolta differenziata per garantire la preparazione al riutilizzo e riciclaggio degli stessi
  • investire in impianti innovativi che diano reale attuazione al modello di economia circolare.
Legambiente ha fatto alcune proposte contenute in diversi dossier, come, ad esempio, "Rifiuti zero, impianti mille" dove evidenzia come, nei prossimi anni, sarà necessario creare:
  • nuovi impianti di riciclo e riuso in particolare di trattamento e recupero della frazione organica (digestione anaerobica e compostaggio)
  • un mercato delle materie prime seconde.
Con la recente approvazione della legge n. 128 del 2 novembre 2019 di conversione del decreto “Crisi aziendali”, con cui si da una prima definizione alla complessa materia della disciplina giuridica della cessazione della qualifica di rifiuto, attraverso una nuova formulazione dell’art. 184 ter del D.lgs. 152/2006 relativo all’end of waste, si cerca di dare certezze a quelle imprese che operano nel settore dei sottoprodotti.
Al tempo stesso, sarà anche necessario applicare, "a largo raggio", la normativa sul GPP (Green Public Procurament), i cui obblighi sono disattesi, secondo Legambiente, da molte Pubbliche Amministrazioni.
Gli acquisti verdi (Green Public Procurament) costituiscono, infatti, uno dei driver principali per affermare l’economia circolarequesto mercato può essere implementato soprattutto dagli enti pubblici, per i quali è già previsto l'obbligo di acquistare materiali riciclati in una certa percentuale.
Purtroppo, come sottolinea l'associazione ambientalista, ancora oggi molte stazioni appaltanti pubbliche non rispettano i criteri ambientali minimi (CAM) e questo ostacola la creazione di un mercato solido dei materiali riciclati. L’Osservatorio Appalti Verdi di Legambiente, infatti, fa sapere che su 106 comuni interpellati, solo 88 hanno fornito risposte.
L’unica città che dichiara di applicare sempre i CAM è la città di Bergamo, mentre le città che hanno una percentuale di applicazione tra il 80 e l’99% rispetto ai 15 CAM monitorati sono: Ancona, Ferrara, Modena, Treviso, Udine e Vicenza. Questi comuni rappresentano il 7% dei comuni capoluogo.

I criteri minimi maggiormente utilizzati sono quelli relativi all’uso della carta (72,7%), agli strumenti quali uso delle stampanti e toner (58%), ai servizi di pulizia (52,3%). Le percentuali si abbassano notevolmente quando si esamina il tasso di attuazione del CAM sugli arredi per interni (39,8%), sulla ristorazione collettiva (37,5%), sull’illuminazione pubblica (34,1%). Edilizia (19,3%), gestione dei rifiuti (19,3%) e arredo urbano (18,2%) sono i contesti fanalino di coda che chiudono la classifica.
fonte: http://www.arpat.toscana.it

Acquisti verdi, il ministro Costa punta sui Cam e lancia il brand “Ecologia integrale”

«Plastic free non è una guerra all’industria»



















Criteri ambientali minimi all’interno del Collegato ambientale. E Cam più facili di come sono adesso. Sono queste le promesse che il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha fatto nell’ambito del forum Compraverde Buy Green organizzato dalla Fondazione Ecosistemi e giunto alla sua tredicesima edizione, che si è conclusa venerdì scorso a Roma. «Voglio che i Cam funzionino – ha continuato il ministro – e mi impegnerò al massimo per far sì che avvenga, anche perché mi serviranno per definire un nuovo brand, quello dell’Ecologia integrale, che unisca alla sostenibilità ambientale anche quella sociale, perché non è ammissibile premiare un prodotto green che è stato fatto per esempio sfruttando il lavoro dei bambini».

Nel suo intervento Costa non ha potuto fare a meno di soffermarsi sulla cosiddetta ‘tassa sulla plastica’, chiedendo aiuto alle imprese e distinguendo tra plastica ‘cattiva’ e plastica ‘buona’: «Plastic free non è una guerra all’industria – ha detto – aiutateci con proposte concrete e ben fatte perché questa tassa sia applicata solo sulle plastiche né riciclate né riciclabili. Anche perché la norma europea sull’Iva agevolata per la plastica riciclata che dovrebbe arrivare a breve mi piace tantissimo e spero a gennaio di cominciare a lavorarci per un pronto recepimento anche nel nostro Paese».

Sollecitato da una domanda dal pubblico il ministro ha poi fatto chiarezza sulle terre e rocce da scavo, che non si possono riutilizzare in loco. «E’ un problema di caratterizzazione del materiale – ha spiegato – però stiamo cercando di fare in modo che laddove le caratterizzazioni diano esito positivo si possano utilizzare in loco risparmiando trasporti ed emissioni».

Infine nell’elencare le cose fatte a tempo di record (il decreto clima) quelle su cui si stalavorando (legge di stabilità e collegato ambientale) e quelle in arrivo (i vari cam che vedranno la luce nei prossimi mesi), il ministro si è permesso anche una battuta politica: «non chiedetemi perché in un mese abbiamo fatto molte più cose che in tutto il governo Conte1 – ha concluso – diciamo che si è aperta una nuova stagione, davvero green, dove la sostenibilità è un pilastro condiviso da tutti».

fonte: www.greenreport.it

Riciclo delle plastiche eterogenee tra difficoltà e prospettive: intervista a Rossano Ercolini

Rossano Ercolini, Zero Waste Europe Foundation: “Con il progetto Eco-Pulplast abbiamo dimostrato che dalle plastiche eterogenee è possibile produrre prodotti di qualità. E ciò che rappresenta un problema, lo scarto di pulper che va in discarica o incenerito, diventa un’opportunità” 

















Il riciclo delle plastiche eterogenee è ancora difficile. Per quale motivo? Lo abbiamo chiesto a Rossano Ercolini, Zero Waste Europe Foundation: “Da punto di vista tecnico perché suppone processi di additivazione. A differenza dei polimeri omogenei, le plastiche eterogenee non legano tra di loro e hanno quindi bisogno di leganti”. Ma ciò impedisce di fabbricare nuovi prodotti? No. “Una volta che abbiamo presente qual è il manufatto da produrre esistono ricette, prodotto per prodotto, che permettono di aggiungere i polimeri essenziali per dar vita a un prodotto di plastica seconda vita. Questo tipo di produzione presuppone un processo di estrusione integrato con lo stampaggio. La novità importante è infatti connettere le linee di estrusione con lo stampaggio finale in base a quello che si vuole produrre”. Se volessimo fare un paragone culinario, come ogni piatto ha i suoi ingredienti, ogni prodotto ha la sua additivazione.
Ci sono poi le difficoltà di mercato. Ercolini ricorda le forme di “incentivazione dell’industria del plasmix” che permetterebbero di avere un mercato per questi manufatti “Andrebbe applicata la legislazione sugli acquisti verdi da parte della pubblica amministrazione. In questo modo verrebbe fornita una sorta di corsia preferenziale al mercato dei prodotti in plastica seconda vita. Gli appalti pubblici, che pesano il 7% del PIL italiano, dovrebbero prevedere l’utilizzo per almeno il 30% di prodotti ottenuti con materiali da riciclo. Gli enti pubblici che non applicano questa norma dovrebbero essere sanzionati, cosa che invece non avviene” sottolinea Ercolini che si appella all’associazione dei Comuni: “L’Anci deve chiedere che si rispetti il green public procurement e si dia più cogenza alla normativa vigente per obbligare ad acquistare verde. Da solo questo mercato, salvo eccezioni, ha difficoltà a superare la fase di start up iniziale”.
Nonostante le difficoltà richiamate sopra, questi prodotti stanno diventando sempre più interessanti. È il caso dell’arredo di parchi e giardini dove la funzionalità dei prodotti in plastica eterogenea si fa preferire in sostituzione del legno. Una testimonianza di riciclo delle plastiche eterogenee arriva poi dalla zona di Lucca dove nel 2015 ha preso vita il progetto Life Eco-Pulplast per il riciclo degli scarti plastici di cartiera. Capofila del progetto è Selene, tra le aziende leader in Italia nel settore degli imballaggi flessibili in plastica. Gli altri partner sono Lucense, organismo di ricerca e soggetto gestore del Polo di Innovazione di Regione Toscana per il settore cartario, Serv.eco., consorzio delle cartiere del Distretto Cartario lucchese e Zero Waste Europe Foundation.
Già segnalato sul sito del Ministero dell’Ambiente come “progetto del mese” lo scorso giugno, il progetto Eco-Pulplast ha portato all’ubicazione nell’azienda Selene di un impianto in grado di trasformare lo scarto di pulper che proviene dalle cartiere. Questo scarto è formato principalmente dalla frazione plastica che impropriamente finisce nei maceri della raccolta differenziata della carta. Si tratta di plastica eterogenea: bustine, poliaccoppiati, sacchetti, etc. Grazie al progetto questo scarto oggi si trasforma in centinaia di nuovi pallet prodotti con plastica seconda vita. “L’obiettivo - afferma Ercolini - è produrre milioni di pezzi in un anno sostituendo il ricorso ai pallet in legno con pallet seconda vita. Dal punto di vista tecnico abbiamo visto che è possibile. Il prodotto finale è esteticamente bello, scomponibile e può essere soggetto a nuovo riciclo quando non è più riparabile”.
“Si tratta certo di un progetto pilota ma abbiamo dimostrato che dalle plastiche eterogenee è possibile produrre prodotti di qualità. E ciò che rappresenta un problema, lo scarto di pulper che oggi va in discarica o viene incenerito, diventa un’opportunità. Mi auguro che i soggetti interessati inizino a prendere in considerazione il recupero del plasmix sotto forma di materia e non di energia. Sullo sfondo - conclude Ercolini - rimane tuttavia la troppa plastica in circolazione, soprattutto usa e getta. Cominciamo a ridurne il ricorso così liberistico e irrazionale che ne viene fatto. Il problema della qualità ambientale e la tutela della biodiversità marina ci impongono una pausa di riflessione su questo tema per investire di più sulla salute dei mari e sulla riduzione delle plastiche”.

fonte: www.ecodallecitta.it

Parte dalla Toscana la nuova proposta di legge per incentivare (davvero) il riciclo in Italia

La Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti al lavoro su una pdl in grado di sostenere «il riacquisto di beni realizzati con materiale riciclato»



















È inutile scorrere le oltre 400 pagine del primo Catalogo dei sussidi ambientali pubblicato dal ministero dell’Ambiente in cerca di incentivi nazionali al riciclo: in Italia non esistono. Mentre le conferenze sull’economia circolare si moltiplicano a ritmo incalzante, tra le pieghe degli (almeno) 15,7 miliardi di euro che lo Stato spende ogni anno in sussidi favorevoli all’ambiente – a loro volta affiancati da (almeno) 16,1 miliardi di euro in sussidi dannosi – nemmeno un euro è stanziato a favore del riciclo. Nel lungo elenco figurano gli incentivi rivolti al mondo dell’agricoltura, a quello dell’energia o a quello dei trasporti, le aliquote Iva agevolate. Per una qualche paradossale logica in Italia si incentiva la raccolta differenziata come anche la termovalorizzazione, ma non quanto d’importante sta nel mezzo: il riciclo.
Una prospettiva che dopo anni d’ignavia potrebbe presto registrare un sussulto. Ieri il ministro dell’Ambiente è arrivato in Toscana, a Pontedera: da una parte per celebrare l’inizio dei lavori necessari a realizzare un importante impianto di trattamento dell’organico (20 milioni di euro finanziati dall’azienda locale Geofor, 44.000 le tonnellate/anno di rifiuti organici che potrà gestire), dall’altra per visitare un’eccellenza di livello internazionale in fatto di economia circolare, Revet.
Proprio in questi giorni – comunicano dall’azienda – il ministero dell’Ambiente ha deciso di portare l’esperienza di Revet in Cina, per rappresentare l’economia circolare made in Italy all’International expo di Shanghai, dove Revet è presente con un proprio stand e con i propri vertici aziendali all’interno del padiglione italiano. Ieri, a fare gli onori di casa con il ministro ci hanno pensato il direttore dello stabilimento Massimo Rossi insieme al presidente e all’amministratore delegato di Alia Spa – l’azienda nata dalla fusione dei gestori dell’Ato Centro, che ora rappresenta il principale azionista di Revet – rispettivamente Paolo Regini e Livio Giannotti (nella foto).
Qui 170 dipendenti si occupano ogni anno di 160mila tonnellate di rifiuti, ovvero le raccolte differenziate di plastica, vetro alluminio, acciaio e tetrapak provenienti dall’80% della Toscana, che Revet valorizza e avvia a riciclo. Il fiore all’occhiello dell’azienda è l’attività di riciclo del plasmix, operata nell’impianto di Revet Recycling, dove quegli imballaggi di plastica “difficili” (che non sono né bottiglie né flaconi) vengono riciclati e trasformati in granuli con i quali si stampano nuovi oggetti di plastica. Un riciclo a km zero che rappresenta ormai un punto di riferimento in Italia e un modello di buone pratiche nell’ambito del ciclo integrato dei rifiuti: già nel 2013 lo stabilimento di Pontedera era stato visitato dall’allora ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, mentre nel febbraio scorso ha ospitato la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti che adesso «sta lavorando – hanno anticipato ieri in Revet – a una proposta di legge per incentivare il riciclo e soprattutto il riacquisto di beni realizzati con materiale riciclato».
Un grande merito per la Commissione, anche se tutto dipenderà da quali saranno gli strumenti messi in campo nella proposta di legge. Le opportunità che meriterebbero di essere esplorate non mancano: detrazioni fiscali per mezzo del credito di imposta sull’acquisto di prodotti e arredi in materiale riciclato post consumo sono un esempio, ma un grande passo in avanti sarebbe anche solo rendere effettiva la legge vigente. Dal 2002 la Pubblica amministrazione avrebbe l’obbligo di compiere per almeno il 30% acquisti verdi (Gpp), obbligo rincarato nel 2015 con il Collegato ambientale approvato dall’attuale governo, ma i controlli e le conseguenti sanzioni non ci sono. E gli acquisti verdi rimangono al palo, con conseguenze fortemente limitanti soprattutto su quei rifiuti – come il plasmix, che da solo arriva a rappresentare oltre il 50% di tutti gli imballaggi in plastica raccolti in modo differenziato – che comportano costi industriali maggiori rispetto alla lavorazione della materia vergine per essere riciclati, oltre a un mercato di sbocco ancora embrionale che frena le possibili economia di scala.
Come ormai dovrebbe insegnare la più che decennale esperienza con le energie rinnovabili, perché anche la materia possa diventare rinnovabile è indispensabile una politica industriale coerente e di largo respiro (il che significa non esaminare soltanto la coda del problema, i rifiuti, ma l’intera catena produttiva a partire dalla miniera dove vengono estratte le materie prime), con risorse economiche dedicate. A guadagnarci non sarebbe “solo” l’ambiente in cui tutti viviamo, ma la competitività di tutto il sistema socio-economico italiano: quello di un forte Paese manifatturiero, senza però materie prime.

fonte: www.greenreport.it

Istat, qualità dell’ambiente urbano: che fine hanno fatto gli acquisti verdi dei comuni italiani?

Solo 26 capoluoghi su 116 adottano tutti i Criteri ambientali minimi previsti dalla legge per i propri beni e servizi
















L’economia circolare in Italia si predica molto ma si pratica poco, come conferma anche l’ultimo rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano – diffuso oggi da Istat. Nel dossier, che prende in esame i 116 capoluoghi di provincia (o città metropolitane) italiani, l’Istituto nazionale di statistica affronta sia il tema della gestione dei rifiuti urbani – che, ricordiamo, sono appena un quarto del totale – sul territorio, sia la performance dei municipi in fatto di acquisti verdi (o Gpp): un fattore chiave che ricomprende anche l’acquisto di prodotti in materiali riciclati.
«Sul fronte della gestione dei rifiuti urbani – osserva l’Istat –, nonostante la generalità delle amministrazioni abbia investito nell’incremento della raccolta differenziata, si è ancora lontani dall’obiettivo nazionale del 65% (la media dei capoluoghi, nel 2014, superava di poco il 38%)». A crescere è anche la modalità di raccolta differenziata porta a porta, ormai presente – in varie modalità – in tutti i comuni analizzati tranne Trieste e Crotone, ma il rapporto sottolinea come «le misure adottate dalle amministrazioni per migliorare la qualità dell’ambiente urbano, nonostante la loro moltiplicazione, non riescono a incidere significativamente su alcune criticità strutturali», tra le quali spicca proprio – insieme ai servizi idrici e al contenimento delle emissioni – la «gestione dei rifiuti». La raccolta differenziata rimane uno strumento essenziale, ma sterile se fine a sé stesso: è determinante aumentarne la qualità oltre la quantità, e finalizzarla all’effettivo riciclo dei materiali raccolti, per poi re-immetterli sul mercato.
Un punto, quest’ultimo, assai dolente per le amministrazioni pubbliche italiane. «L’adozione dei criteri ambientali minimi (Cam), cui l’amministrazione può scegliere di attenersi nelle pratiche di acquisto – i cosiddetti acquisti verdi (Gpp) – favorisce lo sviluppo di prodotti e servizi a ridotto impatto ambientale, attraverso la leva della domanda pubblica», ricordano dall’Istat, sottolineando che si tratta di un «parametro molto rilevante, anche alla luce dell’evoluzione normativa». Le lacune iniziano però già a livello nazionale, dato che in Italia la normativa in merito «è riassunta nel Piano d’azione nazionale per gli acquisti verdi (Pan Green public procurement), aggiornato con D.M. 10 aprile 2013». Da allora il ministero dell’Ambiente sta ancora «progressivamente procedendo alla pubblicazione dei decreti attuativi per tutte le tipologie di acquisto da parte della Pa».
Anche dai dati raccolti a livello municipale risulta che solo 79 comuni su 116 adottano i Cam per almeno alcune tipologie di beni e servizi acquistati, ed appena 26 comuni (poco più di un quarto del totale) dichiara di adottare i Cam al momento previsti per i propri acquisti di beni e servizi. Un po’ poco, con una scarsa propensione all’acquisto sostenibile da parte dei comuni in vari ambiti: su 17.500 veicoli a motore in dotazione alle amministrazione, quelli elettrici o ibridi sono in media il 4,1% (comunque in aumento del 19,2% sul 2014), quelli a metano l’82%, a Gpl il 5%. Il restante 82,8% è a benzina o gasolio. «Molti capoluoghi non hanno effettuano acquisti di mezzi di trasporto – sottolineano però dall’Istat – e quindi non hanno potuto sostituire quelli più inquinanti».
Anche l’austerità dunque fa male all’ambiente, ma è necessario riconoscere come senza la diffusione capillare degli acquisti verdi (pur previsti per legge), soprattutto nel mercato dei materiali riciclati che necessitano ancora di adeguato sostegno pubblico, rimarrà inesorabilmente aperto l’anello fondamentale nella catena dell’economia circolare. Quello che permette di chiudere realmente il cerchio ri-acquistando i materiali prima raccolti in modo differenziato con impegno (e costi economici) dalla cittadinanza e infine riciclati entro le varie filiere industriali.

fonte: www.greenreport.it

Il ruolo dei servizi pubblici locali per raggiungere gli obiettivi Onu di sviluppo sostenibile

Giovannini (Asvis): «Preoccuparsi del bene comune è un obbligo. Elemento discriminante non solo per le imprese ma per il mondo»
servizi pubblici locali
L’Italia è molto indietro nel percorso che dovrà portarla a raggiungere i 17 obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile al 2030 che anche il nostro Paese ha sottoscritto un anno fa. Secondo il rapporto recentemente pubblicato dall’Asvis, in questo percorso, l’Italia risulta infatti in «26esima posizione sui 34 paesi Ocse». È necessario accelerare, e una buona spinta potrà arrivare dalle imprese di servizi pubblici locali.
È quanto sostenuto da Enrico Giovannini, ex ministro e ora portavoce di Asvis, nel corso del convegno promosso ieri a Roma da Utilitalia, associazione che riunisce i soggetti operanti nei servizi pubblici dell’acqua, dell’ambiente, dell’energia elettrica e del gas. «Preoccuparsi del bene comune è un obbligo. È un elemento discriminante non solo per le imprese – ha rilevato  Giovannini – ma per il mondo. Oggi o cambiamo il mondo o al 2030 il Pianeta collasserà. Abbiamo 17 obiettivi sullo sviluppo sostenibile. Tra questi – ad esempio –  il fatto che entro il 2020 tutte le città dovranno dotarsi di strumenti per la resilienza. È nell’ambito locale che le imprese di servizi pubblici hanno un ruolo fondamentale. Coinvolgere i cittadini in un programma di educazione per lo sviluppo sostenibile».
Non a caso anche Utilitalia contribuisce a formare la compagine Asvis. «Non c’è futuro per l’impresa che non si preoccupi del miglioramento della società – ha dichiarato il presidente Utilitalia, Giovanni Valotti – Tutela dell’ambiente, attenzione alle persone, solidarietà, creazione di opportunità per i meritevoli, sono i pilastri irrinunciabili di un’impresa moderna e responsabile. L’unica che possa sopravvivere nel lungo periodo».
Secondo Utilitalia nei piani industriali delle imprese queste politiche possono svolgere un ruolo centrale, sia per la crescita sostenibile del Paese che per il raggiungimento degli obiettivi di Agenda 2030, i 17 obiettivi di sviluppo sostenibili (SDGs  – Sustainable Development Goals) votati dalle Nazioni Unite nel settembre 2015. Nello studio della Fondazione Utilitatis – analisi di benchmarking sulla sostenibilità come leva di qualità e di sviluppo delle utilities  – emerge infatti che il 75% delle aziende di servizi pubblici del panel analizzato, redige il bilancio di sostenibilità e che nel 65% dei casi questo viene approvato dal consiglio di amministrazione. Aziende che agiscono sulle economie territoriali impiegando il 52% della spesa per fornitori locali. Realtà d’impresa che producono il 44% dell’energia con fonti rinnovabili e i cui termovalorizzatori – tanto per fare un esempio – hanno emissioni molto al di sotto dei limiti stabiliti per legge (85% in meno del limite stabilito).
«C’è tanta retorica della sostenibilità e qualche pregevole documento ma le imprese competitive hanno la responsabilità sociale quale componente essenziale e valore guida della proprio strategia – ha concluso Vallotti – Sullo sfondo emerge una nuova concezione di impresa, fondata sulla ricerca di un profitto di qualità, capace di generare valore per tutti i portatori di interesse, a partire dai cittadini. È tutto ancor più vero se ci si occupa di servizi di pubblica utilità. L’orizzonte a cui tendere è quello di imprese che fanno bene, facendo del bene. Tra queste, sempre più, nei prossimi anni troveremo le public utilities meglio gestite e più competitive».

fonte: www.greenreport.it

L'Alveare che dice sì, il primo di Milano è nato in via Paolo Sarpi

Giovani e QuartieriRicicloni. Stefania Marucci racconta come il primo "Alveare che dice sì" di Milano sia nato in piena Chinatown, presso lo spazio coworking Impact Hub, in via Paolo Sarpi 8
Immagine: L'Alveare che dice sì, il primo di Milano è nato in via Paolo Sarpi
“L'Alveare che dice sì” e il suo slogan “Non mangiare con gli occhi chiusi” sono un'idea nata in Francia nel 2012 - "La Ruche que dit Oui" - e arrivata in Italia, la prima volta, a Torino, presso il Bar Città di Piazza Riccardo Cattaneo 16. Il racconto è di Stefania Marucci, gestrice dell'Alveare di via Paolo Sarpi 8, presso Impact Hub, spazio di coworking e incubatore di startup innovative, di cui lei è Community Manager. Se via Paolo Sarpi 8 è l'indirizzo del primo Alveare di Milano, oggi in città se ne possono contare quasi una decina, compresi quelli “in via di apertura”.
Non ci vuole un grande spazio per fare un Alveare, la base può essere un locale pubblico, come un bar o un negozio, oppure uno spazio in un condominio . “Prima abbiamo costruito la community dei consumatori – ci racconta Stefania - poi cercato i produttori lombardi locali”. L'obbiettivo degli Alveari è infatti quello di far conoscere ai cittadini i produttori alimentari vicini, scoprendo "come mangiare meglio, sostenendo l'agricoltura locale". Si può dire che sia un GAS - Gruppo di Acquisto Solidale - ma è meglio dire GAS 2.0. L'Alveare infatti si basa su internet e i social network, perchè i prodotti si vedono, ordinano e comprano online, con carta di credito. Naturalmente c'è bisogno di un ordine minimo, se no il produttore locale non si imbarca nel trasporto, visto anche il traffico di città come Milano. E naturalmente il produttore porta solo i prodotti alimentari che gli sono stati ordinati; "non facciamo un mercatino", precisa Stefania.
“Certo, si dice KM0, ma ad essere precisi qui in Paolo Sarpi 8 la media distanza dei produttori è di poche decine di km, ma dev'esserci sempre la convenienza e sostenibilità del viaggio". Qui il mercoledì pomeriggio non arrivano solo formaggi - come quelli di capra dell'Allevamento e caseificio della Gabbana, a Cassano d'Adda - pomodori e insalate, mele o pere, ma anche prodotti più particolari – basta farsi un giro sul sito web – come funghi, conserve, peperoni secchi e addirittura lo zafferano della Brianza, dei Mastri Speziali, direttamente dal produttore al consumatore.
L'Alveare che dice sì, il primo di Milano è nato in via Paolo Sarpi
Gli iscritti alla community di Paolo Sarpi sono attualmente 540, gli ordini vengono fatti fino al giorno prima, qui la media è di una 20ina di ordini alla settimana. Ci si ritrova tutti poi il giorno della consegna, di solito nel tardo pomeriggio, quando arrivano i prodotti e i milanesi hanno così la possibilità di conoscere di persona gli agricoltori/allevatori locali.
Perché gli Alveari sono importanti anche dal punto di vista ambientale? “E' un sistema di spesa che non prevede imballaggi spiega Stefania - fa comprare solo quello di cui abbiamo davvero bisogno, “non ad occhi chiusi”, limitando così gli sprechi. Ci fa comprare il necessario, se avanzano delle cose il mercoledì ce le cuciniamo qui, nella cucina condivisa di Impact Hub". E non va dimenticato che anche Impact Hub, spazio co-working e incubatore di start-up, è un progetto sostenibile, da un punto di vista ambientale. "Il riciclo e la corretta raccolta differenziata sono anche la nostra filosofia. Impact Hub è uno spazio costruito con arredamenti e installazioni di design realizzate con materiale di riciclo, come la nostra libreria".

L'Alveare che dice sì, il primo di Milano è nato in via Paolo Sarpi
Tra poco però l'Impact Hub di Paolo Sarpi si trasferirà in via Aosta 4 (Mac Mahon), sempre Zona 8, la stessa di via Paolo Sarpi, e anche l'Alveare passerà la mano a quello già attivo in zona piazza Diocleziano, via Losanna 46, presso il locale Off Side, gestito da Ileana Iaccarino. Un Alveare che ha scelto di seguire una filosofia ancor più speciale nella scelta dei fornitori: alcuni di quelli selezionati, infatti, sono aziende agricole ad impatto sociale, che impiegano i guadagni reinvestendo in attività di recupero per persone con disturbi mentali, problemi fisici, di alcolismo o di tossicodipendenza.

fonte: http://www.ecodallecitta.it